Le nove anime di Fabrizio De André
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Le nove anime di Fabrizio De André

Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo. Anime Salve di Fabrizio De André appartiene alla seconda categoria.

Il fatto è che gli è successa una disgrazia, la morte, e in Italia su questo c'è una morale un po' strana, bigotta, per la quale la morte è una specie di beatificazione. Faber è stato deificato, si è costruito un personaggio finto, lui era molto più divertente, vario, non poteva essere schematico come un anarchico cattivo e incazzato. Era allegro, divertente, paradossale, disposto a cose molto normali, invece l'hanno confinato in quella zona.

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Questo diceva, a proposito del suo compagno di avventure Fabrizio De André, Paolo Villaggio, citazione che per ovvie analogie ho incluso anche nell'articolo in morte di quest'ultimo. E in effetti come non pensare a De André come a un santino, tirato fuori spesso e volentieri quando si vuole un comodo esempio di anarchismo D.O.C., senza macchia e senza paura? In realtà di macchie e di paure Faber ne aveva a bizzeffe, tanto che—più che da un discorso libertario comunque fortissimo—la sua poetica nasce dalla tensione a cercarsi un posto nel mondo, né più né meno. Tutti i suoi personaggi passano attraverso spesse maglie di contraddizione, trovando in alcuni casi la redenzione, in altri il disastro: addirittura molti di essi fondono tutte e due le cose verso una specie di Nirvana inconsueto davanti al quale la morale comune vacilla.

Queste contraddizioni erano le stesse di De André, sempre intrappolato nel limbo fra l'incapacità di scrollarsi del tutto di dosso le sue origini "bene" e quell'empatia per il mondo degli emarginati che frequentava e sentiva suo nel profondo (o almeno ci provava), identificandosi lui stesso come perenne disadattato. Aggiungiamoci quella che probabilmente per lui era la "sindrome del traduttore" (cit. Nicola Rotiroti), che in qualche modo forse lo frustrava, e faremo bingo. De André infatti è, come Carmelo Bene, un grande rielaboratore di opere altrui, tanto che alla fine invece di trovarti di fronte a una traduzione di Brassens o Cohen o Saba pensi che siano stati questi ultimi a coverizzare i testi di De André (la Pivano diceva la stessa cosa, in fondo, quando paragonavano de André a Dylan, ribaltando tempo e spazio): come autore in effetti Faber avrà sì e no scritto di suo pugno quindici canzoni, poi ci sono tutti i suoi collaboratori (ad esempio la succitata Pivano, Bubola, De Gregori…) con i quali ottiene una simbiosi tale per cui De André ecco diventa una specie di Omero, un "cesellatore" che limava fino alla perfezione cose sue e soprattutto non sue per renderle, diciamo, di tutti.

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D'altronde la poesia della tradizione orale non prevede diritti d'autore, anzi: richiede una continua rielaborazione di temi da passare di bocca in bocca (certo, se prendi un canone medievale, ci canti sopra una filastrocca e lo depositi in SIAE come fanno altri mostri sacri della musica italiana, forse la questione cambia; ma questa è l'ennesima delle contraddizioni, se non la matrice di un peccato originale che va in fondo rivendicato). La fragilità di Faber, quella che non gli permetteva di cantare senza prima scolarsi galloni di whisky, diventa quindi la sua forza: quella "poetica da liceali" che i detrattori gli rimproverano, è invece per l'appunto un modo per fare arrivare temi forti dove altrimenti sarebbe arrivata solo la canzonetta costruita per vendere fumo (oppure la poesia cerebrale, di cui facciamo volentieri a meno). Fra questi detrattori ricordiamo Battisti e Gaber, e chi lo detesta a prescindere applaude: però la stessa critica era rivolta a Jim Morrison rispetto ai suoi deliri edipici (ma il primo lavoro dei Doors è di fatto uno dei capolavori del rock di sempre, senza il quale il post punk ce lo saremmo sognato). Segno che se uno vuole può demolire qualsiasi cosa al di là del gusto personale, quello che in fondo fa la differenza e che è scevro da stronzate quali "l'oggettività".

Detto questo, "oggettivamente" mi chiedevo l'altra sera come fosse possibile il ritorno a bomba in classifica della ristampa di Anime Salve, uscito nel 1996, a tutti gli effetti l'ultimo disco di Faber tre anni prima che lasciasse questo mondo. Un ritorno in classifica che se guardi chi c'è in vetta e chi c'è in coda pare impensabile: la plastificazione di quasi tutte le hit di oggi non prevede un disco che non solo va da tutt'altra parte, ma in un certo senso è anche "inascoltabile" secondo i criteri delle orecchie medie nel 2017. Evidentemente, a parte i nostalgici della "canzone intelligente", c'è ancora chi ha bisogno di dischi che dicano davvero qualcosa a tutti e non siano meri fermacarte dei lobi auricolari.

