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Musica

Le recensioni della settimana

Quali dischi ci hanno fatto esprimere delle opinioni questa settimana: Lana del Rey, Nine Inch Nails, French Montana e altri.

Noisey è cresciuto e non usa più le faccine col vomito, ma le recensioni restano sempre scritte da persone piene di problemi che non vogliono necessariamente essere prese sul serio.

HAIM
Something To Tell You
(Polydor)

haim something to tell you recensione review copertina cover album streaming mp3 2017

È assurdo come, a volte, da condizioni simili possano scaturire esiti completamente opposti. Prendiamo, per esempio, tre sorelle che suonano assieme fin da piccole. Magari c'è un padre folle che ascolta le previsioni di una chiaroveggente, si convince di avere dato la luce alla prossima grande pop band internazionale e obbliga le sue tre pargole a mettersi giorno e notte agli strumenti fino a creare un mostro malato e affascinante e storto di album che, dopo decenni, viene rivalutato come rivoluzionaria affermazione proto-punk—ed è il caso delle Shaggs, la miglior peggior band della storia. Magari, invece, ci sono due genitori che hanno una cover band e tirano in mezzo le loro tre figliolette facendogli suonare il rocchenroll dei Sessanta e Settanta per anni e anni, poi una di loro diventa la chitarrista di Jenny Lewis prima e poi di Julian Casablancas e nel giro di un attimo è venuta fuori una pop band dalla sensibilità supermelodica che si becca props di Taylor Swift e viene gestita dalla Roc Nation di JAY-Z—e qua stiamo parlando invece delle HAIM, che con questo Something To Tell You hanno rifatto quello che avevano combinato con Days Are Gone. Cioè hanno scritto un album poppettone coi cori che può piacere in egual misura a vostro padre facendogli tornare in mente quelle volte che andava con la Renault 4 in Sardegna ai raduni hippie e tornava dieci giorni dopo foderato di THC o a vostra sorella che va in vacanza studio a Londra e torna con otto sacchetti di Topshop dicendo di aver imparato qualcosa su sé stessa e sul senso della vita dopo aver visto un festival a Hyde Park. Il che può essere una cosa molto bella, se ci pensate e non vi fate troppe paranoie e vi rendete conto che non viviamo nel migliore dei mondi culturali possibili a tutti non frega poi molto dell'introspezione e dell'avanguardia e dell'integrità artistica come a voi.
ESKREE HAIM (EA)

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LANA DEL REY
Lust For Life
(Polydor / Interscope)

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Nell'estate del 2011 ha cominciato a girare su Internet un bel pezzo pop piuttosto retrò intitolato "Video Games", con un video dai colori stile filtro di Instagram. Di lì a qualche mese è uscito il primo album di Lana Del Rey, e l'ho trovato davvero banale e inconsistente. Se quel pezzo almeno funzionava, il resto sembrava messo lì quasi per fare numero, e per propagandare quello che più c'era di importante: l'immagine, una certa estetica, e non certo la musica, che sembrava quasi solo un accessorio del personaggio - non più delle fotografie, dei video o delle dichiarazioni ("sto pensando di uccidermi", "credo che non canterò più") che la cantante faceva alla stampa. Da allora sono usciti altri due album, che le hanno dato sempre maggiore fama, mettendola al centro del circo pop americano, e ora arriva questo nuovo Lust For Life, un lavoro con tutte le cose a posto: i featuring giusti (Stevie Nicks e Sean Lennon!), la produzione giusta, alcune buone canzoni tutte uguali, e la solita linea che comprende ormai anche molte collaborazioni con nomi di spicco del mondo rap e rnb (nello specifico The Weeknd, che riesce forse per la prima volta nella vita a fare un pezzo che non spinge, A$AP Rocky e Playboi Carti). Insomma un disco che non deluderà i fan del personaggio e non darà particolarmente fastidio agli appassionati di musica. Nelle recensioni che leggerete in giro si parlerà di pop raffinato e testi molto personali, a me fa due palle così ma è sicuramente un problema mio.
ROZZO HUNT (FS)

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DOWNTOWN BOYS
Cost of Living
(Sub Pop)

