In morte dell'indie britannico
Gli Is Tropical, vecchia foto promozionale.

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Musica

In morte dell'indie britannico

Storia di una breve epoca che avrebbe potuto svecchiare l'indie rock britannico, e invece è rimasta schiacciata dal peso dell'hype.

"Hype" è un termine bistrattato. Un buon punto per cominciare ad analizzarlo è il 1988, quando i Public Enemy decisero di dedicargli il titolo di un loro pezzo. "Non credete all'hype", dicevano, scagliandosi contro i media che non li capivano. Era un fomento istituzionalizzato, quell'hype pre-internet, contro cui l'artista combattivo si scagliava considerandolo un privilegio da sradicare. "Chi sei tu, addetto ai lavori, per decidere che cosa dovremmo ascoltare, e se quello che noi facciamo spacca?" chiedevano, idealmente, Flavor Flav e Chuck D.

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Immaginiamoci di fare un salto di quasi trent'anni, e improvvisamente è il 2006. Le stesse parole uscite dalla bocca dei rapper di It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back, cresciuti nelle strade di Long Island, New York, escono dalla bocca di un ragazzino macilento coi capelli a caschetto e la voce nasale tirato su nel grigiume di Sheffield, in Inghilterra. È in televisione per la prima apparizione mediatica della sua band, che ha fuori un singolo da presentare di cui tanto si parla. "Siamo gli Arctic Monkeys e questa è 'I Bet You Look Good on the Dancefloor'", dice appena prima di cominciare a suonare: "non credete all'hype".

Per quel ragazzino, che si chiama Alex Turner, l'hype era qualcosa di diverso. Non il giudizio di una classe superiore che detiene la chiave delle porte del successo, ma il risultato del chiacchiericcio disordinato di una massa di fan senza volto. Era nato da una collezione di demo disordinata, registrata su CD-R nel 2004 e che la band regalava ai concerti, Beneath the Bordwalk. Il titolo lo scelse il tizio che la compilò dopo averne ricevuto una copia in un locale—il Boardwalk di Sheffield, avreste detto mai—e cominciò a condividerla in giro, aggiornandola man mano che nuove demo venivano pubblicate dalla band. Nel giro di qualche tempo, il Myspace degli Arctic Monkeys sprizzava di visite e amici. La BBC ed NME si accorsero della loro esistenza. Cominciarono a pomparli, i loro concerti si foderarono di ragazzi che gli assomigliavano, e nel giro di un anno la Domino li aveva messi sotto contratto. E poi quella performance in televisione, e tutto ciò che stava succedendo ignorato con una compiaciuta scrollata di spalle: "Non credete all'hype".

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Aveva ragione, Alex, ma la gag è che in realtà non l'aveva sul destino della sua band. Gli Arctic Monkeys sono una delle rarissime eccezioni che continua a produrre album più o meno universalmente considerati di buona qualità e crea attorno a sé quelle attenzioni che un tempo erano dedicate ai Blur, agli Oasis, ai Pulp o ai Suede. Chiaramente c'è ancora chi scopre e ama il nuovo materiale dei loro contemporanei così come faceva dieci anni fa, ma azzarderei che band come Franz Ferdinand, Editors, Bloc Party possano ancora vendere biglietti, ma lo fanno con tutta l'amarezza di un pubblico che, potesse parlare, si unirebbe in un fragoroso "state zitti e suonate i classici". I motivi sono tanti e impossibili da catalogare esaustivamente. C'entrano il fatto che gli uomini bianchi hanno detto quasi tutto quello che avevano da dire, il processo di riscoperta di tradizioni non-occidentali in musica, l'ascesa dell'hip-hop a cultura dominante a livello pop.

Resta che già nel 2012 il Guardian pubblicava un articolo intitolato "La lenta, dolorosa morte dell'indie rock" a testimonianza della scomparsa dell'interesse mediatico e di pubblico nei confronti di un movimento che sembrava poter almeno bissare la grandezza del britpop. Ma ci fu una breve era, che comincia idealmente nel 2008 e finisce proprio nel 2012, in cui l'indie britannico sembrava capace di generare un'accozzaglia di band che avevano cominciato a trattare la materia indie rock in modi innovativi, storcendolo con l'elettronica o affumicandolo con istanze multiculturali. Questa è la storia delle grandi speranze di quegli anni—gli ultimi in cui il termine "hype" sembrava ancora poter generare delle superstar, e invece ha creato solo dei grandi coiti interrotti.

