Either/Or di Elliott Smith non è mai stato solo una mazzata deprimente

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Musica

Either/Or di Elliott Smith non è mai stato solo una mazzata deprimente

Prima del suo suicidio, prima che la sua opera diventasse oggetto di un'infinita serie di ristampe, Elliott Smith si era reso conto di essere capace di sperare ancora.

Elliott Smith registrò "King's Crossing" verso la fine del 2003, ma erano già quattro anni che la suonava dal vivo. Però fu solo nei suoi ultimi mesi, caratterizzati da una serie di concerti che riuscivano a essere ugualmente trascendenti come dolorosi in base al suo stato di salute, che la sua sorellastra, Ashley Welch, e la sua ragazza, Jennifer Chiba, cominciarono a rispondere alle sue parole. Alla fine del secondo ritornello del pezzo, Smith se ne esce con un verso devastante: "Datemi anche solo una buona ragione per non farlo." E la Welch e la Chiba rispondevano: "Perché ti vogliamo bene!"  Ci sono video e bootleg di quelle performance, con Smith che canta il verso e le due voci femminili che provengono da fuori l'inquadratura, come se stessero forando una sorta di rumore bianco. Ce n'è uno che continuo a guardare, quello registrato il 31 gennaio 2003 all'Henry Fonda Theatre di Los Angeles. "King's Crossing" fu la prima canzone che Smith suonò quella sera. Balbettava e biascicava le parole con un senso del ritmo traballante, faticava a tenere ferma la mano mentre suonava—un ingranaggio rovinato a grippare una macchina complessa. E poi, l'urlo: "Perché ti vogliamo bene!"

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"King's Crossing" fu l'ultimo pezzo che Smith registrò, il 12 ottobre 2003. Nel suo pezzo essenziale sugli ultimi giorni del cantautore, Liam Gowing scrive di quella sessione ai New Monkey Studios. Smith registrò la sua parte vocale e poi chiese a Chiba di registrare il suo verso: "Perché ti voglio bene." Glielo chiese spontaneamente, lì sul momento. Nove giorni dopo, confuso dai narcotici che aveva ricominciato a prendere, dalla sua dieta e dalle medicine che gli erano state prescritte, Smith si suicidò. Era a casa sua, a Los Angeles, e la causa del suicidio fu il ritorno di quello che sembrava essere un trauma legato alla sua infanzia.  "King's Crossing" comparve su From a Basement on a Hill, il suo album postumo. Era il brano centrale del disco, ed era terrificante: cominciava con una serie di voci ululanti che lasciavano poi spazio a un valzer funebre, mentre il testo raccontava di insulti rivolti al protagonista del pezzo da parte di Babbi Natale scheletrici e marionette inquietanti. Quando finalmente compare, la voce di Chiba è così bassa nel mix che l'unico modo per sentirla è mettersi un paio di buone cuffie e alzare il volume al massimo. A meno che ci proviate davvero a far caso, sentirete solo la voce di Smith rispondersi da sola: "Allora dai, fallo."  Tutto questo è diventato parte del mito di Smith. La maggior parte dei suoi necrologi contenevano anche quella richiesta d'aiuto, in tutta la sua rassegnazione; la ricerca di un motivo per restare al mondo, e l'assenza di una risposta. Qualche settimane dopo la sua morte, Ted Leo parlò con Jon Dolan di SPIN dell'accaduto. "Molti dicono che è una merda, ma che ce lo si aspettava." Elliott Smith, che aveva chiesto retoricamente un motivo per non uccidersi ma stava pensando di farlo seriamente, l'aveva finalmente fatto. Ma per Leo non era tutto così semplice: "Come fa un suicidio a essere inevitabile? Pugnalarsi il cazzo di cuore non è inevitabile," disse.  Venerdì 10 marzo la Kill Rock Stars ha pubblicato un'edizione rimasterizzata e lievemente espansa del terzo album di Smith, Either/Or. La ristampa in sé non rivela niente di nuovo. Ha dentro qualche decente versione dal vivo e una manciata di take alternative—tra cui l'unica essenziale è "I Figured You Out", scritta in un periodo in cui Smith era fissato con i Big Star e eventualmente regalata a Mary Lou Lord. Negli ultimi anni, poi, non sono mancate collezioni che sono ben riuscite a omaggiare lo Smith meno istituzionale: New Moon, pubblicato nel 2007, un'interessante raccolta di rarità; la colonna sonora di Heaven Adores You, che aveva un'aura biografica, leggermente inquietante nella sua intimità; e Alternative Versions for Either/Or, uscito nel 2012, che conteneva una versione sorprendentemente spoglia di "Angeles" e una "Alameda" particolarmente tormentosa.  E nonostante questo, a vent'anni dall'improbabile ascesa di Smith al mainstream—fu proprio Either/Or a convincere Gus Van Sant a ingaggiare Smith per Will Hunting, Genio Ribelle—questa ristampa è un promemoria essenziale della sua speranza inespressa. Sotto alla malinconia, Smith stava combattendo con il suo passato con gli occhi rivolti al futuro. Either/Or non fu solo una pietra miliare dell'inevitabile marcia di Smith verso una morte prematura. Fu il momento in cui, sia in quanto musicista che essere umano, riuscì ad accettare il suo potenziale. Dopo quell'album, Smith non sarebbe mai più riuscito a scrivere nulla che potesse anche lontanamente avvicinarsi, a livello tematico, alle parole che la Chiba cantava, sommersa dal rumore, in "King's Crossing.