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Se avessi una palma di "cosa più irritante del 2017", sicuramente l'assegnerei alla ritrovata coscienza politica della classe dirigente post-Trump. Gente che ha taciuto davanti a guerre, massacri, sfruttamento, colonialismo, gente che ha applaudito per il Nobel per la Pace consegnato a criminali e assassini, corporation multimiliardarie che soffocano letteralmente intere popolazioni di paesi lontani (dagli occhi, dal cuore, da tutto), ora non riesce a credere alla propria fortuna nell'avere in una posizione così in vista qualcuno così esplicitamente peggiore. I Downtown Boys non fanno parte di questa categoria. Loro vengono dai bassifondi di Providence, Rhode Island, e dal 2012 girano ogni angolo del mondo incitando alla rivoluzione a colpi di punk rock. Con questo terzo album, che segue il capolavoro Full Communism del 2015, raggiungono una piattaforma più grande grazie a Sub Pop. Una produzione migliore e un songwriting più maturo e pop non fanno altro che rafforzare però il loro impatto: la loro rivoluzione arriva come sempre a passo di danza, la voce della pasionaria Victoria Ruiz rimane indomabilmente chiara, potente, coinvolgente, mentre la sezione ritmica si preoccupa di fornire un letto di tuono a chitarra e sax che in questo disco abbandonano un po' i canoni punk-funk per abbracciare un tono più pop, quasi C86, forse influenzati dalla tradizione della loro nuova etichetta. Cost of Living, al di là degli stereotipi su cose come "maturità" o "cambio di marcia", rimane, nella migliore tradizione Downtown Boys, un disco rabbioso ed esaltante, che riporterà senza dubbio alla mente di chi li ha visti dal vivo quella sensazione di unità e quella voglia di azione che i cinque di Providence comunicano dal palco.
STILL GERMFREE AFTER ALL THESE YEARS (GS)

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ELDER
Reflections Of A Floating World
(Stickman Records)

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Ridendo e scherzando gli Elder sono al quarto album in già undici anni di attività, e non vogliono saperne di esaurire l'ispirazione. Riffoni ciccioni e pedaliere infinite sono alla base di un disco che è spaziale in tutti i sensi: è lungo, è psych, è grosso, insomma è un viaggione lisergico. Sempre meno fuzzy, i tre originari del Massachusetts hanno fatto coincidere con il loro spostamento nel Rhode Island un graduale ammorbidimento dei suoni, che da semplice gruppo stoner li ha trasformati in un fenomeno trasversale. Gli Elder oggi possono piacere forse un po' meno a chi è cresciuto a pane e Dopesmoker, ma troveranno tantissimi consensi tra le fila dei progster e degli appassionati di musica psych. E anche di R. E. Howard, visto che la poetica cimmera è sempre più evidente. Tutto questo senza, e qui sta la grandezza, aver minimamente reso difficoltoso l'approccio alla propria musica. Reflections… scorre, non è mai difficile, e i 10+ minuti di ciascun pezzo non sono mai, ma proprio mai un problema. Che classe. Chi sta a Milano e non è a vederli al Magnolia il primo agosto è un Josh Homme.
FVNERALOPOLI (AB)

SHIT & SHINE
Hamburger
(Gang of Ducks)

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Esistono delle band che riescono a rivoltarti le prospettive come un calzino, che il giorno prima le senti fare una smetallarata pazzesca e il giorno dopo passano a farti dell'elettronica paragonabile a una prugna spaccata in due dalla quale esce del rovinoso succo. Ecco, gli Shit & Shine sono uno dei gruppi del secolo a mio parere, che oramai hanno scavallato il noise e qualsiasi tipo di genere, si svegliano la mattina e dicono: "vogliamo fare sta merda qui" e la fanno, che ci sia un pubblico o meno. Con Hamburger i nostri portano avanti una storia che potrebbe essere il loro passo verso l'accelerazionismo, anzi verso la sua parodia quindi verso lo sgretolamento del genere stesso a preservarlo dal rischio di diventare la solita stronzata che ti vendono nei supermercati del consenso. Ma detta così sembra pretenziosa, mentre i nostri con la solita verve ludica sparano un cocktail di electroschifo che strizza l'occhio al brostep, all'old school dell'hip house, alla bubblegum bass e come al solito alle botte telluriche di noiseggiante memoria. Un viaggio eccezionale e ovviamente delirante verso il nulla, la loro versione di Pop degli U2, con l'ennesima citazione del logo di McDonald's che, ricordiamolo, campeggia anche qui a Torpignattara dove io dimoro e ci vanno incredibilmente a mangiare tutte le minoranze del mondo pensando di trovare l'America e invece ci trovano il colesterolo alto (se gli va bene). L'operazione degli Shit & Shine ci ricorda, quindi, che dobbiamo presto farci tutti le analisi al cervello.
PANICO PASTURA (DB)