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I Klaxons, foto promozionale del 2007.

La nostra storia comincia dal video di "Atlantis to Interzone" dei Klaxons, forse il pezzo più famoso di quel movimento storicizzatosi come nu rave. L'idea era semplice: partire dalla lezione dance-punk newyorkese di scuola DFA e rendere il suo risultato più greve, sboccato e giovanile. Con un nome che richiamava il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e un clip in cui le loro fattezze, suggerite da segni al neon, si muovono freneticamente su una tela nera squarciata solo da un laser verde acido, i Klaxons sembravano lanciare un grido di innovazione. Neanche suonavano i loro strumenti, limitandosi a percuoterli tremando come serpenti a sonagli lisergici, con una canzone in gola e una pastiglia nello stomaco.

L'immaginario dei Klaxons era l'equivalente sonoro di quello che raccontava Skins, la cui prima stagione venne messa in onda proprio nel 2007, quando il loro esordio Myths of the Near Future diventò un piccolo caso arrivando alla seconda posizione delle classifiche inglesi. I protagonisti di Skins erano di Bristol, i Klaxons erano cresciuti tra Bournemouth, Southampton e Stratford-Upon-Avon; a unirli c'era la fascinazione per le luci della città, il tentativo di ricrearne l'eccitante caos primordiale nelle notti dei fine settimana in disco pub glitterati in cui vivere uno spensierato, eterno presente: "La luce mi ha toccato le mani in un sogno di luci da palco", cantavano i Klaxons in "Golden Skans", "puoi dimenticare i nostri piani per il futuro".

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In mezzo a tutto questo stava l'adolescenza, con la sua capacità di ingigantire i sentimenti e far credere in qualcosa di grande. E così "It's Not Over Yet", con le sue patetiche e stoiche lamentele ("Piangerò per te / Le mie lacrime ti mostreranno / Che non posso lasciarti andare via / Non è ancora finita"), conviveva con "Magick" ("Senza lacrime", tra l'altro—già dimenticata lei, eh?), strizzata d'occhio semantica ad Anton LaVey, baccanale occultista da cantare sulla via per la Thailandia.

I Late of the Pier, vecchia foto promozionale.

"Nessuno di noi era nato negli anni Ottanta", dichiararono nel 2008 i Late of the Pier, baldi ragazzi di Nottingham, "Ma ci sono state un sacco di idee fantastiche che in quel periodo non vennero mai realizzate pienamente. Se la musica di quell'era fosse riuscita a far scattare una rivoluzione, il risultato finale forse sarebbe suonato molto simile a quello che facciamo noi". Una frase leggermente ambiziosa, ma perfettamente sensata per le regole dell'hype di quei tempi—e loro, attorno, ne ebbero a palate. Prodotti da Erol Alkan, storico DJ e produttore la cui carriera è intrecciata con l'evoluzione del clubbing londinese, dall'era post-rave di inizio millennio fino alle chiusure forsennate causate dalla gentrificazione, i Late of the Pier avevano tutta l'artificialità evocativa del post-punk e della new wave, ma rigurgitata per una generazione più abituata ai palloncini di protossido di azoto più che alla cocaina.

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"Focker" è il loro pezzo più famoso, e il suo video sembra il progetto di quattro universitari burloni. Il pezzo comincia con il fischio tagliente di un sintetizzatore, accompagnato da una colonna di fumo che esce dalla chitarra lilla del frontman Sam Eastgate. Proprio come i Klaxons, anche i Late of the Pier sembrano essere più interessati a costruire una scena con i loro corpi piuttosto che a fingere di suonare. Quando il pezzo comincia a decelerare ed entrare in una sezione dai toni inquietanti, anche i Late of the Pier abbandonano ogni forza e crollano a terra assieme ai loro strumenti, devolvendosi in esseri capaci di esprimersi solo per botte e spasimi. A salvarli dalla loro miseria con un colpo di grazia scioglicervello è un robot che compare dal pavimento e li percuote con delle mazze colorate. Un leggero contrasto con il lancinante "Voglio essere tuo amico" di cui consiste l'intero ritornello, grido di solitudine di un individuo incompreso: "Che cosa ho detto? Dammi un indizio. Che cosa ti ho fatto?"

