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Ma quello di Stranger Things non è solo un citazionismo estetico: la serie sfrutta i canoni narrativi e stilistici dell'intrattenimento da schermo dell'epoca, per recapitare al suo pubblico un prodotto che è soprattutto una sovversione delicata di quegli stessi canoni. Ed è proprio questo uno dei motivi principali per cui la serie rappresenta forse il prodotto più riconoscibile fra quelli usciti quest'anno: Stranger Things è anni Ottanta e allo stesso tempo non lo è per niente.In un'anonima cittadina americana (di quelle in cui non capita mai niente), un ragazzino di nome Will si volatilizza improvvisamente nel nulla mentre torna a casa una sera dopo aver giocato con gli amici. L'indomani, l'intero paese si mette alla ricerca di Will, la cui scomparsa si confonde con un tetro mondo sovrannaturale, una bambina misteriosa e un esperimento governativo. Noi—come pubblico—seguiamo le vicende da tre punti di vista principali: quello degli amici di Will (i bambini), quello del fratello e dei suoi coetanei (gli adolescenti), quello della madre e del capo della polizia (gli adulti).
Questa scelta non è casuale: la televisione e il cinema pop degli anni Ottanta americani hanno plasmato modelli di riferimento generazionali, di cui Stranger Things recupera gli elementi fondamentali, intrecciandoli tra loro per fornire alla sua storia la profondità che ha saputo catturare i suoi spettatori. I modelli incarnati dalle tre generazioni che vanno in cerca di Will sono film d'avventura come i Goonies (1985), film horror-adolescenziali come Heathers (1988) o il romanzo Carrie (1974) di Stephen King, film e serie a tema cospirazionista come L'invasione degli ultracorpi (1956) prima e X-files dopo (1991-).
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