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Musica

I "viaggi" organizzati di Lucio Dalla

Se il Dalla politicizzato è scomodo per i talent show, non avete sentito quello nichilista. È arrivato il momento.

Ciao Pippo.
(Lucio Dalla – finale di “Washington”, 1984)

Vi confesso, io non ho la TV a casa. Non guardo nessun tipo di programma, nemmeno quelli di Rai storia o ste cose qua. Men che meno i programmi musicali, salvo quando mi ritrovo dal kebabbaro sintonizzato su MTV e allora strabuzzo gli occhi per lo stupore (sembra roba per cerebrolesi). Quindi figuratevi quanto mi può interessare tutta la storia dei talent show tipo X Factor ecc. Per me è un baraccone senza capo né coda: quel poco che ho visto me lo ha confermato in maniera definitiva. Il problema è che non si parla d’altro in giro, sembra davvero che alla gente interessi questa sbobba tiepida. Come se non bastasse, poi, anche io sono stato contagiato dalla cosa—dannazione—dopo le esternazioni di un tale Fedez, un pivelletto con gli scarabocchi sulla pelle che crede di essere un artista solo perché mette in fila due rime in croce. Durante una delle ultime puntate di X Factor costui boccia un concorrente perché canta “E non andar più via” di Dalla, contenuto in quel capolavoro da inchinarsi che è Com’è profondo il mare. Le motivazioni le trovate ovunque online e potete anche rivederle in streaming se volete: ma io, a scanso equivoci, vi riporto le sue parole via Facebook che sennò “chissà che ho capito”.

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“Mi spiace che il mio discorso sia stato frainteso, forse nella confusione che si era creata non è passato ciò che volevo dire, ho cercato di rivendicare il senso profondo di un capolavoro di enorme spessore sociale,secondo me mortificato e svuotato di senso se inteso come una mera esecuzione SU UN PALCO TELEVISISVO CON SCENOGRAFIE STELLARI. Parlare di pugni chiusi in quel contesto è SVILENTE per il significato e l'importanza storica del testo! E quando mi dicono "quei pugni erano i suoi" dico no mi dispiace, sta parlando di una storia che non gli appartiene, si sta appropriando di una lotta che non è la sua.”

Il ragazzo delira: come può rivendicare chicchessia o fare una qualsiasi morale politica se lui stesso si ritrova in quel posto di merda a fare il pagliaccio e ha scritto (vantandosene per altro) anche l’inno del M5s? La cosa evidente, invece, è che ci viene ancora una volta tolta la possibilità di ascoltare brani importanti, e visto che oggigiorno i canali quelli sono, è bene che il messaggio passi soprattutto attraverso “palchi televisivi con scenografie stellari” fino a che questi non sprofondino nel centro della Terra.

Datosi che il Dalla “impegnato” è scomodo per la televisione mainstream di oggi (che poi impegnato… Figuriamoci… Pensa se il tizio avesse cantato “L’operaio Gerolamo” o “I muri del ‘21”..), allora è il caso che vi parli del Dalla “cinico”, probabilmente ancor più dannoso al sistema. Mi ero riproposto di non parlare più di uomini in questa rubrica per alzare le quote rosa, ma è necessario fare giustizia. L’anno è il 1984, il disco il paralizzante Viaggi Organizzati.

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Della storia di Dalla ho parlato a grandi linee qui, in occasione della sua morte: ma se ne potrebbe discorrere per ore, avendo lui fatto una gavetta assurda a differenza di certa gente che oggi esce dal pavimento e te la ritrovi comunque a pontificare. Dal 1966 passa tutte le ere musicali possibili nel frullatore della sua follia creativa, poi collabora con la paroliera/poetessa Paola Pallotino, si stabilizza con Roberto Roversi e la allucinata e micidiale trilogia politica, poi si innalza a cantautore puro da Com’è profondo il mare a Q disc, non sbagliando mai un colpo e mettendo d’accordo incredibilmente pubblico e critica. Siamo nel 1981: dopo una sequela di grandi dischi e di assoluti capolavori indiscussi sembra che Dalla—oramai più che maturo—abbia bisogno di una pausa di riflessione: perché i campioni, una volta che hanno vinto tutto, sono i primi a soffrire per mancanza di obiettivi.

