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Perché dovreste tutti guardare Stranger Things

Nei giorni scorsi su Netflix è comparsa l'intera prima stagione di Stranger Things, la serie televisiva di cui tutti stanno parlando, che coniuga Goonies, X-Files e la presenza di Winona Ryder. E che probabilmente è una delle più interessanti del 2016.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Una scena da

Stranger Things.

Attenzione: Il post contiene riferimenti a momenti specifici della serie—nessuno di questi qualificabile come spoiler, ma siete avvertiti.

Lo scorso 15 luglio su Netflix è comparsa l'intera prima stagione di Stranger Things, il nuovo sci-fi/horror drama prodotto dal servizio di streaming americano. Scritta dai fratelli Duffer, è già diventata un piccolo fenomeno sui social media: complice l'uscita in blocco degli episodi tipica di Netflix—che condensa e massimizza i tempi di reazione, oltre che quelli di fruizione—, nell'ultima settimana non si è parlato d'altro e persino Stephen King si è scomodato a fornire il proprio entusiastico parere.

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In generale, la serie è stata salutata come un omaggio spudorato al cinema e alla televisione degli anni Ottanta americani—non solo per l'ambientazione effettiva (il 1983), ma anche per lo stile registico e visivo, per non parlare della colonna sonora.
Ma quello di Stranger Things non è solo un citazionismo estetico: la serie sfrutta i canoni narrativi e stilistici dell'intrattenimento da schermo dell'epoca, per recapitare al suo pubblico un prodotto che è soprattutto una sovversione delicata di quegli stessi canoni. Ed è proprio questo uno dei motivi principali per cui la serie rappresenta forse il prodotto più riconoscibile fra quelli usciti quest'anno: Stranger Things è anni Ottanta e allo stesso tempo non lo è per niente.

In un'anonima cittadina americana (di quelle in cui non capita mai niente), un ragazzino di nome Will si volatilizza improvvisamente nel nulla mentre torna a casa una sera dopo aver giocato con gli amici. L'indomani, l'intero paese si mette alla ricerca di Will, la cui scomparsa si confonde con un tetro mondo sovrannaturale, una bambina misteriosa e un esperimento governativo. Noi—come pubblico—seguiamo le vicende da tre punti di vista principali: quello degli amici di Will (i bambini), quello del fratello e dei suoi coetanei (gli adolescenti), quello della madre e del capo della polizia (gli adulti).

Questa scelta non è casuale: la televisione e il cinema pop degli anni Ottanta americani hanno plasmato modelli di riferimento generazionali, di cui Stranger Things recupera gli elementi fondamentali, intrecciandoli tra loro per fornire alla sua storia la profondità che ha saputo catturare i suoi spettatori. I modelli incarnati dalle tre generazioni che vanno in cerca di Will sono film d'avventura come i Goonies (1985), film horror-adolescenziali come Heathers (1988) o il romanzo Carrie (1974) di Stephen King, film e serie a tema cospirazionista come L'invasione degli ultracorpi (1956) prima e X-files dopo (1991-).

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Questi modelli narrativi sono anche i modi in cui la cultura pop ha interpretato il sovrannaturale: come un'avventura che costringe a crescere nel primo caso, come una metafora dell'angoscia violenta che attanaglia gli adolescenti nel secondo e come uno strumento politico subdolo nel terzo.

Stranger Things prende questi filoni narrativi e li epura di quei cliché che ora, lontani come siamo dalla mentalità degli anni Ottanta, risulterebbero stantii. I Goonies è un meraviglioso film d'avventura, ma è anche un film che deve finire per forza bene, mentre ciò non è necessariamente valido per Stranger Things.

"I goonies non dicono mai la parola morte!" è una delle battute più famose del capolavoro di Spielberg, ed è un mantra che esclude subito agli occhi del pubblico "lo scenario peggiore" dalla storia. Stranger Things, invece, costringe i suoi protagonisti più giovani a confrontarsi con un nemico molto meno caricaturale di quello dei film degli anni Ottanta per ragazzi. Non c'è una squadra di criminali da strapazzo alle loro calcagna, ma la morte stessa, la possibilità concreta di perdere un amico.

Nel corso degli otto episodi che compongono la stagione—per quanto tutti i personaggi affrontino una maturazione che li associa più ai protagonisti delle serie che siamo abituati a guardare oggi che a quelli tendenzialmente piatti delle serie d'epoca—è soprattutto il gruppo dei bambini a dover prendere coscienza che i giochi finiscono. Che la vita—anche quando si ha a che fare con il sovrannaturale—non è una partita a Dungeons & Dragons. In questo senso, forse, Stranger Things richiama molto di più il film drammatico Stand by me (1986).

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Similmente, le vicende del gruppetto di adolescenti—il fratello di Will, Jonathan, la sorella di Mike, Nancy, e l'interesse amoroso di quest'ultima, il ribelle col ciuffo di brillantina Steve—sono girate in modo da farci presagire i peggiori cliché, per sorprenderci con il contrario di ognuno. L'ingenuità stereotipata delle ragazze di provincia che si fanno abbindolare, lascia il posto alla consapevolezza di un'adolescenza molto più realistica: in Stranger Things troviamo il ritratto in evoluzione di una generazione schiacciata tra l'infanzia e l'età adulta. La violenza è sicuramente un elemento di questa generazione in evoluzione, ma se negli anni Ottanta era una violenza rivolta verso manifestazioni di se stessa (l'odio tra compagne di scuola di Heathers), in questo caso è una violenza che unisce quegli stessi archetipi tra loro e si reindirizza verso un nemico esterno, coraggiosamente.