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All'inizio, spinto da uno spirito di contraddizione tipico di Italian Folgorati, avevo pensato di analizzare il disco meno apprezzato del vasto repertorio di Fabrizio, il più criticato, probabilmente il più sperimentale, ovvero Storia di un Impiegato. Poi però mi sono detto: ma tanto l'hanno rivalutato nell'underground da un bel pezzo, e poi forse a livello tematico (per chi non lo sapesse: è la parabola esistenziale di un bombarolo) la sua profetica visione d'insieme, in cui sia vittima che carnefice sono legati dalla tentazione del potere, era forse più adatta al ritorno del terrorismo su larga scala pre-11 settembre che non a oggi, in cui questo clima è quasi pane quotidiano.

Paradossalmente, mi sono accorto che Anime Salve è stato il disco che mi sono inculato di meno, e che invece è perfetto per descrivere il momento storico che viviamo, stracolmo di dolorosi esodi, di paure non solo del diverso ma di essere addirittura "contaminati" da esso, di passaggi di stato metaforici e reali, di metamorfosi continue, di solitudini collettive amplificate dall'ansia social, finanche di morte. E ho capito perché è in classifica. Bisogna riparlarne.

Dicevamo, la solitudine. Cioran, un filosofo particolarmente caro a De André, diceva che "ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo". Anime Salve è un disco che appartiene alla seconda categoria, parla appunto di solitudine avvertita, che in qualche modo da singolare diventa plurale. Tutti siamo soli nelle nostre miserie, e questo ci rende parte del genere umano; si combatte da soli, ma per far vincere un'intera categoria. In sintesi: la solitudine ci rende liberi. Dell'etimologia di questo titolo che gioca sulla "salvezza della solitudine" (tramite un collegamento etimologico discutibile tra "salvo" e "solo") si è detto molto, ma forse poco si è detto dell'effettivo valore autobiografico del disco. Questo perché una volta uscito e fatto decantare, la morte relativamente improvvisa di De André ha trasformato Anime Salve in una specie di testamento, quando probabilmente più che della fine l'album parlava dell'inizio di un affrancamento personale, di nodi interiori che si stavano sciogliendo.

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Tra l'altro si tratta di un lavoro che, per quanto incensato dalla critica, è poco analizzato dal punto di vista delle sperimentazioni sonore applicate alla world music, qui probabilmente più ardite di quelle di Crêuza de mä, a tutt'oggi l'unico disco di De André veramente entrato nel gotha, forse frettolosamente. Lì infatti si trattava di linguaggi prettamente mediterranei, con tutto l'ambaradan di strumenti tradizionali messo in ballo da Mauro Pagani della PFM, collaboratore fisso di Faber e autore di un disco d'esordio solista penalizzatissimo dalla critica nel 1978, nonostante in quel lavoro—guarda un po'—avesse già messo i puntini sulle I rispetto a questa direzione di ricerca. Nulla di nuovo in Crêuza de mä, se non un remake col nome di De André in copertina.

Invece in Anime Salve c'è un mischiotto di roba impressionante. Ovviamente musica mediterranea, ma soprattutto sudamericana, balcanica, ungherese, africana, per non parlare della tradizione dialettale genovese portata all'estremo, con brani che passano di palo in frasca, di atmosfera in atmosfera, di nazione in nazione, di sangue in sangue, con montaggi di musica etnica tagliati improvvisamente col machete come quando si cambiano riva e porto a cazzo portati dai venti della sopravvivenza. Uno potrebbe pensare a un facile terzomondismo e invece, proprio con questa tecnica che oggi sembra normale quando si parla di Sun City Girls a ogni pié sospinto, De André ci narra le storie dei suoi personaggi al limite come se non gliene fregasse un cazzo, nel senso che parla di persone e storie di vita senza alcun pietismo; da dove vengono, poco ce ne fotte, perché siamo giocoforza nella loro stessa barca in quanto umani. Un'attitudine grazie alla quale il disco viaggia liscio come l'olio e sembra leggero come una piuma, nonostante la mole di input letterari e sonori—e soprattutto nonostante la presenza di Ivano Fossati, che come sapete nella sua ultima incarnazione era piuttosto ingombrante, se non una vera "falce" senza il martello (e senza battaglia di Poitiers).

