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Musica

S-S Records: viaggio sul pianeta dei robopunk

Tutto quello che non sapevi di voler sapere sull'etichetta regina dell'outsider-punk americano in occasione dell'uscita di tre nuovi album.
Giacomo Stefanini
Milan, IT

Se fossi uno che prende sul serio la STORIA DEL RUOCK, definirei S-S Records, label californiana di Sacramento in attività dal 2001, Importante. C’è da dire che lo stesso Scott Soriano, fondatore (insieme a Sakura Sanders, che abbandonò l’impresa dopo pochi anni) e unico dipendente dell’etichetta, ammette candidamente, in una bella intervista su Rubberneck, di ambire a un posto nel sacro pantheon delle etichette indipendenti insieme a Dangerhouse, Flying Nun, Rough Trade e compagnia.

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Il megadirettore è un uomo misterioso e irraggiungibile, pragmatico e dalla visione artistico-affaristica molto nitida. Alla fine degli anni Novanta ha già fatto il funerale alla sua prima etichetta Moo-La-La, con la quale aveva pubblicato mini-figate di Sacramento quali Lil Bunnies, Karate Party e FM Knives, ma nel 2001 il suo dirimpettaio Chris Woodhouse registra in salotto gli A Frames e a Scott torna il prurito, così fonda S-S. Nel frattempo è arrivato Internet, che usa per saziare la sua sete di musica sconosciuta, anche di paesi lontani, e per diffondere le sue scoperte tramite i blog Crud Crud e Static Party (oggi inattivi) e collaborando con la webzine Terminal Boredom, sempre mantenendo i piedi piantati nel mondo reale producendo la fanzine (oggi materiale da collezione) Z-Gun. La nozione di genere, punk rock, garage, post punk che sia, lo interessa sempre meno. S-S Records sarà libera da tali pedestri preoccupazioni, e si dedicherà a far uscire dischi sulla base dell’energia che trasmettono, senza cercare d'ingraziarsi questa o quell'altra scena. Infatti la maggior parte del corpus a oggi è composto da esordienti o da dimenticati, la forbice stilistica è tra le più ampie del giro e ogni album rappresenta un piccolo mondo a parte. Il seguito di S-S è solido, preparato e fedele.

Continua Sotto.

Qualche tempo fa parlammo dell'LP di Andy Human & the Reptoids. Oggi pubblichiamo una selezione esclusivamente basata sul mio insindacabile gusto personale (e confesso di non possedere proprio ogni singola uscita delle oltre ottanta in catalogo), a partire dai tre album che saranno lanciati il prossimo 23 ottobre: le ristampe rimasterizzate dei primi due LP degli A Frames e il secondo album dei Life Stinks, You'll Never Make it, di cui offriamo per primi alcuni pezzi in streaming. Non basterà un articolo ad analizzare in profondità la produzione di questa etichetta, ma spero di mettervi sulla strada giusta.

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A FRAMES - S/T (SS002, 2002) - 2 (SS006, 2003)

Ci sono casi in cui la musica è legata al settore produttivo di una regione. Come, infatti, l’Inghilterra del Nord negli anni Settanta ha partorito la musica industrial, la Seattle della bolla dot-com ha prodotto il punk al silicio degli A Frames. Eppure la band è rimasta confinata in una nicchia piuttosto angusta dopo la breve consacrazione di un album di addio su Sub Pop (Black Forest, 2005), mentre il batterista Lars Finberg è invece da molti anni sulla cresta dell’onda garage con i suoi Intelligence, che in fondo in fondo hanno qualcosa in comune con le strutture spigolose degli A Frames. La differenza tra i due gruppi è però lampante: mentre gli Intelligence ti fanno l’occhiolino e ballano il twist insieme a tutta la famiglia, gli A Frames non sono affatto interessati a farsi degli amici. Se provo a immaginarmeli, vedo colossi di plastica con grandi occhi vuoti e la pelle fredda e grigia. Gli strumenti a corda sembrano costruiti con un metallo extraterrestre, la voce pare un incrocio tra Mark Mothersbaugh e Graham Lambkin; i testi ripetono ossessivamente nozioni scientifiche e ignorano i sentimenti umani, tipo l’inno al disagio esistenziale “Sensation” che parla, appunto, di sensazioni fisiche come se si trattasse di malattie e poi finisce in uno sclero che sembra suonato da un gruppo di HAL9000 morenti. L’unica volta in cui esprimono un po’ di umanità è una trappola per spiarti: “surveillance camera, surveillance camera, I am in love with ya”. Questi due album, nella foto di famiglia del punk di inizio secolo, stanno proprio al centro, di fianco a Jay Reatard e ai suoi Lost Sounds.

