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Musica

Il mio primo appuntamento con Joan Thiele

Dato che il suo album si intitola Tango, anche se con il tango non c’entra quasi niente, sono andato con lei a ballare il tango.
Tutte le foto sono dell'autore.

Devo uscire con Joan Thiele, che fa la cantautrice e la produttrice ed è fresca di un disco su Universal. La nostra non deve essere un'intervista ma qualcosa che somigli più a una serata piacevole che a una conferenza stampa. Dove portarla, però? L’illuminazione arriva soffermandomi sul titolo del suo album: Tango. Perfetto, allora andremo a ballare il tango! Nel cercare una serata per la data prestabilita scopro con sorpresa che a Milano non c’è qualche serata di tango alla settimana, come pensavo, ma bensì più o meno tre serate ogni giorno. Del tutto inconsapevolmente, solo per comodità, scelgo quella che poi si rivelerà essere una delle più storiche di Milano, quella all’Arci Bellezza. Passo a prendere Joan alle dieci di sera. Prima di entrare nel locale parliamo un po' di lavoro e, in un raro momento di professionalità, le faccio qualche domanda-da-intervista sulla sua formazione musicale e sulla sua carriera. "Sono del lago di Garda, Desenzano. Mia mamma è italiana, di origini napoletane, mentre mio papà è svizzero-colombiano. Sono nata sul lago, sono cresciuta in Colombia, poi io e mia madre siamo tornate sul lago quando avevo sette anni e sono rimasta lì fino alla maturità. Poi sono andata in Inghilterra, e poi a Milano".

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Le chiedo se è vero che è venuta a vivere qua per una storia d’amore, come si legge da qualche parte: "In realtà sono andata via da Londra perché mi ero innamorata di questo trombonista inglese. Ho girato un po', poi a ventidue anni, sola e col cuore spezzato, sono tornata in Italia. Sono tornata sul lago ma non c'era molto da fare, e quindi ho deciso di venire qua".

E ancora: "Facevo già musica e ho iniziato a suonare nei localini, dappertutto. Non mi facevo scrupoli, scrivevo a chiunque per suonare. Arrangiandomi da sola, senza una struttura dietro, e senza neanche un disco. Avevo un bel po' di pezzi però, e li portavo live, tutto in acustico. Ho iniziato a suonare sempre di più, conoscere gente, mi sono appassionata all'elettronica, ho iniziato a usare programmi, smanettare, fare un po' di produzioni. Ho conosciuto gli Etna, con cui poi ho prodotto il disco, abbiamo iniziato a lavorare. In un localino ho conosciuto una ragazza di Universal e anche il rapporto con l'etichetta è nato così, un po' alla vecchia”.

Le chiedo come ha cominciato a suonare: "Ho iniziato a studiare la chitarra a dodici anni perché ero appassionata dei Led Zeppelin. Non ascolto molto roba simile a quella che scrivo. I miei idoli erano Crosby, Stills, Nash e Young e il mio sogno era essere Jimmy Page. La colpa è della mia babysitter Cecilia, è lei che mi ha trasmesso l'amore per la musica. A nove, dieci anni mi sparava i Led Zeppelin. Ma anche i fratelli delle mie amiche, dato che ti attacchi un po' a quelli più grandi per scoprire le cose. A scrivere ho cominciato verso i diciotto. Stando a Londra mi veniva naturale farlo in inglese, il che non pregiudica farlo in italiano prima o poi".

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Entriamo nel giardino del locale e prendiamo i primi di una lunga serie di gin tonic (per me) e moscow mule (per lei). Io non sono mai stato a una serata di tango e provo a farmi spiegare da lei la differenza tra tango e milonga, ma scopro che anche lei non è così ferrata sull'argomento. "Il fatto che abbia chiamato il disco Tango non è assolutamente legato al ballo, il motivo principale è il significato della parola. Mi affascinava il significato latino da tangere, toccare, emozionare, sedurre. Questo per me è un disco molto intimo e emozionale quindi ho trovato che fosse un titolo giusto. È un disco molto legato a mio padre, al Sud America e alla mia famiglia".