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Ecco, Fossati. Questo disco è da considerare appunto l'ennesimo disco collettivo, in cui l'autore de "La mia banda suona il rock" ha un ruolo preciso, quello di dilatare i brani e di portare quelle arie sudamericane e moderatamente ambient prima assenti nella musica di De André. De André di contro riesce a bloccare Fossati di modo che i brani non diventino le nenie pallose e pretenziose a cui il nostro ci aveva abituati negli ultimi tempi (quelli post-La pianta del tè, per intenderci), anzi sfrutta questa pomposità per sostenere le liriche che in qualche modo sono grevi, vengono dalla terra, a volte tirano cazzotti e non hanno nulla di soave o di cerebrale come quelle del collega, tutt'altro. Mette uno stop a Fossati sul limite: quando pensi che il pezzo cominci a esagerare ecco che spiega le vele e vira verso nuove rotte.

Qui l'eredità di Pagani, raccolta da Cristiano De André, strumentista eccellente e autore forse superiore al padre se non altro per il suo coraggio, ha ancora una volta un ruolo decisivo: mette il mondo intero in una boccia di vetro delimitata al proprio vissuto (il Mediterraneo come crocevia di mondi), lanciata nei marosi del futuro perché i posteri la raccolgano. La gestazione di Anime Salve avviene a quattro mani con Fossati, tanto che all'inizio l'idea era di pubblicare il lavoro a doppia firma: ma era ovvio che il dono per la sintesi di De André male si conciliasse con la prolissità di Fossati (che comunque si era già distinto per alcuni testi contenuti nell'altro grande disco spartiacque del De André introspettivo, ovvero Le nuvole). Fossati quindi decide di lasciare tutto il progetto al socio che, avendo l'ultima parola, non mancherà di trasformarlo in un bignami di resistenza umana, dritto al sodo ma con la giusta sensazione di vuoto tipica delle anime che non trovano pace. E allora ascoltiamo quello che hanno da dirci.

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Prima anima: "Princesa"

Field recordings in apertura, fisarmonica in levare, clarinetti balcanici, un grandissimo Sandor Kuti al cymbalon (quindi anche spruzzi di Ungheria) e gran finale improvviso in batucada style. La storia di una transgender brasiliana che decide di operarsi e di riprendersi la propria identità di donna: un testo di grande poesia che oscilla fra la brutalità e le difficoltà del cambio di sesso, e la dolce conquista della libertà per cui queste difficoltà sono necessarie. Anche se tutto ha un prezzo e la nostra princesa si ritrova alla fine compagna di un avvocato, dalle spiagge di Bahía a un balcone di Milano. La libertà in fondo non va mai data per scontata, è una continua metamorfosi. Il finale in lingua portoghese è una specie di riassunto della vita di Princesa: "La strada / La bomba / La vertigine / Il fascino / La magia / Le auto / La polizia / La stanchezza / Il brio / Lo sposo…" Insomma, vivere, come dice giustamente la chiosa.

Seconda anima: "Khorakhanè (A forza di essere vento)"

Overture di ambient glaciale per un brano che parla della travagliata storia del popolo rom, in particolare dedicato all'omonima tribù serbo montenegrina, dal testo delicatissimo e struggente che passa dalla guerra alla pace, dal riso al pianto, dalle fughe allo sterminio, dai diamanti al caritare: "Il cuore rallenta / la testa cammina / in quel pozzo di piscio e cemento/ a quel campo strappato dal vento / a forza di essere vento". Finale orchestrale balcanico con una Dori Ghezzi in grande spolvero che canta un testo in puro romani, la lingua dei rom croati, a cura di Giorgio Bezzecchi, trovatosi lui stesso nel 2008 a essere perseguitato solo perché nomade. Roba di cuore, carne e ossa.

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Terza anima: "Anime Salve"

La title track è il primo brano a pendere decisamente dalla penna di Fossati, che divide il canto con il socio De André senza risultare troppo radical chic. La storia è quella di chi perde tutto, di chi è oppresso ed è costretto a partire, a trovare nuove terre sulle quali ricominciare (inutile far notare quanto il tema sia attuale): "Mi sono spiato illudermi e fallire / abortire i figli come i sogni / mi sono guardato piangere in uno specchio di neve / mi sono visto che ridevo / mi sono visto di spalle che partivo / ti saluto dai paesi di domani". Il problema è che da mille anni la situazione non accenna a migliorare: le solite persecuzioni, il solito odio per l'altro da sé, l'uomo sembra dimenticarsi della sua umanità, anzi, più se la ricorda più la vuole reprimere per terrore della propria debolezza. Incorniciate da un solo di launeddas, queste amare riflessioni sfociano nel brano successivo, al quale è collegato direttamente per l'atmosfera paranoica.

