Ho letto "Noi siamo Cantautori", la nuova rivista musicale italiana

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Musica

Ho letto "Noi siamo Cantautori", la nuova rivista musicale italiana

E credo di aver capito perché l'editoria musicale italiana non se la passa affatto bene.

Il dibattito sulle riviste musicali italiane è interessante solo se siete una parte in causa. Se vi interessa leggere riviste musicali o se scrivete su una o se avete mai pensato di farlo, probabilmente conoscete tutti i numeri e le parti in causa e le lotte da cortile. Se non vi siete mai interessati all'argomento è probabile che della loro decadenza e delle faide intergenerazionali tra giornalisti e scuole di pensiero non vi freghi—giustamente—un cazzaccio di nulla e che guardiate con la disperazione negli occhi chiunque abbia provato a intavolare una discussione su questa cosa. Non vi biasimo, naturalmente, ma dovete capirci: quelli che scrivono di musica hanno vissuto per anni in un clima di aut-fanatismo, spesso condiviso in qualche misura dai lettori, ed ora non potete pretendere che passiamo oltre senza tirare almeno qualche pippone ogni tanto. Sta di fatto che la realtà editoriale legata alla musica nell'ultimo periodo è cambiata, e tanto. Fino a dieci-quindici anni fa il panorama delle riviste in edicola era davvero piuttosto variegato: c'erano riviste specializzate, a volte con pretesa di parlare di musica a 360° e a volte dedicate ai sottogeneri (metal estremo, rap, jazz eccetera); ce n'erano tante, al punto che toccava di scegliere cosa leggere e cosa no. Le riviste generaliste avevano linee editoriali difficilmente sovrapponibili, in uno spettro che andava dall'avanguardismo ricercato di Blow Up al classicismo ricercato del Buscadero. L'anno scorso (per dire) Blow Up e il Buscadero sono usciti con la stessa foto dei Decemberists in copertina. Il mondo si è dato da fare per cancellare le ipotesi di futuro legate alla stampa musicale, come del resto ha fatto per le ipotesi di futuro legate a qualsiasi altra cosa si sia potuta trasferire su internet; il problema è cosa fare dei cocci, e chi deve occuparsene. Quando è stata l'ultima volta che una polemica lanciata da una rivista di carta italiana ha avuto effetti tangibili sulla carriera di un musicista? Quando è stata l'ultima volta che ricordate di essere corsi in edicola in seguito a qualche amico Facebook che ha segnalato l'assoluta necessità dell'articolo XXX sul Mucchio di questo mese? E come siamo andati a finire in questa situazione? Chi ha interesse ad uscirne? Chi ha una nuova visione da portare in edicola? A chi sono rimasti due soldi da rischiare per fare uscire in edicola formati sperimentali di scrittura musicale? Non a molti. Sembra fare eccezione Sprea Editori. Sprea è la casa editrice che pubblica Classic Rock, Prog Italia, Vinile e—ehm—svariate altre riviste che, pur non parlando di musica, esistono sul mercato da anni. Quindi è quantomeno un gruppo editoriale che sa il fatto suo, e praticamente l'unico in Italia che al momento sembra avere le palle per rischiare su nuovi progetti editoriali. La sua ultima creatura esce in edicola in questi giorni e si chiama NOI SIAMO CANTAUTORI, sottotitolo la rivista di chi vuole farsi strada nella musica. L'ho visto succedere la sera di sabato 19 novembre: il mio amico Giorgio ha condiviso la foto della rivista su Facebook, e ho dovuto strizzare almeno tre volte gli occhi per capire che:  1. questa rivista si chiama davvero Noi siamo cantautori – la rivista di chi vuole farsi strada nella musica, 
2. che la foto non è un fake e 
3. che in qualche modo avrei dovuto procurarmene un numero.  Sulle prime ho un attacco di panico perché il mio amico Giorgio vive a Roma ed è probabile che la rivista abbia una distribuzione limitata, o qualcosa così. Mi calmo solamente il giorno successivo, quando in un'altra discussione interviene un tizio chiamato Riccardo De Stefano (che, scoprirò, fa parte della redazione) e rivela che Noi siamo cantautori è stampata in centomila copie. Centomila copie! Una rivista specializzata di musica, l'ultima volta che ho controllato, arrivava sì e no a quattromila. I dati FIEG dicono che Rolling Stone tira 40mila copie e ne ritira—grossomodo—la metà. Metteteci il prezzo lancio di un euro e novanta e insomma, sembra che qualcuno in questa stanza stia facendo sul serio. Nel pianeta mentale in cui vivo, naturalmente, questo impeto di baldanza e le foto in copertina bastano e avanzano per fomentarmi e farmi dormire male fino al momento in cui non riuscirò a mettere le mani su questa nuova rivista.