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LIFE STINKS - YOU’LL NEVER MAKE IT (SS082, 2015)

MOMENTO PREMIERONA: Ho chiesto a Scott Soriano un assaggio dell'album da inserire in questo post e il nostro eroe ha prontamente provveduto. Siamo orgogliosi di farvi ascoltare per primi tre canzoni tratte da You'll never make it.

Per capire i Life Stinks bisogna… aspetta, che cazzo c’è da capire? I Life Stinks sono un gruppo punk di San Francisco che si chiama LA VITA FA SCHIFO (cit.) e sono sicuro che, a questo punto, chiunque si sarà fatto un’idea abbastanza chiara di come suonano. Visto che si tratta di S-S Records, comunque, si può approfondire senza paura. Il debutto (s/t, SS075, 2013) di questi ragazzi e ragazze del sole me lo immaginavo registrato in un banalissimo seminterrato, probabilmente in frettissima per passare meno tempo possibile in compagnia di quello stronzo del cantante, che continua a fare una pessima imitazione di Iggy e a rompere il cazzo con teorie insensate sui cimiteri. Per il seguito l’approccio è meno deragliante e più focalizzato: San Francisco, ex-mecca degli alternativi e ora vasca di squali hi-tech, ci ha masticati e sputati sul marciapiede; non che prima ce la passassimo particolarmente bene, del resto. Meglio serrare i ranghi e costruirci attorno solide pareti di riff da due note fregati dai cassetti mentre mamma Asheton non guardava, battere il tempo come cavernicoli e farci due risate. Il lato A è il più serrato, culmina in “I’m A Weed” che è un bangerone Killed By Death d’altri tempi e si sfalda sul finale con una nuova versione da sei minuti e mezzo di “Portraits”, anche più minacciosa di quella del 7” su Total Punk; magari ho troppa fantasia, ma mi sembra un incubo distopico in cui le foto profilo dei techies con i loro denti perfetti fanno a brandelli la città sulla Baia. Sul lato B, invece, l’approccio è meno monolitico e c’è spazio per il rock’n’roll tossico alla Royal Trux di “People Say I Should Check It Out” e per una ballata al tramonto sotto il Golden Gate, punzecchiando con un ramo il cadavere di Lou Reed, contemplando un posto che non si ama più.

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MONOSHOCK - RUNNING APE-LIKE FROM THE BACKWARDS SUPERMAN (SS011, 2004) - WALK TO THE FIRE (SS070, 2012)

Una delle caratteristiche più affascinanti di questa etichetta è che riesce a ripescare dal dimenticatoio band incredibili, passate inosservate durante il loro periodo di attività, trasformandole a volte con anni o decenni di ritardo nel punto di riferimento che avrebbero dovuto essere. I Monoshock erano una manica di capelloni bruciati che amava gli Stooges, Albert Hoffman ed era totalmente disinteressata a qualunque altra cosa. Tra il 1988 e il 1995 hanno pubblicato tre 7" e un doppio LP che nessuno ha comprato, e sono scomparsi dalla circolazione. S-S nel 2004 dà alle stampe un CD che raccoglie singoli e demo dei Monoshock, Runnin’ Ape-Like from the Backwards Superman, a cui avrebbero dovuto allegare un paio di guanti in PVC, dato che è talmente acido che rischia di portarsi via le tue impronte digitali. È principalmente composto di veloci bastonate lo-fi intrise di fuzz dalla classica struttura strofa-assolo-vaffanculo-morte, corredato di cover di Radio Birdman e Hawkwind e occasionali intermezzi sul tema “falegnami ubriachi che giocano con i sintetizzatori”. Qualche anno dopo urge una ristampa per il loro doppio LP, il vero capolavoro Walk to the Fire, uscito originariamente nel 1996. Far partire questo disco assomiglia un po’ a entrare in una casa in fiamme mentre cinque diversi impianti stereo sparano il lato B di Funhouse a tutto volume, e altri tre il lato A. Anarchico, selvaggio, drogatissimo: forse il disco che i Mudhoney avrebbero registrato se fossero scomparsi in Messico per sei mesi. Ma non è tutto ruock quello che luccica: l’amante della patafisica che vive nel mio cervello mi dà sempre di gomito quando parte “Astral Plane (Take me away)”, malinconica e artisticamente storta; la title track mi ha fatto riappacificare con un amico che avevo sfanculato perché non la smetteva di parlare degli Spacemen 3; “Leesa” secondo me ha mandato un brivido di piacere su per la schiena di Tom Lax della Siltbreeze.

