Un paio di settimane fa la mia amica Diletta Sereni mi ha scritto un messaggio dalla Val Chiusella. In fondo a quella gola sperduta aveva trovato una persona in grado di fare una buona polenta, il che le aveva fatto pensare a me.Oltre al gusto discutibile, basare l’alimentazione sulla polenta ha prodotto per secoli un tremendo effetto collaterale: la pellagra. In Italia la malattia – devastante – fu una vera e propria piaga nelle regioni settentrionali tra il XVIII e il XIX secolo
Per capire la posizione tragica della polenta nel campionato in cui si è trovata a competere dobbiamo partire dall’inizio, ovvero da cos’è. La polenta è una base cerealicola, purtroppo per lei di tradizione italiana, il che la porta a scontrarsi con la pasta, la focaccia, il cous cous e anche col risotto. Non mi fate la lista, sapete benissimo che in ogni regione ci sono quella quindicina di variazioni sul tema in grado di ridicolizzare la polenta. Che tuttavia è un cibo fortemente identitario, dunque spesso chi è abituato a mangiarla da piccolo riconosce nella pietanza un forte legame, specchio della sua appartenenza territoriale, che in buona sostanza ne compromette momentaneamente la funzione della papille gustative, pronte a considerare gradevole quella che è di gran lunga la peggiore base di cereali disponibile in tutto il Bel Paese.Partiamo dal nome: polenta deriva dal latino puls, una poltiglia di farro, classica base cerealicola romana. Un piatto che ha saputo sopravvivere per più di due millenni.
L’unico asso nella manica della polenta insomma è quello di essere una persistente madeleine collettiva per una certa parte della popolazione. Quelli a cui veniva servita da piccoli non sono pronti a riconoscerla come il mappazzone definitivo che è: sorta di semolino rappreso, dalla tragica consistenza dello (scusate) sterco appena deposto. Qui occorre confessare che per disporre del necessario distacco dalla materia trattata io non posso che non essere del Nord ma dato che vi conosco – mascherine – e so che vorrete subito farne una questione municipale, dico subito che la mia cucina preferita tra quelle italiane è la piemontese (pari merito con quella siciliana) e che per esempio adoro risotti e panettone. Per me insomma altro non è che una faccenda di gusto.Quelli a cui veniva servita da piccoli non sono pronti a riconoscerla come il mappazzone definitivo che è: sorta di semolino rappreso, dalla tragica consistenza dello (scusate) sterco appena deposto.
La polenta di mais non esiste(va)
Partiamo dal nome: polenta deriva dal latino puls, una poltiglia di farro, classica base cerealicola romana. Un piatto che al netto di alcune trasformazioni ha saputo sopravvivere ormai per più di due millenni, al giorno d’oggi ne troviamo traccia, oltre che nella polenta, nelle farinate – ancora piuttosto diffuse nel centro Italia,e in particolare in Toscana (per la cronaca, la farinata di cavolo nero asfalta qualunque polenta abbia mai assaggiato, pur non essendo poi sto granché).Nella tradizione capitolina persiste anche un’altra evoluzione di quella proto-polenta cinquecentesca: gli gnocchi alla romana – fatti di semola, latte e burro.
La polenta, nelle sue molte varianti, in passato è stata consumata (verrebbe facile dire per disperazione) in gran parte del suolo nazionale: è stato l’alimento di base della cucina povera in tutto il settentrione alpino e prealpino, nella Pianura Padana, in Liguria, in Friuli-Venezia Giulia e giù lungo gli Appennini fino (almeno) a Lazio, Abruzzo e Molise. Prima della scoperta dell’America, come accennato, la polenta veniva fatta con altri cereali. Oltre ai più ovvi orzo, farro e segale, spiccavano il miglio, il grano saraceno e anche il frumento. E poi, nelle zone montane, si usavano farine di castagne e fagioli, poverissime ma più dolci (una polenta di farina di castagne la proverei, e pare che a’ pulenta tipica della Corsica sia ancor oggi fatta quasi sempre così). Dal XVI secolo la polenta diventa quella che conosciamo oggi grazie all’arrivo in Europa del mais, così la descrive ancora Camporesi:Prima della scoperta dell’America, come accennato, la polenta veniva fatta con altri cereali. Oltre ai più ovvi orzo, farro e segale, spiccavano il miglio, il grano saraceno e anche il frumento.