Tra l’altro sta cambiando l’aria musicale nel mondo, trionfa la new wave e l’elettronica comincia a entrare di prepotenza nelle classifiche: il cantautorato di Dalla rischia di collassare su se stesso cristallizzandosi in uno stile eccessivamente definito e addirittura demodé. E infatti1983 esce nello stesso anno del titolo (l’inventiva scricchiola) e già da questo non promette nulla di buono: è vero, contiene comunque dei pezzi interessanti (come la stortissima e improbabile title track, che ripercorre l’intera storia d’Italia alla velocità della luce) ma anche molto mestiere, anzi troppo.

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Dalla stesso ammise che non aveva voglia di farlo, perché stava pensando a mettersi in proprio piuttosto che stare appresso alla major di turno: la testa era altrove, per cui i brani li mette su cotti e mangiati al solo scopo di onorare il contratto, coi soliti Stadio a fare da backing band, vaghi rimandi al periodo di Anidride Solforosa, suoni indecisi fra l’innovazione e la conservazione e altri sentori di smarrimento, della serie “recupero le molliche di pane sperando di non finire in mano alla strega”. Il passo falso, tuttavia, non resta inosservato: tutti sono pronti a scrutare Dalla scendere dal podio e a lanciargli il boccino per farlo cadere nella tinozza d’acqua, lui cammina come un cieco su una fune con sotto i leoni ad attenderlo: è a questo punto che il nostro eroe se ne esce con un taglio netto à la Fontana sulla tela della sua carriera. Viaggi Organizzati esce per la Pressing, etichetta fondata da Lucio Dalla stesso, di cui è direttore artistico. Basta RCA, basta compromessi: stavolta Lucio fa davvero come cazzo gli pare. Per prima cosa si sbarazza degli Stadio (i quali parallelamente si sono, non a caso, buttati in zona synth pop) e dopo attenta riflessione decide di superare le mode musicali a sinistra: niente elettronica usa e getta, niente new wave, niente di tutto questo. I suoni rimandano a una specie di italo disco sperimentale, inseriti in un contesto cantautorale unico quale il suo, quindi una continua deflagrazione mentale. Pochissimi collaboratori, di cui rimane della vecchia guardia il solo Ron, alcuni degli altri li abbiamo già citati a proposito di questo lavoro. Fra di essi, appunto, l’onnipresente e geniale Mauro Malavasi: Lucio Dalla lo incontra nel 1983 a New York e gli propone di dargli una mano a definire il nuovo stile. Uno stile che si presenta subito in maniera molesta.

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Innanzitutto i testi. L’album si apre con “Tutta la vita”, brano che rimarrà uno dei suoi cavalli di battaglia: una specie di ossessiva e paranoica cantilena sull’inutilità di esistere. Si mette in discussione tutto, addirittura la propria musica: “Tutta la vita, a far suonare un pianoforte lasciandoci dentro anche le dita su e giù o nel mezzo la tastiera siamo sicuri che era musica?”. Dalla afferma di sentirsi al centro della confusione, "come un pallone che si è perduto," ma senza niente di meccanico. Insomma, magari fossimo macchine: avremmo la certezza che esistiamo per servire qualcuno. Un grande inizio, il cui peso specifico elettronico freddo e minimale è mascherato da una partitura allegrotta quasi latinoamericana, spensierata quanto basta per nascondere fastidiose dissonanze sintetiche tipo coscienza di John Wayne Gacy.

Il secondo brano è una follia. La storia di un toro che fugge e tenta di entrare in discoteca, poi invece si ritrova addirittura su un divano a vedere la TV con un Rolex d’oro. Una specie di falso tango con incursioni salsa farcito di spettrali suoni digitali, vocoder sulfurei e malesseri assortiti quali chitarre col mal di mare, per raccontare probabilmente l’Italia degli Yuppies, dei giovani che, da sovversivi, finiscono a vendersi per lussi e false libertà che nascondono controllo sociale. Uno spietato e doloroso affresco dello sbriciolamento degli ideali. Insomma: Dalla aveva previsto Fedez e tutto il cocuzzaro.

