Ora tutti vogliono un pezzetto del 'brand Napoli'

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Napoli

Ora tutti vogliono un pezzetto del 'brand Napoli'

Un necessario punto sulla 'rinascita di Napoli', o meglio, sulla nascita del 'brand Napoli'.

Una delle cose più difficili da spiegare ai non-napoletani è che Napoli non esiste. E non solo non esiste una sola Napoli, ma cento città diverse e divise che tentano di convivere insieme: non esiste neanche la proiezione estetica e ideologica che tende ad emanare. Napoli recita, e mente, e per questo è stata sempre fraintesa, e probabilmente continuerà a esserlo ora che tutti ne parlano.

Da expat—una condizione che è qualcosa in più d’una semplice esagerazione linguistica—ho sempre fatto molta fatica a riconoscere la mia città nelle parole o nelle idee delle persone con cui entravo in contatto. Valeva un po’ ovunque, dalla Calabria in cui passavo le estati alle Roma e Milano delle case da studenti, prima, e lavoratori poi. Non riuscivo a capire come qualcuno potesse non ritenere Napoli la città più incredibile al mondo, una dissonanza cognitiva vera e propria.

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Un’interessante ricerca della Fondazione Rosselli del 2009 esplicita ancor di più il concetto: solo il 47 percento degli intervistati riteneva Napoli una città appetibile e solo il 14 percento avrebbe considerato una visita. Si legge, poi: "Sono i dati OCSE che ancora una volta ci mostrano come i contesti urbani che non investono in mobilità, in progetti di rigenerazione, in nuove tecnologie rischiano il declino e vengono citati quali esempi fra gli altri anche città italiane come Napoli." L’indagine, d’altronde, arrivava alla fine del biennio più nero dell’immagine pubblica di Napoli, dopo l’emergenza rifiuti e l’Operazione Strade Pulite, dopo cioè che Napoli e “monnezza” erano praticamente diventati sinonimi. Ricordo di come fosse molto difficile riuscire a convincere qualcuno che no, non era strettamente necessario fare lo slalom tra i rifiuti per andare al bar e che sì, la città tutto sommato meritava una visita.

Neanche dieci anni dopo ho assistito dalla mia casa di Milano all’evento che, in un certo senso, ha sublimato la rinascita dell’estetica napoletana: più di 20mila persone hanno invaso il Lungomare (nel frattempo ufficiosamente ribattezzato Lungomare Liberato) per assistere al primo concerto cittadino di LIBERATO, l’artista che mescolando elettronica e dialetto sta facendo letteralmente impazzire tutti. Lì dove per tutti si intendono non solo i napoletani: al concerto infatti erano presenti romani in ferie e addirittura milanesi in trasferta (era prima che LIBERATO annunciasse una specie di tour italiano).

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Eppure, LIBERATO e il sorprendente successo dell’immaginario che rappresenta non arrivano certo da soli, né all’improvviso: dall’inizio degli anni Dieci è in corso un processo di rivalutazione che ha visto coinvolti alcuni dei settori più importanti: da quello turistico a quello tecnologico (con l’apertura del polo Apple a San Giovanni a Teduccio), passando per l’industria cinematografica a quella televisiva.

Così, il “brand Napoli” in tutte le sue versioni e interpretazioni è diventato piano piano la 'next big thing' dell’industria culturale del nostro paese.

"Ho vissuto a Roma negli ultimi 15 anni e ho cominciato a ritornare a Napoli per lunghi periodi grazie proprio ai video di LIBERATO. L’ultimo anno e mezzo l’ho vissuto praticamente giù," mi dice Francesco Lettieri, il regista di tutti i video dell'artista, quando gli chiedo della coincidenza del progetto con l’esplosione della città. "La rinascita," aggiunge, "c’è stata davvero: 10-15 anni fa di Napoli si parlava solo per le faide di camorra, per l’emergenza rifiuti o per la terra dei fuochi. Probabilmente il progetto LIBERATO non avrebbe avuto senso in quel momento. E da una parte credo sia stato fondamentale sentire questa nuova 'vibe' per costruire l’immaginario visivo del progetto, ma dall’altra credo che con il nostro lavoro, almeno in piccola parte, abbiamo contribuito a questo processo."

Partendo da Gomorra fino ad arrivare a Ozpetek è come se oggi tutti volessero un pezzo di Napoli, e soprattutto se ne innamoravano (e se ne innamorano) quelli che la vedevano da lontano—americani con Elena Ferrante compresi.

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L’idea che Napoli si guardi meglio da lontano, si impari ad apprezzare meglio quando non la si vive in maniera tanto intensa e viscerale è abbastanza diffusa tra i napoletani che hanno lasciato la città. In una intervista di Rivista Studio a Paolo Sorrentino, si ragionava sul fatto che la classe di 35-40enni che ha avuto accesso a un'istruzione è completamente scomparsa da Napoli, emigrata a Roma o Milano o chissà dove. C’è una vena di tristezza in tutto ciò, nella quasi costrizione che negli anni passati e tutt’oggi ancora porta in molti via da Napoli. Io stesso ho imparato a centellinare il mio tempo “a casa”, lasciandomi il vezzo di scoprire o riscoprire tutti i cambiamenti che la città ha attraversato. Dalla “metropolitana più bella d’Europa”—quella disegnata da Oscar Tusquets—al sopracitato Lungomare Liberato, alla riqualificazione urbana del centro storico.