“La polenta di mais (…), quella polenta che a partire dalla fine del XVII secolo andò progressivamente sostituendo le farinate autoctone (…), rappresentò una benedizione e insieme una maledizione, un cibo di salvataggio, un surrogato al pane e alla minestra, un potente antidoto alla fame. La polenta di granturco, o formentone (il termine mais non veniva quasi mai usato) spodestò anche quella di grano saraceno, nota soprattutto attualmente per essere preparata da Tonio al sopraggiungere di Renzo.”
“Cibo da kermesse popolare (nell’Ottocento era famosa la fiera di Bergamo per le grandi paiolate di polenta), alimento provvidenziale nei momenti d’emergenza annonaria, diffusosi nell’epoca di maggiore depressione economica e negli anni meno fortunati della storia transpadana, è forse destinato a diventare un ricordo, quasi un relitto di archeologia alimentare. Un piatto senza profonde radici storiche che non siano quelle della penuria e della fame, la polenta di mais non può diventare simbolo d’identificazione etnica, anche se nel Sette‑Ottocento ha rappresentato il mondo agricolo padano”.
La Polenta di mais ha ucciso
Mentre in Sud America con la farina di mais si facevano (e si fanno) meraviglie da millenni – pensate alla varietà delle tortillas – qui si sono prodotte epidemie.
Oltre al gusto discutibile, basare l’alimentazione sulla polenta ha prodotto per secoli un tremendo effetto collaterale: la pellagra. In Italia, la malattia – devastante – fu una vera e propria piaga nelle regioni settentrionali tra il XVIII e il XIX secolo, dove fu sconfitta solo nella seconda metà del Novecento.
Se è buono solo quello che c’è di fianco alla polenta, allora abbiamo un problema
Un altro classico fraintendimento degli hooligan della polenta è quello di presentarla come ottima, parlando di ciò che si mette a guarnizione della stessa. Di solito cibi ricchissimi come spezzatini di orso polare, uova di tartarughe sull’orlo dell’estinzione, funghi Matsutake, lamine di platino edibile... Ok, sto esagerando ma appena un po’.Perché la fallacia è proprio questa: il confronto è tra le basi e se pasta e pizza sono buone anche con condimenti poveri o leggerissimi, per nobilitare la polenta è indispensabile sconfessarne le origini e farne un piatto ricco, con guarnizioni di estremo pregio – il cui sapore verrà per altro contaminato dal contatto con la poltiglia indigesta. Ancora maledico il cameriere trentino che non aveva specificato che lo spezzatino di capriolo che ordinai nell’ultima gita fuori porta pre-Covid fosse servito su un tragico letto di polenta, costringendomi a una difficile e a tratti impossibile operazione di salvataggio dei bocconcini di carne dal contagio pestilenziale del sostrato.Per nobilitare la polenta è indispensabile sconfessarne le origini e farne un piatto ricco, con guarnizioni di estremo pregio
Che posto ha, dunque, la polenta nella nostra gastronomia?
La polenta in fondo serve a rifocillarsi rudimentalmente a poco prezzo (un grumo di farina infetta girato con un paiolo e dell’acqua), mentre per esempio il pane – che svolge la stessa funzione – gode di un vantaggio tecno-biologico che lo rende leggero e digeribile: la lievitazione. Il pane tuttavia non è una base, o almeno lo è raramente, e come già detto la polenta va paragonata alle altre basi di cereali: la sfida dunque è con pasta, pizza, cous cous e riso. Per me è perfino imbarazzante metterli a confronto, ma del resto mi sono imbarcato in questo trattatello e quindi procediamo.Un altro parametro per giudicare il successo di un determinato alimento è la penetrazione in luoghi diversi da quello d’origine o, nel nostro caso, da quello che a un certo punto ha deciso di farne una propria bandiera identitaria
Segui Federico su Instagram“… legata a un rituale familiare declinante, a uno spazio domestico ormai sepolto e ad una utensileria tecnico-culinaria arcaica e ingombrante, poco adatta ad essere confezionata, difficilmente riproducibile e quindi scarsamente commercializzabile, ridotta a curiosità gastronomica stagionale e a piatto etnico glorioso ma un po’ sorpassato e marginale, non sembra avere un futuro particolarmente promettente.”
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