Furono anni in cui la percezione dell'offerta artistica cambiò profondamente: c'era sempre stata una masnada di giovani gruppi da ascoltare, ma l'esplosione dei social network andò a massimizzare l'impressione di poter essere i primi (ascoltatori, etichette, talent scout) a scoprire un nuovo grande fenomeno. Le band della prima ora sembravano tutte destinate a grandi successi, e alcune stavano addirittura incominciando a mettere in dubbio le fondamenta chitarristiche da cui avevano cominciato—su tutte i Bloc Party, il cui Intimacy (2008) resta a oggi uno dei migliori esempi di quello che l'indie poteva diventare scrollandosi di dosso la tradizione strumentale rock per accogliere in sé gli stilemi della dance music.

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Vanno citate in questo senso anche altre tre band, riuscite a mantenere uno status di tutto rispetto nonostante il passare degli anni. Una sono i These New Puritans, il cui album d'esordio Beat Pyramid (2008) conteneva elementi indie rock solamente come rampa di lancio per poter esplorare una massa sonora ibrida, prodotto di un'ammucchiata tra IDM, classica contemporanea e minimalismo—realizzatasi poi pienamente a partire dal successivo Hidden, uscito nel 2010. L'altra sono i Foals, in cui l'elemento dance si palesava nelle forme sonore del math rock—"Hummer, "Balloons" e "Cassius" erano giochi chitarristici in cui tecnica strumentale e gusto per l'accessibilità melodica convivevano gioiosamente. La terza sono gli Editors, che tentarono la carta synthpop anni Ottanta con In This Light And On This Evening (2009), ad oggi ultimo lavoro ispirato del gruppo prima di una svolta sinfonico-magniloquente che, pur non intaccando la loro statura, sembra aver impantanato la loro evoluzione artistica.

I Crystal Fighters, vecchia foto promozionale.

In quegli anni, Londra era il luogo in cui pensavi di dover essere se volevi sentirti al centro di ciò che succedeva in ambito indie rock—una sorta di Cool Britannia aggiornata per la generazione della crisi, felice di spendere i propri soldi nei salati vintage shop di Brick Lane e pagare 700 sterline d'affitto per una stanza micragnosa in zona 6. Ma oltre alle decine e decine di noiose band che mitizzavano la vita londinese sperando di diventare i nuovi Libertines c'era chi provò a esprimere quel sentimento di fascinazione nei confronti della capitale inglese in salsa etnicheggiante. Sto parlando dei Crystal Fighters, mezzi inglesi e mezzi spagnoli, che con la loro "I Love London" crearono una versione del multiculturalismo alla base del tessuto urbano, sociale e culturale londinese perfetta per uscire dalle casse di Urban Outfitters.

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"HOLA / ME LLAMO MIMI / I LOVE LONDON", diceva il brano, su un cowbell martellante affiancato a un beat così da discount da risultare irresistibile. "Voglio andare alla festa dei miei amici / A Willesden, Harlesden, Watford Junction", cantava Mimi, lodando le periferie mentre ballava una danza sconnessa filmata in VHS. Come avrebbero dimostrato sul loro album d'esordio Star of Love (2010), i Crystal Fighters erano dei fricchettoni da festa del bottiglione ma soli e presti male, chitarristi da spiaggia innamorati della cassa dritta, migranti economici con in testa donne e musica più che lavoro e stabilità: "Dai Paesi Baschi a San Francisco / Tutte le ragazze, la mia Casiotone / Mamma, papà / Sono andato in Inghilterra per provare a trovarmi l'anima", cantavano su "Solar System". Ma fu "I Love London" a storicizzarli, anche grazie al lavoro di un'etichetta che avrebbe dominato per qualche tempo l'ipereccitato circuito dell'hype.