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Sono riuscito ad acquistarla lunedì. L'ho chiesta ad un'edicolante la quale mi ha risposto testualmente "mi è arrivata, ma devo controllare se non le hanno già finite," e fortunatamente ne era rimasta una copia. Il colpo d'occhio sulla copertina è pauroso: carta leggerissima da rivista ad alto consumo, il viso di Vinicio Capossela stampato in mezzo, sotto un collage di quattro facce (Bob Dylan, Niccolò Fabi, Vasco Rossi e Nick Cave, presi in diversi momenti della loro carriera) e qualche flash con l'anticipazione dei contenuti: Suonare live: i locali che pagano; X-Factor: è polemica - parla Manuel Agnelli; Tutorial: come farsi un demo. Nelle interviste esclusive strillate in copertina, sotto il nome di Capossela, ci sono Paolo Conte, Amedeo Minghi, Teresa De Sio. CHE CAZZO. Dice che non bisogna giudicare un libro dalla copertina e credo che valga anche per le riviste, ma nel complesso la copertina di Noi siamo cantautori sembra tipo un ASMR, come se il TV Sorrisi e Canzoni di 'sta settimana fosse curato da Metahaven. Il contenuto non arriva a queste vette, ma alla fine della lettura di Noi siamo cantautori mi sento comunque in una strana dimensione postnarrativa e per la prima volta da anni, non ho idea di come cazzo ci sono finito.  Provo a spiegare.  Nel 1995 uscì Una faccia in Prestito di Paolo Conte, e contestualmente una (relativamente) celeberrima recensione su Rumore che iniziava dicendo: "ma come, Paolo Conte su questa rivista?" Oggi probabilmente non succederebbe più. A metà anni Novanta la musica alternative e il cantautorato erano pianeti e si rivolgevano ad un pubblico diverso: il pubblico alternative ascoltava i CSI, gli scoreggioni di mezza età coi miliardi in banca ascoltavano Paolo Conte. La divisione non poteva durare per sempre, sia per ragioni di impianto musicale (non è che i CSI fossero esattamente roba harshnoise) che strettamente qualitative (non è che i CSI abbiano mai fatto un disco bello quanto Una faccia in Prestito). Gli anni Novanta sono passati tutti con questa idea della smilitarizzazione in testa, per cui alla fine del decennio era obbligatorio ascoltare tutto (tutto nel senso di punk, metal, rap, IDM e giovane rock alternativo italiano), e dopo una quindicina d'anni di odio classista nei confronti dei dinosauri della canzone italiana ci siamo ritrovati a riascoltare Dalla e Battisti con una certa cupidigia di ritorno (inciso: grande Velezia, non mollare mai, portali tutti in tribunale gli stronzi) il cui effetto secondario è stato tra l'altro di rimpolpare un hype della riscoperta la cui (super)onda lunga tiene ancora banco sulle riviste.  Oggi è assodato che se parliamo di musica suonata non ha più senso parlare di mainstream e alternative. Forse avrebbe più senso parlare di stream, per dire, di un flusso unico i cui confini non sono ancora stati ben definiti; al di là delle possibilità di inquadrarlo o meno, è chiaro che le categorie con cui pensavamo la musica—e quindi le riviste musicali—non ci sono più molto utili. Il risultato all'ordine del giorno è che si può pensare una rivista musicale chiamata Cantautori, cioè basata su un assunto tecnico più che culturale o legato a un pubblico di riferimento: si parla solo di canzoni, e si parla solo della gente che le scrive.