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FRENCH MONTANA
Jungle Rules
(Bad Boy Entertainment / Epic)

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French Montana è uno di quei rapper strafamosi che non hanno mai detto davvero niente di interessante però per un motivo come per un altro sono finiti coperti da ammassi smoderati di banconote e quindi possono continuare tranquillamente a rappare di quanta coca spacciavano da regazzini e quanto sono riusciti a diventare ricchi e bravi e belli. French è partito dal Marocco, si è trasferito negli Stati Uniti, ha cominciato a rappare e ha incontrato lungo la sua via prima Max B, poi P. Diddy, poi Rick Ross e poi Khloe Kardashian, e si è aggrappato a loro per continuare ad alimentare le sue cose, che sono sempre quelle: brag-rap foderato di featuring di prima classe (Pharrell! Future! Young Thug! Wow!) che parla di cose generiche in modo generico. Se trovate questo album interessante significa che non ve ne frega un cazzo di niente della diversità lirica e della progressione della cultura hip-hop. Volete solo un po' di roba per fare i grossi, su e giù con la testa e sognare anche voi di avere i soldi. Che non è mica il male definitivo eh, è una delle componenti che rendono l'hip-hop figo. Però, se guardate come si sta evolvendo il mondo e l'influenza del genere sulle menti dei giovani del mondo, magari un po' il male lo è.
FRENCH SIMMENTHAL (EA)

AA.VV.
Seafaring Strangers: Private Yacht
(Numero Group)

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Forse vi ricorderete che qualche anno fa la Light In The Attic, ottima etichetta di ristampe, fece molto parlare di sé per avere ristampato un disco molto particolare: si intitolava L'Amour ed era di un tale Lewis. Si trattava originariamente di un album private press, cioè che il tizio si era stampato per conto suo. Non era un grande cantante, eufemismo, ma il lavoro aveva dei motivi di interesse per via della cheesiness che permeava il tutto: canzoni d'amore, errori, voce stentorea, arrangiamenti studiati per sembrare raffinati ma che denotavano soprattutto una grande pacchianeria. Fu un buon successo tra gli appassionati di rarità e stranezze.
Ora la Numero Group, altra etichetta di ristampe magnifiche, esce con una compilation che sulla carta dovrebbe essere devota a quella roba lì: singole canzoni selezionate dall'oceano che sono i dischi private press di questi "tizi a caso". La verità però è che si tratta più che altro di roba funk-disco, anche abbastanza pregevole. Se in alcuni i casi i pezzi o le voci sono un po' deboli, la media è in realtà quella di un'ottima compilation estiva di rarità funkeggianti (non sempre, per esempio c'è una bellissima "Don't Be So Nice" che ha un arrangiamento super-minimale e potrebbe essere apprezzata da qualsiasi fan del cantautorato). Insomma mi sarebbe piaciuto vendervela come una compilation di roba super pacchiana e leccatissima, ma in realtà non lo è davvero. Vedete voi se è un bene o un male.
SCOPHONE YACHT CLUB (FS)

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NINE INCH NAILS
Add Violence
(The Null Corporation)