Fu Kitsuné, una piccola etichetta francese ma anche casa di moda che prendeva il nome dal giapponese per "volpe", ad accorgersi dei Crystal Fighters e mettere "I Love London" su una sua compilation. Kitsuné si era guadagnata un ruolo primario nell'ecosistema delle etichette influenti dell'epoca andando a stampare prima una serie di singoli (tra cui "Atlantis to Interzone" dei Klaxons, nel 2006) e poi delle raccolte in cui ficcava più nomi sconosciuti e misteriosi possibile, così da creare un'aura di mistero e promessa attorno a ogni cosa su cui appiccicava il suo logo. L'ideale che trasmetteva era composto sia da una ricerca musicale naif che da un fascino per la luminescenza artificiale dei neon, la ballabilità scomposta della bloghouse e gli effetti per le chitarre.

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L'anima più danzereccia di Kitsuné si esplicitava nella futile irruenza electro degli You Love Her Coz She's Dead, nel simil-grime per bianchi degli Hadouken!, nel synthpop retrò dei La Roux. Le loro grandi chiamate chitarristiche, invece, furono principalmente due. La prima, annata 2009, furono i Two Door Cinema Club, un trio irlandese che l'etichetta francese andò a prendere di forza: "Si presentarono loro a noi," dichiarò la band nel 2010, "chiedendoci di pubblicare un singolo e facendoci suonare a una festa a Parigi, il nostro primo concerto fuori dal Regno Unito". A definirli era la scelta di usare una batteria elettronica, su cui avevano deciso di appoggiare un classico indie danzereccio particolarmente incentrato su melodie spigolose. L'aspetto di giovincelli sbarbati, goffi e teneroni ma capaci di divertirsi aiutò a contribuire al loro successo: la loro "I Can Talk" è a oggi il video più visto sul canale YouTube di Kitsuné.

La seconda, annata 2010, furono gli Is Tropical. Tre ragazzi londinesi pescati da Kitsuné sulla forza del loro primo singolo pubblicato l'anno precedente: "When O' When", un brano stranissimo. Con un'acustica, una fisarmonica, un synth e una melodica come piastrelle, le voci degli Is Tropical cantano di un'immaginaria partenza per la guerra sospesa in tempi pirateschi. E poi, dal nulla, ecco arrivare una batteria meccanica, una voce distorta, un basso ronzante e un groove tellurico. Se fosse il personaggio di un racconto, "When O' When" sarebbe il vecchio marinaio con la gamba di legno che si mette a danzare, ebbro di vinaccia, nel baretto del porto. Semplificando, dicevano loro, era "pop, con un sacco di synth, bassi e percussioni pesanti e melodie pop effettate che ci nuotano sopra".

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Gli Is Tropical dicevano tutto quello che c'era da dire sulla loro musica nel loro nome. "Londra era il posto meno tropicale che potessi immaginare", spiegarono, "e le case in cui vivevamo erano ancora peggio. Era solo una via di fuga". Mentre i Crystal Fighters prospettavano ai non-londinesi una vita frenetica, colma di stimoli multiculturali e feste matte, gli Is Tropical parlavano a chi a Londra ci viveva e si era già accorto che le promesse di gloria ed esperienze indimenticabili della capitale si sarebbero potute avverare solo con un conto in banca piuttosto ben messo. E allora si rifugiavano dietro a foulard colorati e ciuffoni azzardati, e cantavano del Pacifico del Sud. Kitsuné li mise sotto contratto nel 2010 e pubblicò il loro album d'esordio, Native To. Uno dei suoi singoli, "The Greeks", ha macinato negli anni circa sei milioni di views grazie alla forza di un geniale video che vede protagonisti dei bambini, delle armi, e un sacco di sangue, proiettili, droga e brutalità varie.

Gli Egyptian Hip Hop, vecchia fotografia promozionale.