Infine, gli adulti di Stranger Things sono quelli che si scontrano più direttamente con l'elemento politico e sociale della serie, offrendo agli spettatori il dipinto di un dramma umano profondo e irrisolto; mentre nella serie X-Files ci sono volute stagioni intere perché l'agente Moulder spostasse l'attenzione dal cospirazionismo alla propria angoscia interiore, gli adulti di Stranger Things sono già consapevoli che l'unica soluzione non stia tanto nello smascherare una misteriosa organizzazione dai dubbi fini, ma nel riuscire a restare in piedi nella propria miseria e, dove possibile, riottenere ciò che rendeva quella miseria più tollerabile.

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Stranger Things è anche una meta-critica della cultura pop anni Ottanta: la madre di Will, Joyce, è interpretata da Winona Ryder, icona adolescenziale di quegli anni (non a caso, è la protagonista proprio di Heathers), che nella serie è tutto tranne che un cliché, ma una donna forte e fragile allo stesso tempo, che non vuole zittire il proprio istinto di madre. Il professore di scienze è un'altra figura simbolica, anche se marginale: oltre alle lezioni di scienze, gestisce infatti anche il laboratorio di audiovisivi e sa parlare la lingua dei suoi studenti, fatta di giochi di ruolo e di strane domande sul paranormale.

Quando uno dei protagonisti gli telefona a casa, lui sta guardando un film horror con una persona e le spiega come gli effetti speciali della faccia decomposta sullo schermo sono fatti con la gomma sciolta; le sue parole sono un tributo affezionato agli effetti analogici che caratterizzavano i film di quei tempi, prima che arrivasse la CGI. Non a caso, la stragrande maggioranza degli effetti speciali di Stranger Things è proprio analogica, materica, reale e surreale allo stesso tempo. Ci sta dicendo, "guardate, basta così poco per immergersi nella magia."

Stranger Things non è ovviamente una serie perfetta, e la si potrebbe accusare di giocare facile, per il modo in cui sfrutta magistralmente la nostra nostalgia per quei tempi e per le emozioni che quel tipo di prodotto cinematografico/televisivo ha impresso indelebilmente nelle nostre viscere.

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Abbiamo una fissazione per gli anni Ottanta, dai suoi suoni elettronici sgraziati ai videogiochi a 8-bit, passando per quell'estetica al neon che non riusciamo ad abbandonare—è indubbio. La cosa, di per sé, è perfettamente comprensibile e giustificabile: una grossa porzione di chi fruisce di contenuti cinematografici e (web)televisivi oggi è cresciuta nella luce delle rivoluzioni tecnologiche di quegli anni che sembravano destinate a durare per sempre.

Con le sue VHS, le audio-cassette, le scarpe da ginnastica bombate e gli skateboard, gli anni Ottanta sono stati una sorta di bolla distopica di un futuro tra l'analogico e il magnetico che si è dissolto rapidamente nell'onda devastante della rivoluzione digitale iper-connessa. I computer si sono diffusi in quegli anni, ma nell'immaginario si sono consolidati solo verso la fine del decennio, sigillando il futuro di Delorean e hack televisivi che ci era stato promesso in una stanza di cimeli spuri e di film nostalgici.

Ma la nostalgia comprensibile si è tramutata appunto in una fissazione, che ci ha portato a rimettere in scena spesso e volentieri una versione degli anni Ottanta estremamente stereotipata, un'estremizzazione di un mondo che era già, per certi versi, caricaturale. Il centesimo tributo a Ritorno al Futuro non rende meno superato quel prodotto, si limita a evocare un sentimento che era naturale provare allora per qualcosa che oggi, probabilmente, ci stuferebbe in fretta. Gli anni Ottanta, ai nostri occhi di pubblico, sono diventati un'icona e poco altro.

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Stranger Things, però, non si limita a nutrire quell'icona. Ne sa restituire ogni aspetto estetico e sensoriale, sicuramente: dalle luci al neon della sigla, ai font, agli effetti speciali analogici del mondo sovrannaturale, passando per i telefoni a corda e i walkie talkie, ci ricorda com'era attraversare l'adolescenza in preda agli ormoni senza i vantaggi dei social network, e passare l'infanzia tra giochi da tavolo, biciclette e mix tape in cassetta. Il tuffo nella nostalgia, quando si guarda questa serie, è garantito.

Eppure, Stranger Things riesce a fare qualcosa che altri prodotti ispirati agli anni Ottanta (o alla nostra nostalgia idealizzata degli stessi) non hanno saputo fare: invece di riprodurre maniacalmente lo stile narrativo di quegli anni in tutti i suoi aspetti—ignorando deliberatamente ogni critica in favore di un'espressione puramente vanesia—ci dice che possiamo esplorarlo più in profondità, riadattandolo alle necessità che ora—come pubblico che non può accontentarsi dei cliché—abbiamo di fruire di storie complesse. L'eleganza di Stranger Things risiede proprio nel modo in cui ci spiega questa cosa, dissolvendo ogni falso simulacro.

Possiamo ancora raccontare quegli anni, possiamo persino produrre una serie che parla di mondi sovrannaturali e ragazzini che passano la giornata lottando con le fionde e correndo in bicicletta, ma l'unico modo per farlo è reinterpretandone gli schemi più consolidati e stanchi, confondendo tra loro quei filoni generazionali tipici e facendoli collaborare per intrattenerci davvero

Stranger Things in qualche modo, libera gli anni Ottanta dalla nostra ossessione, restituendoli al reame delle ambientazioni narrative concrete e appassionanti e, per questo, è una serie che tutti dovremmo guardare.

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