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Not The Actual Events ha ricevuto una megasovraesposizione mediatica qualche settimana fa, quando David Lynch ha deciso di mettere Trent che suona "She's Gone Away" sul palco del bar di Twin Peaks (o dovunque sia di preciso quel bar), ma Add Violence, che è sempre un ep ed esce a un anno di distanza, è nettamente meglio. "Less Than" ha quel beattino ballabilino ottantiano sintetico-ma-non-troppo che fa tanto Pretty Hate Machine, poi però la chitarra esplode ed è subito Year Zero. "The Lovers" e "This Is Not The Place" flirtano con il trip-hop novantiano e sono tutte bassi ciccioni e atmosfere un po' tristi, la prima più electro e la seconda meno, ma "Not Anymore" torna a graffiare con i suoni frastagliati che hanno fatto del marito di Mariqueen Maandig una delle meglio rockstar degli ultimi venticinque anni. "The Background World" chiude con i suoi quasi dodici minuti partendo con il piglio pop delle prime tre e lasciando in loop il giro di chiusura, che a ogni passaggio si decostruisce un po' di più, fino a rimanere niente più che una manata noise per gli ultimi quattro o cinque minuti. È un po' che Reznor si è perso per strada, ma ogni tanto se ne esce con le cose giuste al momento giusto in modo talmente naturale che non si può smettere di volergli bene, mai.
PIÙ VICINO A DIO (AB)

THE TELESCOPES
As Light Return
(Tapete)

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Vecchie glorie che non hanno mai mollato la presa, i nostri Telescopes ritornano con un disco scuro e in un certo senso rassegnato. O per meglio dire, non rassegnato al tempo che passa, anzi da quel punto di vista si impongono in senso resistente: più che altro rassegnati al mondo che è 'nammerda, fatto di mode e modi molto discutibili. In una situazione del genere i Telescopes sono tipo le mosche bianche sulla merda (bianca anche quella, in quanto secca), la merda della musica che va oggi, la merda del nostro quotidiano credere di essere nella ragione. Quindi abbiamo cinque brani funerei, mesti, incazzati quanto basta, ma di quella incazzatura che non riesce e a quanto pare non vuole uscire dall'imbuto del rumore anni Novanta, dalla rassicurante bambagia della Creation, dalle esplosioni soniche che furono shoegaze. Di fatto agli autori non interessa giustamente staccarsi da un metro espressivo che è quello dei classici, non si può discutere l'intenzione anche perché il magma che i nostri riescono a creare è ispirato e, appunto, sofferente quanto basta per seppellire l'ultimo dei Jesus And Mary Chain che da ora possono andare a nascondersi. Ma il colpo di genio, il pezzone che vale tutto il disco, è l'ultima cavalcata di 13 minuti, "Handful of Ashes". Questo è davvero un viaggione psichedelico da antologia, in cui ci si stacca dalla terra per andare direttamente nei sotterranei di una vita "che ho vissuto e che non ho capito", come direbbe Vasco. Che altro dire? Eh, che di fronte a tanta onestà le recensioni non servono a un cazzo. Ascoltate in silenzio e fatevi inumare a scatola chiusa.
BECCHIVENDOLO ASSICURATO (DB)

BOSS HOG
Brood X
(In The Red)

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Sappiamo tutti che io non aspetto altro che le reunion per attaccarle e dare a tutti dei vecchi di merda in cerca di pensioni. Ma la verità è che quando schiacci play su questo nuovo LP (dopo 16 anni di nulla) dei leggendari Boss Hog (i coniugi Jon Spencer e Cristina Martinez con alcuni scappati di casa a provvedere a batteria, basso e organo), riesci a sentire le ossa di tutti i discepoli di Ty Segall e del nu-garage e della Burger Records che si spezzano. Cric crac, cuccati la voce costantemente in the red di Cristina che ti dice "mi piace quello con gli occhi neri" mentre quel gran pezzo di cuck di suo marito una volta tanto se ne sta zitto e si limita e spingere qualche buon lick di blues marcio da New York d'altri tempi; nel frattempo, una batteria controintuitiva ti fa inaspettatamente agitare i fianchi fino a che non ti risvegli sul pavimento, ricoperto di pece e glitter. I Boss Hog sono ancora qui per ungerti i capelli e farti andare il sangue ai genitali, alla faccia di chi dice che di questi tempi il rock'n'roll non abbia più spazio.
ESILIO IN VIA WATT (GS)

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