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In un cerchio di pianoforti suonati da Ron, che ne è coautore, “Aquila” è un brano lirico pieno di suoni assurdi, ai limiti del sound design, fra mareggiate sintetiche e finti flauti di pan processati dal Fairlight che manco Blank Banshee, per poi sfociare in un andante tanto massiccio quanto desolato, che sembra sì rock, ma svuotato di umanità. “Fra poco finiranno le nuvole, non voltiamoci”. Una storia che parla probabilmente di reincarnazioni a catena, angeli in crisi di identità, comunque sia un universo mutante in cui pare che il senso sia subito sostituito dal suo contrario. La salvezza sembra la condanna e l’assenza di coscienza la misura di tutto.

“60 milioni di anni fa” si apre in maniera rassicurante, con tanto di coretti umani: poi ecco Dalla che pronuncia roba scioccante, al limite del bestiale “Bello quel tuo sorriso mongolo, vuoi sapere come ti sta? Sembra l'uscio di un cesso pubblico—ecco come ti sta". Dialogo con un interlocutore autoreferenziale al quale è impossibile parlare. Che ti ridi ebete? “Non mi fa più ridere niente” la lapidaria conclusione. Incomunicabilità allo stato puro, si fregia di intermezzi con sbuffi elettronici a caso e disturbi sintetici. L’abito potrebbe essere quello del Dalla di un tempo,ma il monaco è praticamente in preda a un raptus passivo-aggressivo, come una lumaca che mangia la propria coccia.

“Stornello” parte con dei paddoni leggeri e diafani: la fiera del suono digitale. Non c’è neanche una vera ritmica, è quasi un cadere nel vuoto. Suoni elettronici deformi fanno capolino in maniera inaspettata con tessiture sottilissime. Il testo, poi, l’ennesima stoccata: "ero solo da morire / così ho acceso la radio / tra gli auguri / ma come gli auguri / si sentiva cantare / e io lì solo,ci pensi,da solo / a guardare le stelle,le stelle / ma che andassero a cagare". Storia di un astronauta che torna a casa dallo spazio per Natale: quello che è eccezione qui diventa quotidianità quasi banale.
Tanto banale che alla compagna non interessa affatto cosa ha combinato fra le stelle, spegne l’abat-jour e fa finta di dormire lasciandolo ai suoi monologhi. Un'umanità che si è rotta i coglioni anche dell’eccezionale: il cosmo è diventato un ufficio, siamo spacciati.

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La title track, altro cazzotto in pancia. Sulla scia di Laurie Anderson / Philip Glass, una marea di cori finti, secchi al limite della paranoia, che” ti dico fermate” alla vapor wave. Suoni di synth che bucano la pelle del pezzo, malattie sonore tipo Florian Hecker buttate a caso in mezzo. Per uno slow che recita "sono un progetto, sono un calcolo, chiudi gli occhi, ti innamorerai, ma non ho capito tu chi sei” pare la sceneggiatura di Her di Spike Jonze. Gente che si innamora di manichini: "Viaggi organizzati," certo, nessun tipo di rischio. ”No surprises,” per citare i Radiohead. A dire la verità trattasi anche di “viaggi” veri e propri a giudicare dal delirio del testo. Controllo sociale su tutta la linea, regna un pessimismo cosmico. Grande lavoro di chitarra, che sembra processata con un Boss Overtone di oggi—che invece non era ancora in circolazione, ovviamente.