Quarta anima: "Dolcenera"

Quale paranoia più grande dell'amore non corrisposto? E infatti qui è descritto nei minimi particolari il sogno di un uomo che vorrebbe cancellare tutto quello che si frappone fra lui e l'amata, ma improvvisamente la realtà irrompe nella fantasia e l'alluvione di Genova del 1970 spazza via davvero tutto, compresa la donna del suo cuore. L'amore a volte può essere una catastrofe naturale, i desideri possono essere dei cappi al collo. Si canta in dialetto genovese e si riassapora nello stile il De André più classico, quello di "Bocca di rosa" per intenderci, aggiornato in chiave world.

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Quinta anima: "Le acciughe fanno il pallone"

Ricordo d'infanzia di Faber, il brano narra del fenomeno delle acciughe che fuggono inseguite dal pesce azzurro e saltano in superficie a banchi, formando delle semisfere luccicanti. Spaccato di vita rurale ma anche metafora della libertà, che i pesci cercano a costo della morte mentre è solo anelata da chi è costretto a guardare in solitudine. "Ogni tre stelle c'è un aereo che vola / ogni tre notti un sogno che mi consola". Non c'è altra possibilità di vivere che pescare. Siamo tutti inseguiti, in fondo, dal pesce azzurro del potere. Il tutto è impreziosito da momenti di flauto che ricordano le performance di Fossati con i Delirium.

Sesta anima: "Disamistade"

A colpi di berimbau si apre un pezzo (probabilmente ispirato dal film omonimo) che parla di vendette trasversali fra famiglie, dove regnano odio e leggi d'onore non scritte, da cui nasce la costrizione in una comunità a scapito della solitudine dell'individuo. In un tema tipico delle zone centro-meridionali d'Italia, ma anche nel mondo, De André individua nella vendetta e nell'invidia il seme della guerra totale, che non ha regioni ma tocca il globo intero. Parte orchestrale epica come un cielo che scende sopra una chiesa a lutto, a base di un improbabile bansuri completamente decontestualizzato dalle sue origini indiane.

Settima anima: "A cumba"

Brano in salsa tipicamente folk genovese, cantato in dialetto, vede Fossati e De André dividersi ancora le strofe. La storia è quella di una ragazza che sta per sposarsi e volare via (la colomba, appunto). Il pretendente cerca di convincere il padre a concedergli la mano della figlia, riuscendoci promettendo mari e monti. Solamente che alla fine il principe azzurro non esiste, e lui la trascura per farsi i beati cazzi suoi. Apertura e chiusa di flauti squisitamente psichedelica per uno dei brani più toccanti del canzoniere di De André.

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Ottava anima: "Ho visto Nina volare"

Tipico pezzo di De André D.O.C., è un ricordo d'infanzia trasfigurato: la storia di un ragazzo la cui passione è ostacolata dal padre, e non avendo il coraggio di affrontarlo decide che per disobbedire dovrà fuggire lontano. Il pezzo è costruito sul vuoto e sul respiro siderale degli strumenti, a simboleggiare l'eterna solitudine che precede l'azione, il momento in cui il ragazzo diventa uomo. Tutti sanno che la Nina protagonista del brano è esistita veramente, giocava con De André da piccola e lui la spiava volare sull'altalena. Dietro la faccia di Nina, però, si nasconde una ragazza più importante, la "signorina Libertà", ancora una volta.

Nona anima: "Smisurata preghiera"

"Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco / Non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti / Come una svista / Come un'anomalia / Come una distrazione / Come un dovere". Il Signore in questione non è certo quello dei cristiani, ma un'entità astratta, in un certo senso un angelo sterminatore della maggioranza, la quale pensa di avere la licenza di umiliare tutti gli altri con qualsiasi mezzo, dall'odio razziale a quello di classe. Il testo è tratto da un libro di poesie di Alvaro Mutis e si adagia su una base world/fusion in cui s'intrecciano fretless alla Karn e launeddas, per un atto d'accusa a tutti gli abusi di potere e di consenso che, di fatto, sono la malattia del mondo. Il finale micidiale a base di orchestra e organetto suonato dalle sapienti mani di Riccardo Tesi è l'apice del titanismo, in cui la solitudine dell'oppresso e del diverso si trasforma in inarrestabile energia cosmica (e ricorda idealmente l'ultimo saluto di Alan Vega nel suo lavoro postumo). Un po' come Fabrizio nel momento della dipartita, oppresso da un carcinoma che purtroppo non è riuscito a sconfiggere.

Non ha importanza: il futuro è dei vinti, le anime sono salve. Vive o morte, da sempre navigano di porto in porto, senza frontiere, su una barca fatta di speranza, che è propria di questo disco; "in direzione ostinata e contraria".

Demented è su Twitter: @Demented_Thement.

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