Gli anni tra il 2010 e il 2012 furono quelli in cui il concetto di hype internettiano raggiunse il suo apice: sembrava che in ogni sobborgo di Londra e in ogni paesino del Surrey, del Sussex o dello Yorkshire si celassero i nuovi salvatori del rock indipendente. Ci furono tre band attorno a cui gravitava la maggior parte dell'eccitazione collettiva, unite da un'estetica colorata mutuata dai modelli nu rave e una spudorata ricerca dell'accessibilità sotto forma di melodie spensierate e ritmiche quadrate e ballabili. I primi furono gli Egyptian Hip Hop, sulla forza del loro EP Some Reptiles Grew Wings, uno dei prodotti più luminosi della scena britannica dei tempi. Poi arrivarono due band in cui l'elemento di ibridazione dance compariva solo come applicazione di forme ritmiche e melodiche a una classica formazione rock. I PEACE, il cui Delicious EP conteneva una gloriosa cover di "1998" dei Binary Finary, hit trance da capannone sudato, e gli Swim Deep, che nel singolo "King City" cantavano i vani sogni di gloria di ogni indie kid del continente: "Voglio essere tutto ciò che non sono, voglio essere ricco e vantarmi", cantavano, andando anche troppo nello specifico: "Fanculo il tuo amore, voglio fare finta / Che Jenny Lee Lindberg sia la mia ragazza".

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Oltre a loro, altre due realtà presentavano evoluzioni completamente opposte dei paradigmi indie rock dominanti dell'epoca. I Vaccines scelsero di riavvolgere il nastro del tempo e tornare indietro fino all'immediatezza scarna del rock and roll con "Wreckin' Bar (Ra Ra Ra)" (2010), filastrocca distorta per amori da una notte. Gli Alt-J, invece, andarono ad astrarre al massimo la forma indie rock proponendo una materia sonora inclassificabile in cui convivevano acustiche e bassi tuonanti, arpeggi puliti e cantilene a cappella, rafforzate da un immaginario testuale fortemente citazionista. "Fitzpleasure" è forse il pezzo che, ad oggi, rappresenta meglio quello che sarebbero potuti essere: una forza musicale a metà tra sintetico e organico, costruita su ritmi incostanti e stratificazioni di suono e significato. Era musica scritta da universitari mezzi nerd che investivano in Macbook e cappellini Supreme, fissati con la fantascienza e la letteratura. Funzionò incredibilmente bene.

Gli Alt-J, vecchia foto promozionale.

Credo sia impossibile definire un motivo esatto per cui tutte le band di cui ho parlato finora abbiano smesso o di produrre musica di qualità, o di far parlare di sé, o direttamente di esistere. I più ovvi possono essere liquidati in poche righe con un'enumerazione: il ribaltamento di rapporti di forza tra rock e hip-hop, l'incapacità da parte delle rock band più giovani di continuare ad affascinare i propri ascoltatori con album tanto evocativi e ben composti quanto i loro esordi, il modo in cui i media simil-alternativi hanno cominciato a parlare di pop alla stessa stregua di qualsiasi altro genere o sottocultura (il cosddetto poptimism), il concetto di retromania e la sua applicazione in ambito rock (per cui rilavorazione del passato > sperimentazione e ricerca del nuovo), la rivalutazione delle grandi tradizioni sonore non-occidentali con annesse appropriazioni, l'improvvisa presa di coscienza da parte del Regno Unito di essere la terra del grime, l'enorme peso economico dell'EDM e il conseguente interesse dei festival a proporre artisti che facessero vendere biglietti. Ma queste sono tutte naturali evoluzioni del gusto e del mercato musicale: credo che la più grande influenza sul lento declino dell'indie britannico sia nata da un cambiamento nel modo in cui noi ascoltatori e noi giornalisti selezioniamo la musica che ascoltiamo e presentiamo.

