L'ultima benedizione degli A Tribe Called Quest

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L'ultima benedizione degli A Tribe Called Quest

Per celebrare il loro nuovo album, ecco la storia di uno dei gruppi hip-hop più importanti di sempre, raccontata da un ragazzo che l'ha vissuta di persona.

Tutto è iniziato ad Agosto, quando L.A. Reid━un famosissimo produttore americano━si era lasciato scappare la rivelazione che un nuovo album degli A Tribe Called Quest sarebbe uscito prima della fine del 2016. Ho immediatamente pensato a Jimi Hendrix e alle dozzine di suoi progetti postumi pubblicati negli ultimi anni. Speravo non fosse uno di quei cazzo di "Best Of." Verso la fine di ottobre è arrivato l'annuncio ufficiale. La copertina è stata postata su Instagram e l'ho vista rimbalzare tra profili, sempre assieme alla stessa domanda: Phife sarà sull'album? Quando mi sono reso conto che la risposta era un sonoro sì, che Phife c'era, ho iniziato a sentirmi come se fossi nell'88—non vedevo l'ora di poter ascoltare un nuovo disco degli A Tribe Called Quest. E mi sentivo bene. Ho aspettato un paio di settimane. Ho scaricato We Got It From Here, Thank You 4 Your Service il momento in cui è stato pubblicato mentre continuavo a mandarmi messaggi con mio fratello. Come sarebbe stato un loro nuovo LP dopo tutti questi anni? Speravo fosse più simile a The Low End Theory o a Midnight Marauders che a Beats, Rhymes, & Life o a Love Movement. Le prime quattro canzoni sembravano più venute fuori dai secondi che dai primi due. Si sentiva molto l'influenza di Q-Tip. Poi il quinto pezzo, "Dis Generation", mi ha dato una botta. Come sempre, Q-Tip e Phife si completavano perfettamente: Tip era l'elemento astratto, Phife quello più street e in fissa con lo sport. La loro strofa è andata avanti per un minuto, poi Tip ha iniziato a scambiare barre con Jarobi. A quel punto non ero più preso bene solo per la promessa di qualcosa di nuovo; mi sentivo fortunato a poter sentire quello che stavo sentendo. Mi sono ricordato perché, tanto tempo fa, mi ero innamorato dei Tribe. Aspettare di poter ascoltare qualcosa è sempre stato un forte processo emotivo che, con l'ascoltatore moderno, si è trasformato. Invece di attendere, oggi la gente si aspetta qualcosa. Il che rovescia il rapporto tra fan e artista. Se un tempo il fan apprezzava solo il fatto di poter ricevere qualcosa, ora crede che l'artista gli debba qualcosa. Nel 1988, quando sentimmo per la prima volta la voce di Q-Tip su "Back is Black", un pezzo di Straight Out the Jungle dei Jungle Brothers—"Now this is Q-tip from A Tribe Called Quest"—non ci sembrava strano sentire la voce di un MC, o di un gruppo, prenderci bene e vederli scomparire nel nulla, non sentire mai più niente di nuovo. C'erano volte in cui sentivamo un nome—i Violators, ad esempio—senza sapere a chi si riferisse. Spulciavamo i credits di ogni album avevamo senza riuscire a cavarci fuori niente. Q-Tip era su due pezzi di Straight Out the Jungle: "Black is Back" e "The Promo". La prima era figa, e la sua voce era davvero bella, ma era stata la seconda che mi aveva fatto venire voglia di ascoltare altre cose sue. Era un pezzo più difficile, ma soprattutto conteneva un messaggio chiarissimo: gli A Tribe Called Quest erano Q-Tip e il suo DJ, Ali, e dovevamo aspettarci qualcosa da loro ad Aprile ("un mese dopo marzo, due prima di giugno", diceva il testo).