"L'ho iniziato nel 2016 quando sono andata a Armenia da mio padre, vicino a Bogotà, nella zona Cafetera", continua. "Si era ammalato e volevo stargli vicina, quindi sapevo che mi aspettava un periodo intenso. E ho iniziato a scrivere. Il primo pezzo è stato 'Armenia'. Don't give it up è un po' un mantra. Fare uscire questo disco è stato terapeutico. Sono riuscita a trasformare tutto quel dolore e quelle emozioni in liberazione totale".

Le chiedo se torna spesso in Colombia. “Una o due volte all'anno. Mi sono portata dietro tutto quello con cui suono. Mi è piaciuto molto anche filmare, cosa che non so fare ma che mi piace, quindi l’ho fatta a livello molto amatoriale: filmando per esempio queste due bambine nostre vicine di casa, che impazzivano per il mio ukulele. Poi da lì sono partita con mia zia e mio cugino, che fa il biologo marino, e abbiamo fatto un mese in mezzo alla giungla. Zero turismo, solo indigeni e paramilitari che controllano il narcotraffico. È una zona incredibile perché è dove nascono le balene. Anche lì ho scritto e fatto un sacco di video. Poi sono tornata da mio padre ancora un po', poi di nuovo a Milano e sono entrata in studio".

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Parliamo poi in generale di musica e dei nostri ascolti recenti. "Uno dei miei dischi preferiti degli ultimi anni, che ascolto in maniera compulsiva, è Mala di Devendra Banhart. Poi uno dei miei preferiti è Anderson .Paak. Mi piacciono molto St. Vincent, la seguo tanto, e Anna Calvi". Parliamo bene di qualche collega italiano come Any Other e Generic Animal, di festival come Saturnalia, Zuma e Terraforma, degli ultimi viaggi che abbiamo fatto.

Joan mi racconta ancora della Colombia, di cui è davvero innamorata: "L'edilizia a Cartagena è cresciuta tantissimo. Ha questa zona del centro che è coloniale quindi ha tutte le case colorate, un posto meraviglioso, ma appena esci hanno cominciato a nascere miliardi di grattacieli. Adesso hanno fatto i voli diretti da New York ed è pieno di americani, e c'è un'edilizia senza senso al fianco di un sacco di povertà. La cosa che distrugge di più della Colombia è l'assenza totale di classe media: o sei ricco o sei povero. Vedi il palazzo di quaranta piani e poi il garage con quindici persone dentro.”

A questo punto giunge il momento della classica domanda di prassi in questa serie di interviste di Noisey: quella sui peggiori (e migliori) primi appuntamenti che ci siano mai capitati. "Io in realtà sono piuttosto timida, non è che abbia tutti questi appuntamenti, soprattutto la cosa classica dell’uscita senza conoscersi. Però quello che mi è capitato, e che odio, è uscire con qualcuno pieno di se, che parla solo di se stesso e di quanto è figo, e che non è interessato a quello che hai da dire tu. Odio la gente spocchiosa, in generale. Io sono timida ma anche una cazzona. Una cazzona timida!" E il più bello? "Una specie di appuntamento al buio! Da piccola ero appassionata di finger picking, e a un festival avevo conosciuto un chitarrista americano, Marcus Eaton, che mi diceva che aveva lavorato con David Crosby. Siamo diventati amici, e un anno e mezzo fa mi chiama e mi dice 'Sono a Milano e ho una sorpresa, ti porto in un posto'. Arriviamo fuori dal teatro Dal Verme, va a bussare a un tour bus e apre David Crosby. Io basita. Avrei voluto dirgli un miliardo di cose, lo ascoltavo e piangevo, uno dei momenti più belli della mia vita. Mi offriva il te e suonava la chitarra. Odio la gente spocchiosa ma ho notato che i più grandi sono super easy”.

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Ci apprestiamo quindi a andare verso il fulcro della nostra serata, verso la sala dedicata alle danze, e scopro definitivamente che anche Joan è una principiante. "Non ho mai ballato il tango. Sono finita una volta quasi per sbaglio a una serata di tango verso Porta Venezia, in una sala stupenda, con le balconate, ma non ho ballato. E erano tutti super vestiti! Balli stasera? Facciamo una prova?"

Entrando dal giardino, il primo ostacolo: ci viene chiesto se abbiamo mai ballato. Alla nostra risposta imbarazzata ci viene detto che se non l’abbiamo mai fatto non ci conviene andare in pista, ma stare a lato a guardare. Sì, proprio come gli sfigati che siamo. Ci viene concesso comunque di entrare a vedere com’è la situazione e effettivamente i ballerini sembrano proprio dei professionisti. Ci mettiamo a impezzare qualcuno di quelli seduti un attimo a riposarsi e ci facciamo raccontare della serata e del loro rapporto con la danza.