La fine del primo decennio degli anni Zero fu infatti il momento storico in cui si cominciò a parlare avidamente di storytelling in ambito commerciale: l'idea, semplificando, è che imbastire un racconto attorno a un prodotto, un brand o un individuo aiuti enormemente la sua potenziale utenza a identificarsi in lui e/o a volerlo acquistare. E chi suonava in quelle band era, al 90%, un normale ragazzo bianco con una passione per le chitarre, l'elettronica, le ragazze e le droghe: niente di così straordinario. L'hip-hop, invece, aveva un'enorme capacità evocativa: incarnava la narrazione del riscatto black negli anni della presidenza Obama, raccontava le contraddizioni degli Stati Uniti contemporanei, illuminava di nuova luce la diaspora creativa della comunità africana. Popstar come Rihanna e Beyoncé cominciarono a diventare qualcosa di più di macchine da hit e si affermarono come simboli culturali, diffondendo e andando a incarnare ideali femministi e progressisti.

Dev Hynes, oggi Blood Orange, ai tempi in cui si faceva chiamare Lightspeed Champion.

Non è un caso che forse l'unico esponente dell'indie inglese di quegli anni, tale Devonté Hynes, non sia diventato famoso per l'indie formulaico dei Test Icicles o per il suo progetto acustico Lightspeed Champion, ma quando si è trasferito negli Stati Uniti e ha cominciato a fare musica che raccontasse delle sue origini e della sua identità africana a nome Blood Orange. Il rock tradizionale, in fondo, è sempre stato quello: continuava a vendere biglietti e dischi, ma i suoi elementi costitutivi avevano perso potenza significativa. E questo ha portato i grandi nomi del passato a continuare ad accrescere la propria statura, per cui i fratelli Gallagher continuano a fare gli headliner in giro, e l'industria musicale a cercare di bissarne il successo proponendo loro copie aggiornate ai tempi (penso a band come Royal Blood e Circa Waves).

I Klaxons fecero un secondo album deludente, Surfing the Void (2012), e chiusero i battenti poco dopo. I Late of the Pier non sopravvissero al loro esordio discografico e non pubblicarono più nulla dopo Fantasy Black Channel. I Crystal Fighters continuano a suonare per festival, riproponendo in eterno il festone da ostello di backpacker che avevano immaginato ai tempi di Star of Love, mentre le rughe gli scavano solchi sul viso. Gli Is Tropical provarono ad abbandonare completamente le chitarre, a inserire una voce femminile e a viaggiare per il mondo in cerca di ispirazione, ma il contatore delle views dei loro video non ha fatto altro che farsi sempre più risicato. I Two Door Cinema Club sono diventati una normale band da metà cartellone che sforna nuovi album solo per tirare avanti a campare. PEACE e Swim Deep sono scomparsi dopo album d'esordio deludenti in cui mancavano singoli capaci di sembrare tanto freschi quanto quelli tratti dai loro EP, e lo stesso fecero gli Egyptian Hip Hop: il loro album d'esordio non era invece affatto male, ma era troppo fumoso e lisergico per poter piacere ad abbastanza persone da giustificare la loro esistenza sul lungo termine.

Gli Alt-J sono sì riusciti a continuare a suonare per pubblici enormi, ma pubblicando album di qualità sempre inferiore: Relaxer, la loro ultima opera, è un album ripiegato su sé stesso e fortemente ostico che potrebbe causare una seria diminuzione della loro quota di mercato. I Vaccines sono diventati mestieranti delle chitarre che continueranno a tirare avanti proponendo ciò che sanno fare finché ci sarà qualcuno ad ascoltarli (e così altre realtà ancora non nominate, come i Wombats, i White Lies, i Mystery Jets). Le hit di quell'epoca sopravvivono ancora nei DJ set con "London" nel nome, nelle playlist dei servizi di streaming, nel cuore di chi se le è fatte passare dentro mentre cominciava a invecchiare. L'hype esiste ancora, ma non sta quasi più nei pub gentrificati di Shoreditch, nelle warehouse per studenti d'arte di Seven Sisters, nelle università dello Yorkshire. Se n'è andato in altri posti, nel Regno Unito, tutti lontani dalle chitarre: nelle estate dove prolifera la scena grime, nella furia nichilista di Gaika, nella lacerante poesia urbana di Kate Tempest, nell'adulto electropop di Charli XCX. Ma in realtà non sta più in Albione, l'hype: si è diffuso su tutto il pianeta, ed è diventato uno stato costante della fruizione musicale. Così pervadente che non ha neanche più senso di esistere.

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