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Durante il mio primo anno di superiori, la cultura delle gang di Los Angeles iniziò a farsi viva anche nella mia Denver. Scontro tra gang e colpi di pistola sparati da finestrini di macchine diventarono all'improvviso la norma. O eri in una gang, o praticavi un qualche sport, o eri un reietto totale. Io e i miei fratelli appartenevamo a quest'ultima categoria. Ci chiamavamo "Da Fellas", in onore del gruppo di attivisti protagonista di Aule turbolente di Spike Lee, e veneravamo i Jungle Brothers. Nella loro musica c'era tutto: orgoglio nero, voglia di fare casino e hip-hop duro e puro. Rientravano perfettamente nella nostra concezione di "figo", elemento fondamentale per l'esistenza dei ragazzini delle superiori.  Era il novembre del 1988, e sapere che un album con la stessa atmosfera sarebbe uscito cinque mesi dopo era un dono che ricevevamo raramente. D'altro canto vivevamo in un mondo pre-internet, e non esistevano delle riviste hip-hop che potessimo realisticamente comprare o leggere. Scoprivamo che un album era uscito dopo aver visto un video o, se l'etichetta sganciava qualche soldo, grazie ai poster appesi nel nostro negozio di dischi di quartiere, Russell's Records and Tapes. Era lì che compravamo tutti i nostri dischi e le nostre cassette e, prima dell'arrivo di Blockbuster, era lì che noleggiavamo i film. Aprile arrivò, ma assieme a lui non arrivò nessun album dei Tribe. Q-Tip, però, comparse su 3 Feet High and Rising, il debutto dei De La Soul, uscito nel marzo dell'89. E che comparsa: era sul remix di "Buddy", cioè quella che è probabilmente la terza posse cut di sempre (le prime due sono rispettivamente  "Uptown Is Kickin' It" e "The Symphony"). Il bello è che su quel pezzo c'erano anche la prima apparizione del Five Foot Assassin, cioè Phife Dawg, il cantato di Queen Latifah—che stava spaccando inradio con "Princess of the Posse" e "Wrath of My Madness"—i Jungle Brothers e un'altra sorella, Monie Love, che veniva da Londra. (Tra l'altro il video di quel pezzo fu una delle mancanze di rispetto più grandi dei primi anni del rap, dato che Phife venne tagliato completamente. Alcuni dicono che fu per questioni di lunghezza, dato che il remix andava oltre i 7 minuti, ma comunque…). Insomma, in quella canzone c'erano tutti o quasi i componenti dei Native Tongues, un collettivo che avrebbe rifiutato molti dei trend di quel periodo per concentrarsi sulla coscienza afro-americana.

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Nei tardi anni Ottanta e nei primi Novanta, il crack era ovunque negli Stati Uniti. I soldi giravano, e i rapper di New York avevano perfettamente accettato la cosa. Fare hip-hop significava avere delle collanazze d'oro al collo e roba Dapper Dan addosso. I Native Tongues rifiutavano tutto questo, ognuno di loro a modo suo. I Jungle Brothers, i primi a venire fuori, si concentravano su un'espressione più diretta di tematiche legate all'orgoglio afroamericano. I De La Soul erano i burloni, i giocherelloni, e avevano un elemento di follia allora completamente inedito nel mondo hip-hop. Gli A Tribe Called Quest rappresentavano la quotidianità afro-americana, e ce ne rendemmo conto quando finalmente pubblicarono un video: "Left My Wallet in El Segundo." Dal modo in cui si vestivano e si esprimevano, ci rendemmo conto che avevamo le stesse radici, e vivevamo le stesse vite. Proprio come ci aspettavamo. Anche noi stavamo cercando noi stessi in un intercapedine tra quello che la gente credeva essere il tipico ascoltatore di hip-hop, il lato conscious e la nostra identità personale—che oggi potremmo ragionevolmente chiamare nerdaggine. Anche quando uscì il loro album, ad aprile (anche se un anno dopo rispetto a quanto avevano promesso), mi trovai di fronte a quello che mi aspettavo: un disco riflessivo, eclettico e pieno di sample che non mi sarei mai aspettato. Il mio primo anno di università alla Clark, ad Atlanta, "Bonita Applebaum (Hootie Mix)" era ovunque: nelle cuffie, negli stereo e a ogni festa. I Tribe ormai avevano un vero seguito, ma nessuno si aspettava quello che sarebbe successo di lì a poco. Il loro nuovo video metteva subito in chiaro che voleva essere speciale: i primi fotogrammi in negativo, le Polaroid in stop-motion, e il pezzo… che cosa non è stato detto di "Check the Rhime"? Phife spacca qualsiasi cosa. Era l'estate del '91. Ero a casa, e non facevo altro che andare assieme a mio fratello da Russell's a chiedere quando l'album sarebbe uscito, se potevamo portarci via i poster pubblicitari, a rompere le palle su ogni cosa praticamente. Ancora un po' e ci avrebbero detto di non tornare più.