Napoli è bella se ci vivi, ancora di più se la vedi. In questo caso è più semplice accorgersi dei cambiamenti dell’Amministrazione De Magistris, accolto come moderno Masaniello nell’estate del 2011. Da allora il rapporto con la città si è andato lentamente deteriorando—e il successo alle elezioni del 2015 racconta in realtà più la debolezza dei suoi avversarsi che il suo effettivo appeal. Si notano infatti meno ma esistono sempre il dissesto finanziario a cui la città sta andando incontro o le pesanti mancate promesse sulla rivalutazione delle periferie e sulla lotta alla criminalità (che esiste e non può essere negata, anche se il processo alle baby gang messo in moto dai media nei mesi scorsi ha avuto del ridicolo), nonostante l’oramai imminente abbattimento di una delle celebri Vele di Scampia.

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Si citano spesso gli impressionanti numeri turistici fatti registrare da Napoli (e dalla Campania in generale) dal 2016 ad oggi. Quasi un milione e mezzo di turisti arrivati nel 2017—un incremento di circa il 91 percento rispetto al 2010—un grosso aumento della spesa turistica e circa il 30 percento di pernottamenti in più (secondo i dati Bankitalia), mentre in centro B&B e Airbnb hanno cominciato a spuntare come funghi (l’aumento in percentuale è stato secondo solo a quello della Puglia). Ci si dimentica spesso però di cosa significhi tutto questo per una città, e per la vivibilità di una città. Le recenti opere restrittive delle municipalità di Venezia e Amsterdam—che intendono mettere limiti all’afflusso di turisti e alla proliferazione di strutture alberghiere—raccontano un pezzo della storia.

Un altro pezzo della storia è molto più sentito e difficile da toccare con mano: "Il centro storico di Napoli è da sempre un quartiere popolare," mi spiega Francesco Campobasso. "Come tale ha sempre mantenuto tutte le peculiarità del caso: zona universitaria, botteghe di artigiani, 'chianchieri', 'verdummari', 'cantinieri', fabbri, falegnami, fiorai, carretti delle pizze fritte, 'banche dell’acqua' etc… e tutto a un prezzo accessibile per le tasche degli abitanti. Con l’avvento del turismo c’è stata una mutazione, che piano piano sta portando Napoli a essere come tutte le altre città d’Italia e del mondo, un po' uguali e senz'anima." Francesco su Napoli ha deciso di investire aprendo un negozio di dischi, Vesuvius Souls Records, in quella che oggi si chiama via Pino Daniele: "Ho deciso di aprire lì perché per me non è concepibile dover lasciare casa e che il mio quartiere debba vivere di solo cibo di scarsa qualità, alloggi per turisti e nessuno spazio di aggregazione culturale giovanile."

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Neanche Napoli quindi, neanche la città tra le più carismatiche, mistiche e tradizionali al mondo può sottrarsi alla gentrificazione? Sembrerebbe di no, anche se un’opinione diversa mi arriva da Luca De Martino, fondatore del collettivo Sii Turista della Tua Città, che da prima del “boom” promuove iniziative di valorizzazione e riscoperta del territorio: "È in atto una rivoluzione culturale, una presa di coscienza, un risveglio d'amore verso la città. La nostra generazione sta riscoprendo un senso d'appartenenza senza precedenti. Amare Napoli per fortuna è diventata una bellissima moda!" È questa in effetti la parola chiave, moda. Stiamo forse tutti aspettando di sapere se Napoli resterà una moda e verrà schiacciata dal suo peso o se manterrà l’equilibrio necessario per conservare la sua purezza?

L’esportazione della cultura napoletana, che tende storicamente a essere espansiva e inclusiva (si pensi al contributo per la diffusione della grande canzone italiana, o dell’arrivo della musica nera o ancora alla sceneggiata), è un ottimo antidoto contro l’omologazione. Finché l’immaginario napoletano riuscirà a imporre la sua estetica senza farsi sfruttare, la città non corre nessun rischio. Il confine però è labile, e il rischio deve essere tenuto in considerazione.

Mentre osservavo la mia città cambiare, ci sono stati due eventi che mi hanno fatto riflettere su quanto poco Napoli venga capita, nonostante l’esposizione mediatica e le orde di turisti. Nell’estate del 2016 Dolce & Gabbana ha scelto la città per ambientare due spot (con le due star di Game of Thrones, Emilia Clarke e Kit Harington) e la sfilata di una loro recente collezione. L’immagine che ne usciva della città era volutamente esagerata, per certi versi falsa o sguaiata, e le critiche e accuse di “macchiettizzazione” non hanno tardato ad arrivare. Qualche anno dopo, l’incarnazione dell’orgoglio cittadino, il Napoli, ha battuto la Juventus, rimettendosi in corsa per la vittoria dello Scudetto che sfumerà però nelle giornate immediatamente successive, e sublimando l’idea di rivincita napoletana. Dopo quella vittoria la città è esplosa, con festeggiamenti per le strade e “le botte” sparate fino all’alba.

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Se non si capisce quest’esagerazione intrinseca nello spirito stesso della città allora si farà fatica anche a comprendere il perché del successo del progetto LIBERATO, o di Gomorra o di una qualsiasi cosa che si veda oggi cucita addosso l’etichetta del “brand Napoli”. Quello che fuori sembra fasullo, non spontaneo o esagerato è in realtà la definizione stessa della napoletanità.

È sempre stata questa la cosa che ho fatto più fatica a spiegare della mia città, la genuina teatralità che si porta appresso e che genera e condiziona tutti i prodotti che da essa fuoriescono. Dal miracolo di San Gennaro alla maledizione della Gaiola, passando per Napoli Centrale o Saviano. La resistenza di quest’idea è l’unico vero antidoto perché Napoli resti una cartolina e non diventi un souvenir.

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