Tendenzialmente non vengono a ballare le coppie, ma gente che si conosce qui e poi magari alla lunga sviluppa un rapporto fisso allenandosi insieme. Il tango è un lavoro complicato, di pratica continua. Ma spesso le coppie cambiano anche nel corso della serata, soprattutto nei primi anni. È solo dopo almeno un paio di anni di pratica che incominciano a formarsi coppie fisse. Molti ci raccontano che hanno cominciato in gruppo, e poi è diventata una specie di droga. Una ragazza ci dice che ha cominciato perché era un modo per conoscere gente senza dover parlare, visto che già per lavoro deve parlare con la gente tutto il giorno.

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Joan chiede se ci si innamora ballando il tango, ma le risposte (oltre a "anche tre o quattro volte a sera") riguardano più altri tipi di connessione, di contatto: non è così comune come si penserebbe che le cose si spingano più in là. Per quasi tutti l’elemento passionale è già tutto nel contatto che avviene sulla pista. Anzi, spesso le coppie già formate scoppiano, ci dicono. "Soprattutto se sono in crisi: se provano il tango per risolvere altri problemi, tendenzialmente il tango questi problemi li fa esplodere".

Notiamo che il DJ Roberto Nicoli, veterano del genere, suona con due computer davanti. Andiamo a chiedergli perché. Ci dice che è perché ha paura che uno dei due si impalli, e così ha sempre il secondo pronto a intervenire. Ci spiega le differenze stilistiche tra i vari tipi di tango e che i pezzi che vanno di più sono quelli degli anni Quaranta, Cinquanta e al massimo Sessanta, e che i quattro pilastri che non mancano mai sono Pugliese, D’Arienzo, Troilo e Di Sarli.

Joan comincia a appassionarsi alla questione e la prendo in giro chiedendole se il prossimo disco a questo punto lo farà veramente di tango. Non lo sa, ma sicuramente comincia a prospettare seriamente l’ipotesi di iscriversi a un corso.

Usciamo a fumare una sigaretta. "È strano per me fare interviste: fai comunque un lavoro in cui ti apri, però raccontarlo esplicitamente è diverso. Io sono una persona timida. Ma in un contesto del genere è meglio, mi devo un attimo abituare, però così almeno ci si conosce, è più informale e viene più spontanea".

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Verso la fine della serata danzante giunge anche per noi il momento di scendere in pista, assistiti da alcune delle persone con cui abbiamo parlato. Tra qualche imbarazzo e molti piedi pestati, balliamo un po’ tra di noi ma anche assistiti da alcuni esperti che provano a metterci sulla strada giusta. Sorprendentemente, per l’uomo forse è più facile: essendo quello che conduce è più difficile sbagliare. Ricevo quindi anche qualche mezzo complimento, nonostante sia sicuramente meno portato di Joan. Intanto ci chiediamo come facciano a non calpestarsi i piedi in continuazione ("Impari, ci vuole pratica. È come quando impari a suonare uno strumento").

Rimaniamo in pista finché le luci si spengono. Quando usciamo è ormai notte fonda e decidiamo di andare a mangiare qualcosa. L’opzione migliore è il vicino Chiosco Maradona, aperto tutta la notte e rinomato per i suoi panini gourmet. Io sono di casa, ma scopro che anche Joan lo conosce bene. E fa notare peraltro che dopo il tango anche Maradona farà proseguire la nostra serata all’insegna dell’Argentina.

Tra panini, birre e amari ci godiamo la raffinatissima selezione musicale del chiosco fatta di Jennifer Lopez, "La Gasolina" e Sean Paul, esaltandoci entrambi quando parte “Pem Pem" di Elettra Lamborghini e facendo altre chiacchiere, che acconsento di fare a registratore spento. Sono ormai le quattro del mattino quando la riaccompagno a casa e, per quanto mi riguarda, sono sicuro di avere passato una serata diversa e divertente. Fossero tutti così i primi appuntamenti. Inoltre ci ho anche guadagnato un bellissimo accendino che Joan mi ha regalato e che potete ammirare nella foto qui di seguito.

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