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Finalmente, dopo mesi di attesa, arrivò The Low End Theory, ed ebbe un impatto clamoroso, dalle università di Atlanta a una rivista come USA Today. Ebbe un ruolo fondamentale nell'introdurre il suono jazzato che avrebbe dominato il rap newyorkese negli anni successivi ed era abbastanza abbondante da saziare la fame dei fan. Se i Tribe non avessero mai più pubblicato nulla saremmo stati comunque contenti, perché avevamo un classico. Aver potuto vivere Q-Tip, Phife e Ali a quel punto—dopo i Black medallions, ancora conscious, prima dell'hardcore rap—ci aveva permesso di vederci riflessi in loro. Ci stavamo iniziando a sentire a nostro agio nella nostra pelle, stavamo trovando le nostre voci.

Tristemente, era un'era che stava per finire. Il loro album successivo, Midnight Marauders, è il mio preferito (e se ancora oggi si litiga sul fatto se sia meglio Low End o Midnight, immaginate quanto potesse essere intensa la cosa allora). Ma lo stesso giorno dell'uscita di Midnight, il 9 novembre 1993, il Wu-Tang Clan sfondò le porte dell'industria musicale con Enter the Wu Tang (36 Chambers). Il rap iniziò a spingersi verso territori più scuri e violenti, e la musica che facevano i Tribe iniziò a sembrare obsoleta. Avevo un sacco di voglia di sentire Beats, Rhymes, and Life, ma quando lo mi su era come se qualcosa non andasse. Credo non fossero né i beat di Dilla né la presenza di Consequence. Era la chimica tra di loro. Aveva un pezzo solista di Q-Tip era normale, come lo era averne uno con solo Phife. Ma il fatto che ci fosse un pezzo dove praticamente non si scambiavano barre, e c'erano più che altro voci di ospiti e collaboratori, era strano. Love Movement fu una formalità, sembrava quasi che stessero andando avanti in maniera meccanica. Quando i Tribe annunciarono il loro scioglimento, nessuno fu particolarmente sorpreso. Anzi, eravamo sollevati. Ascoltare quei due album era come passare dall'università alla vita vera. Era come se niente andasse più bene come prima, anche se averli riascoltati recentemente me li ha fatti apprezzare di più.