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CHEVEU - S/T (SS035, 2007)

Il debutto del trio parigino Cheveu è uno dei miei dischi europei preferiti di sempre, se mi è concesso di inventarmi questa categoria. Synth-punk a basso budget e ancor più bassa fedeltà, reso buffo da chitarre garage minimaliste e svisate hip hop da terza elementare. Alla voce c'è un tizio di nome Olivier, che passa dallo sputare fuori a macchinetta una poesia di Rimbaud come se stesse cercando di venderti delle paste in discoteca, al baritono da crooner americano esattamente nell'accento che ti aspetteresti. Un disco che conferma l’approccio giocoso alla musica sperimentale che S-S Records aveva già dimostrato producendo dischi degli altri mattacchioni francesi Crash Normal, dei pionieri noisepunk di Roma Est Hiroshima Rocks Around (è Toni Cutrone/Mai Mai Mai alla batteria), dei torturatori di sassofoni Antennas Erupt!.

SPRAY PAINT - RODEO SONGS (SS074, 2013)

L’uscita di questo disco è stata un evento fantastico per me. Nel 2013 suonavo in un gruppo che, lo riconosco, forse non aveva nulla a che vedere con gli Spray Paint, ma nella mia testa ci assomigliava tantissimo. Questi tre texani erano i nostri gemelli d’oltreoceano: compatti, scordati, sferraglianti, influenzati tanto dalla no wave di quarant’anni fa quanto dal punk mutante degli A Frames, in aggiunta a una sensibilità pop unica. I tre componenti degli Spray Paint infatti cantano sempre tutti e tre contemporaneamente, seguendo una straniante cantilena un po’ recitata; se chiudo gli occhi mi sembra di essere davanti a una tabaccheria con tre adolescenti che mi chiedono insistentemente di comprare loro le sigarette. Lo so che non sembra piacevole. È personale, ipnotico, divertente. I dischi successivi a questo, in particolare l’ultimo Punters on a barge uscito quest’anno per l’australiana Homeless Records, mostrano una crescita che me li fa paragonare agli Sleaford Mods: minimalisti, severi, per niente accomodanti, adottano una formula rigida ma si rendono conto che per non annoiare non c’è bisogno di perdere la propria identità, basta scrivere belle canzoni. Tra l’altro hanno un disco pronto per l’uscita il 23 ottobre su Monofonus Press. È il secondo che pubblicano nel 2015, e sono riusciti anche ad andare in tour in Australia e Giappone. E io che mi lamento se devo fare la spesa e la lavatrice nello stesso giorno.

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BONUS TRACK: HIS ELECTRO BLUE VOICE - FOG / DAS (SS024, 2007)

Come non parlare del 7” di debutto (tecnicamente è il secondo, ma il primo era uno split) del nostro orgoglio nazionale His Electro Blue Voice, anche loro “scoperti” da Soriano. Fu uno shock. Si rifiutavano di suonare dal vivo e Avant! Records era ancora in fasce, quindi per molti fu un fulmine a ciel sereno. Arcigno come uno sbirro tedesco, violento come un divorzio con figli, esagerato come una rissa tra adolescenti, questo piccolo 45 giri è una mazzata. La vera perla è il lato B, “Das”: cantata in italiano con accento Great Complotto, si sviluppa attorno a un riff ossessivo di due note (ancora marchio di fabbrica HEBV sette anni dopo) e, sbrigata la formalità del cantato, prima si ferma, poi riparte al doppio della velocità e si sfracella contro un muro, scatenando una scarica da due minuti di ferraglia, vetri rotti, elettricità statica e, a cazzo di cane, flauto dolce, prima di zittirsi definitivamente e lasciare spazio a un carillon solitario. Una fotografia perfetta di quello che ti può succedere se hai la sfortuna di nascere in provincia di Como.

IL RESTO DEL CATALOGO

Chi si prenderà un po' di tempo per ascoltare il resto della produzione S-S sarà premiato, qualunque sia la sua droga preferita: no wave free jazz dal Sud Africa? Celo. Garage rock inglese in doppio LP con le canzoni anti-hipster? Celo (vedi sopra). Demotape hardcore italiano del 1983? E me lo chiedi? In fondo non posso che darti un piccolo assaggio. Sta a te sbatterti un po', è questo il bello, e anche la linfa vitale, della musica underground.

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