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Il risultato finale, all'atto pratico, è una rivista che non ha eguali nel panorama contemporaneo italiano. Per capire qual è l'andazzo: a pagina 36 e 37 Francesco Donadio parla male dell'ultimo disco di Nick Cave, per il quale spero ricordiate il plebiscito ai tempi della release del primo video, e a pagina 38 Luciano Ceri intervista estasiato Amedeo Minghi. Molti lati della rivista sono assolutamente coraggiosi: c'è una specie di take down piece su un festival per gruppi emergenti chiamato Emergenza (la denuncia di un sistema di rivendita coatta dei biglietti, i dubbi sui reali benefici di esposizione portati dal concorso, eccetera) che per disinteresse o lasciar vivere non troverebbe spazio da nessun'altra parte, ad esempio. Invece, lo spazio recensioni contiene solo pezzi estremamente positivi, a parte una critica a mezza bocca a un disco di Norah Jones. L'intervista ai tizi di Woodworm occupa il doppio delle pagine di quella a Teresa De Sio, e quella a Minghi occupa più pagine di quella a Paolo Conte.  Per certi versi è una sensazione nuova. Una cosa sgradevole, quando comprate abitualmente le riviste musicali, è che è facile indovinare quale sarà il giudizio sui dischi trattati a prescindere da chi è il giornalista che li tratta (un complesso algoritmo sviluppato nel corso di anni dalla nostra mente che tiene in conto la storicizzazione del gusto, le linee editoriali, i margini di errore e altri problemi del genere). Trovarmi di fronte ad una rivista la cui linea editoriale sembra trovar spazio sia per Nick Cave che per Minghi e che riesce a concepire di stroncare il primo mentre fa da megafono al secondo, in qualche modo, mi mette di fronte a qualcosa che per me è inedito e per il quale in fondo non riesco a non fare il tifo. Lo speciale di otto pagine sui talent show segue abbastanza da vicino questo genere d'impostazione: oltre ad essere l'unico contenuto con un briciolo di appeal generalista su NSC (cioè l'unico articolo che leggeresti anche se non te ne fregasse nulla del cantautorato), è una sostanziale stroncatura a più voci del formato televisivo. Al contempo, in apertura, contiene un'intervista a Manuel Agnelli, nella quale il cantante degli Afterhours difende accoratamente X-Factor e la sua scelta di partecipare come giudice. Nello speciale ci sono piccoli contributi stile talent sì o talent no di giornalisti, produttori e altri addetti ai lavori, equamente divisi tra cretinate, sbadigli e considerazioni tutto sommato interessanti.

Non so dire se la rivista possa davvero interessare chi vuole farcela con la musica—un nugolo di persone che a quanto pare, stando ai contenuti della stessa, si arrabattano tra un provino dei talent e un concorso ad Emergenza Festival. Di sicuro articoli come "I locali che pagano" e "Come farsi un demo" sono scritti ad uso di chi suona e non di chi ascolta, e sembrano mirare esplicitamente all'altra parte della barricata in una maniera tutto sommato coraggiosa. Di certo non si tratta di "stampa specializzata", per così dire: non riesco a pensare a nessuno che sia interessato a più di due terzi dei contenuti. In questo, probabilmente, ha persino speranza di funzionare per un pubblico un po' più esteso di quello delle riviste specializzate del giro alt/indie (che del resto stampa circa un quindicesimo della tiratura di Noi siamo cantautori). Di mio posso dire che ho comprato la rivista con la convinzione di trovarmi di fronte alla cosa più ridicola e balzana della storia del giornalismo italiano, e mi sono trovato in mano una roba che tutto sommato funziona e ho letto con un certo piacere colpevole. In un panorama di totale smantellamento in cui le riviste sembrano d'accordo sull'idea di stare a bagno nella piscina di casa loro finché non è uscita tutta l'acqua dal buco, quantomeno apre un discorso di possibilità future. Chissà che non riesca ad entrare in qualche dibattito, dire la sua, lanciare qualche nome che valga la pena ascoltare. Francesco è il fondatore di Bastonate. Scrive per Prismo e per Bastonate. Lo trovi su Twitter: @disappunto Segui Noisey su Facebook e Twitter.

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