E qui parte il pezzo da novanta, ovvero “Washington”. Brano che definire uno dei migliori della carriera di Dalla è poco: scritto a 4 mani con Tullio Ferro (sì, quello di “Vita spericolata,” avete capito bene), è un pezzo di finta dance giapponese che narra di uno scenario alla Blade Runner, in cui situazioni di spionaggio spaziale si intrecciano con visioni postatomiche di un mondo raso al suolo: "non c’è rimasto nessuno, siamo soli io e te”. Ma soprattutto “ero una macchina negra / adesso mi chiamano Zebra / da quando mi han messo le braccia di un bianco di nome John”. Mutazioni possibili quindi, umanoidi che si montano si smontano e si sparano fra loro in un gorgo di alienazione mentale, dove il viaggio non ha più significato e porta direttamente al nulla, al buco nero. Dalla pronuncia un “ciao Pippo” a caso verso la fine del pezzo, completamente incomprensibile (per quanto lui a Videomusic, interrogato a proposito, cercasse di spiegare il collegamento al Pippo della Disney come simbolo di assoluta libertà. Forse bluffava). Il video promozionale tra l’altro è una mina, anticipava tutta la moda glo-fi possibile, utilizzando gli effetti visivi nel modo volutamente più sgradevole e lo-fi che si potesse fare. Davvero un must, per un picco che altri al posto suo possono solo sognarsi.

Il disco si chiude con una devastante "Tu come eri", narrazione spietata di una chiusura esistenziale patologica e futuribile, gente semi-robotica che si stacca il naso, paure indotte dai media e malattia mentale allo stato solido. “Non è bello vedere una donna, o quello che rimane di una donna, che non sa smettere di bere…” oppure “E invece i miei occhi li ha presi il tuo computer, il tuo cuore, il mio televisore, ecco perché se trovo l'elenco devo chiamare un dottore, un dottore con un pollo tra le mani, anzi un dentista, che mi dica se ci vado domani e se ritrovo la vista”. Insomma, una previsione neanche troppo lontana dei nostri pericolanti vissuti attuali, con un arrangiamento minimale, mortifero e nello stesso tempo finto entusiasta, che infilza la base usando spilloni di elettronica catatonica tipo muzak per nosocomi: è musica di oggi. Per quanto possa sembrare nostalgico di un'era di vera umanità, il brano è in realtà una descrizione cruda e rassegnata di uno stato irreversibile che non ha più possibilità di riscatto. I tanto rimpianti rapporti umani del passato, in fondo, non sono mai esistiti: sono solo un mito a cui aggrapparsi per andare avanti. Al confronto "E non andar più via" fa ridere.

Viaggi Organizzati è quindi un disco ostico, sia per come è arrangiato (praticamente un bignami di elettronica sperimentale proto bip-hop infilato nella musica italiana, esperimento più unico che raro) sia per le tematiche, in cui Dalla non accetta compromessi verbali o di bon ton. Viaggia sì organizzato, nei suoni e nel concept, ma diretto come un camionista senza soste all’Autogrill, esprimendo senza censure la sua disillusione di uomo che ne ha viste tante, è stanco e si è rotto i coglioni: Viaggi Organizzati potrebbe essere paragonato all’ultimo film di Elio Petri, ovvero il misconosciuto Le Buone Notizie, quanto a disincanto, cupezza e pessimismo. L’appeal commerciale è sicuramente zero, il magistrale lavoro in studio di Malavasi prevede orecchie attente (infatti l’ascolto in cuffia riesce a sottolineare tutti i particolari e i colpi di scena sonori). Il pubblico è sconcertato, non sa che pensare, vorrebbe un’altra “Caro amico ti scrivo,” e la critica non capisce un cazzo, perdendo l’occasione di tenere a battesimo una sicura rivoluzione nella musica pop italiana. Tutti spiazziati quindi, e anche Dalla alla fine pensa sia meglio archiviare l’esperimento e rifarsi al pop plasticoso d’oltreoceano per andare sul sicuro: Bugie, che seguirà poco dopo, prende questa strada.

Più tardi, con la celeberrima "Caruso," Dalla si rifarà invece alla tradizione italiana: tutte cose che al pubblico faranno sicuramente piacere, ma alla musica un po’ meno. Forse il nostro eroe prevedeva che in futuro sarebbe stato violentemente additato per le sue arditezze innovative, ma di certo pensava a una canzone di Viaggi Organizzati, non ad altre di un periodo storico oramai mangiato e digerito. A X Factor abbiate il coraggio di far cantare a qualche pupazzo in gara una di queste canzoni “non politicizzate”: vedrete se qualcuno non vi fa chiudere il programma immediatamente. A questo punto, modificando l’esclamazione di “Washington”, ci sta bene un bel “ciao pippe”.

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