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Prima di ogni altra cosa, Either/Or parla di dolore. "Speed Trials" è un sussurro sofferto, essenzialmente un tributo alla futilità: un pezzo che parla di quella che sembra essere una corsa ma è in realtà stasi. "La presa elettrica non è uno shock abbastanza forte," canta Smith, provando a scuotersi via dall'inerzia che lo domina. Tutto quello che riesce a fare è uscirsene con un "piccolo sorriso," tutto tranne che permanente. Le labbra tornano protagoniste in "No Name #5", sotto forma di un "dolce, dolce sorriso che sta per svanire del tutto." Non è solo la felicità a essere effimera, su Either/Or; Smith sembra pensare con gli stessi termini anche alla sua fisicità, alla possibilità delle sue azioni. "Ballad of Big Nothing" lo grida a chiare lettere: "Puoi fare quello che vuoi, quando vuoi / Puoi fare quello che vuoi quando non c'è nessuno che può fermarti." Insomma, che senso ha fare qualcosa?  I temi fondamentali dell'album—l'indecisione, l'incuria, l'ironia soverchiante—sono presi in prestito, così come il titolo dell'opera, da Søren Kierkegaard. Il legame è così forte che qualcuno ha persino scritto un paper universitario sull'argomento. Un Aut-Aut (Either/Or, in inglese) è un dilemma a cui non è possibile sfuggire; quello del filosofo danese è, in fondo, una manifestazione dell'inevitabilità che pervade i pezzi di Smith. "Impiccati: te ne pentirai! Non impiccarti, te ne pentirai ancora. O che t'impicchi o che non t'impicchi, te ne pentirai in ogni caso," scrisse Kierkegaard. Nelle parole di Smith, "It doesn't mean a thing." Il rimpianto è una conseguenza inevitabile di ogni azione e ogni decisione, in Aut-Aut come in Either/Or.  Se ci fermassimo a questo, Smith potrebbe passare per un esteta, un grande romantico, un Romeo brufoloso in un remake di Baz Luhrmann. Un pezzo brutalmente auto-lacerante come "Alameda" sembra confermarlo: nessuno gli ha spezzato il cuore, dice, è lui che se l'è rotto da solo. Ma Either/Or non soccombe a una simile semplificazione. "Between the Bars" ne è la prova: una canzone d'amore scritta al contrario, un racconto della sua relazione violenta con l'alcool che rivela quello che Smith crede essere il suo senso.  Continua a bere, baby, resta sveglio tutta la notte
Con le cose che potresti fare, che non farai ma che forse farai,
Con quello che potresti diventare, la persona che non vedrai mai,
Con le promesse che farai, che resteranno promesse.  Insomma, il sorriso sta svanendo, ma il potenziale continua a manifestarsi. "Il piacere delude, la possibilità non delude mai," scrisse Kierkegaard. "Between the Bars" è un pezzo completamente malinconico, a un primo ascolto—la bottiglia parla a Smith delle "persone che era" e che ora "non vuole più attorno." Ma non racconta un bere-per-dimenticare quanto un bere-come-rivoluzione-personale, un abbattimento selettivo delle personalità passate che Smith non riesce più a sopportare. L'alcool, almeno, le "terrà ferme."

Più di qualsiasi altro pezzo di Either/Or, "Between the Bars" coglie Smith in un momento specifico, sospeso nel tempo. Un attimo in cui sceglie di interrompere il suo passato grazie alla forza di volontà, e facendolo si rende conto di avere una possibilità. "Quello che potresti diventare, la persona che non vedrai mai," sono parole che potrebbero essere state pronunciate dall'esteta che parla nella prima metà dell'opera di Kierkegaard, e invece sono di uno Smith che smette di pensare alla permanenza del suo sorriso e comincia ad accettare la possibilità di un futuro imprecisato, e quindi a sperarci. Su "Either/Or"—la canzone, scartata dall'album ma pubblicata più di dieci anni dopo in New Moon—Smith canta proprio di questa sospensione temporale, accompagnato da un Hammond e da una melodia luminosa:  A volte vengo rimbalzato dal passato,
A volte da un futuro che ho già vissuto.
Campione o rogna, aut-aut.  Il futuro di Smith si sarebbe rivelato essere tragico. Smith cominciò a suonare "King's Crossing" dal vivo nel 1999, un paio d'anni dopo l'uscita di Either/Or e solo qualche mese prima che la sua esibizione agli Oscar lo facesse diventare qualcosa che non avrebbe mai immaginato di poter essere. Il potenziale si rivelò essere un terrificante atto finale, e nei suoi tre album successivi Smith se ne convinse sempre di più. Ma in Either/Or era il Travis di Paris, Texas: il suo film preferito. Proprio come lui, aveva faticato ad accettare il suo passato e a dimenticarsi delle sue identità passate; aveva provato ad aiutarsi con l'alcool e, in qualche modo, era finito a parlarsi allo specchio, ad aprirsi completamente sia a sé stesso che ai suoi ascoltatori.  Alla fine di Either/Or, però, c'è il pezzo più caldo e adorabile mai scritto da Smith. "Say Yes" è un pezzo segnato dall'insicurezza e dall'angoscia, ma trova una forza immensa nella sua natura contraddittoria. No, Smith non ama una ragazza: ama "il mondo attraverso gli occhi di una ragazza"—perché il vero esteta non accetta di morire e basta. Il sorriso non vuole andarsene; lei "è ancora lì, il mattino dopo." È Travis, che se ne va dall'hotel con Ry Cooder in sottofondo, insicuro del suo prossimo passo ma coinvolto e rinvigorito dalle possibilità nascoste nell'incertezza. È l'esteta di Kierkegaard, è i suoi discorsi sulle virtù del potenziale. Proprio come faceva la frase seppellita nel mix di "King's Crossing", Smith si ricorda solo per un momento che niente è definitivo.

Fotografia: Andy Willsher / Getty Images.
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