E passiamo al 2011. I Tribe erano in tour e stavano per pubblicare un documentario, e tutto sembrava gridare "nuovo album." Ma quel film, Beats, Rhymes, & Life: The Travels of a Tribe Called Quest, non solo verificava quello che avevamo provato sentendo i loro ultimi due album, eliminava qualsiasi speranza di una vera reunion in futuro. Una performance era già un lusso. Quando i Tribe hanno fatto un pezzo durante lo show di Jimmy Fallon mi sono preso bene, ma non mi aspettavo che ne sarebbe potuto uscire niente di concreto. Apparentemente, però, è stata proprio quella sera che hanno iniziato a pianificare un nuovo album. E poi, otto mesi fa, Phife è morto. È stato impensabile, come perdere parte della propria famiglia. Sembrava proprio che non avremmo mai sentito un nuovo vero album dei Tribe, e la morte di Phife era solo una conferma. Il fatto che Q-Tip aveva iniziato a tirare nel gruppo più features e produttori aveva già iniziato a creare nuove discordie tra di loro. In ogni intervista che fa, a Consequence viene sempre chiesto se pensa di aver rovinato il gruppo o no. "Dis Generation" mi ha riportato a un tempo in cui tutto questo sembrava non avere senso. È un classico pezzo dei Tribe, ma aggiornato, pieno di scambi di rime. C'è un sample di un pezzo del 1976 di una band argentina. Ci sono i Musical Youth, c'è tutto quello che rende i Tribe i Tribe. "Movin' Backwards" è clamorosa. Anderson .Paak non sbaglia un colpo, e tutto quello che tocca diventa oro. Mi ricorda lo spirito di grandi come Curtis Mayfield e Bobby Womack, quando canta frasi tipo, "Come posso fare a sapere come ci si sente a casa quando non sto nemmeno giocando in casa?"—e facendolo evoca sentimenti di perdita, il ricordo della nostra gente schiavizzata e portata in America in catene. Q-Tip resta sull'astratto, con frasi come "Questi giorni mi sto sottomettendo a preghiere, camminiamo all'indietro ma è solo uno spettacolo." Il che mi ha fatto pensare al significato profondo dell'intero progetto.

Questo è l'album più politico degli A Tribe Called Quest. È perfetto per i nostri tempi. Il fatto che ogni volta che lo ascolto mi dà qualcosa in più dimostra che We Got It From Here non è solo contemporaneo, è fuori dal tempo. Ancora una volta, i Tribe hanno parlato a noi e per noi. Mentre la realtà di una presidenza Trump si stava iniziando a materializzare, lo stesso ha fatto una conversazione sul nostro futuro. Molti di noi neri hanno evocato Sincere, il personaggio di Nas in Belly, dicendo che ce ne saremmo tutti tornati in Africa se Trump fosse stato eletto. Ed ecco i Tribe con "The Space Program", in cui concettualizzano quest'idea usando lo spazio come analogia. Il ritornello dice, "Non c'è un programma spaziale per i negri, sì, siete bloccati qua, negri." Profetico, eh? Trump ha vinto, e non mi pare di aver visto alcuna migrazione. "We The People" tocca un sacco di temi. Potrebbe essere una conversazione da bar. Ci sono la gentrificazione, la minaccia di deportazione di Trump, la disuguaglianza di genere. È roba da adulti. E questo è il punto. Quando eravamo giovani, la priorità era la nostra identità. Canzoni come "Sucka Nigga", che si chiedevano se dovessimo usare o no una parola come "negro", avevano senso in quell'era e in quel momento. Oggi la priorità sono le nostre libertà civili che rischiano di venire infrante. Quindi, ogni volta che vedrò i Tribe Called Quest d'ora in poi, lo vedrò come una benedizione. Il loro live da Saturday Night Live: una benedizione. Collaborazioni con Andre 3000, Elton John, Busta Rhymes: benedizioni. Non mi sarei mai potuto aspettare niente di tutto questo. Ma mi aspetto dischi mai pubblicati, idee scartate, un EP e magari un album di Phife prima o poi. Mi aspetto che questo album possa diventare parte dei miei ricordi, proprio come tutti gli altri dischi dei Tribe. Mi aspetto di poterlo chiamare, un giorno, un classico. E che benedizione è poterlo fare. sdq fa il giornalista hip-hop da trent'anni. Potete trovare altro suo materiale su Medium. Segui Noisey su Facebook e Twitter. Altro su Noisey: L'evoluzione di J Dilla La miglior canzone rap di ogni anno dal 1979 al 2014 Il rap degli uomini neri fa ancora paura alle mamme bianche cristiane