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Musica

Florian Hecker: contro il senso

Il lavoro di Florian Hecker è sempre stato assai complesso da trattare, eppure non significa niente! Per (non) capirci qualcosa lo abbiamo intervistato prima che arrivi a Milano

Una cosa a cui non avevo mai fatto caso di Florian Hecker è che di sue interviste online se ne trovano davvero poche. In effetti ha perfettamente senso: la maggior parte del lavoro che ha svolto negli ultimi vent’anni ha a che fare con una ricerca precisa di un suono che diventi un’esperienza autonoma. Per Florian, la musica elettronica consiste soprattutto nell’esplorazione di un’area grigia in cui al suono non si può più identificare tramite i normali canoni linguistici. Riformare il modo in cui i singoli suoni vengono prodotti e metterli in relazione tra loro in maniera libera e nuova, che si disfi allo stesso tempo delle strutture musicali convenzionali e delle progressioni emotive o concettuali che riconosciamo nella musica più sperimentale, in modo che l’ascolto diventi un atto immersivo impossibile da verbalizzare.

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La sua principale arma è lo studio della psicoacustica: analizzando le relazioni scientifiche tra l’ascolto e le condizioni psichiche che questo è in grado di generare, Hecker mette in moto un’impalcatura di stimoli che non hanno niente a che fare con la comunicazione, ma nemmeno con quella che siamo abituati a catalogare come “espressività”. Un percorso che recentemente lo ha portato a generare quelle che, in collaborazione con il filosofo iraniano Reza Negarestani, ha battezzato “Chimere” organismi ibridi impossibili, assemblati e non creati, suoni progettati per mettersi sula soglia della distinzione tra voce e non voce, il limite di quello che familiarmente si riconduce a un’organismo vivente. Gli album Chimerization, del 2013 e Articulação, di quest’anno, seguono questo sentiero disorientante decomponendo, straniando voci umane per aumentarne le possibilità espressive.

Non è facile, quindi, confrontarsi col suo lavoro, analizzare qualcosa che per sua natura non ha necessità di essere analizzato e conversare intorno a un processo che non si svolge nei territori dell’esperienza cosciente. Si finisce molto spesso a riconoscerlo come un processo distruttivo, il che, alla fine, è una mistificazione. Nonostante le difficoltà e la coscienza di essere solo parzialmente all’altezza di confrontarsi col suo lavoro, ho provato a conversare con Florian per approfondire alcuni aspetti del suo lavoro, ed è proprio lui a mettere il punto su questo elemento, preferendo parlare di crudeltà che di violenza, seguendo la definizione data da Antonin Artaud: un’idea di espressività radicale e urgente, che metta una fratture negli strumenti con cui abbiamo imparato a interpretare il reale e organizzare l’esperienza quotidiana.

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“Il mio interesse per la psicoacustica risale al 2004, un periodo in cui vivevo a Los Angeles e ho letto un libro di Brian Moore, Introduction To The Psychology Of Hearing, a quel tempo quello che facevo consisteva principalmente nell’uso di suoni di sintesi diretta, oggetti sonori puri, creati tramite software e algoritmi, e non trattati in alcun modo, non filtrati da effetti secondari. In quel libro ho scoperto molti procedimenti elementari molto efficaci in termini di psicoacustica e hanno a che fare con piccole discrepanze di tempo tra un canale e l’altro, oppure certi intervalli di pitch tra i suoni che avrei potuto usare senza perdere intensità, anzi guadagnandone.” racconta lui stesso. Il gioco sulla differenza tra voce e non-voce è una diretta conseguenza di questo approccio, sollevando da una parte riflessioni su quali siano gli aspetti di un discorso che catturano l’attenzione e informano le reazioni emotive o intellettuali, dall’altra creando un’esperienza di ascolto liberatoria. Una liberazione “non solo psicologica, uno spazio di confine che offra varie possibilità: il suono generato in maniera pura al computer si può facilmente portare in un campo molto difficile da verbalizzare, il cui carattere esperenziale viene messo in primo piano e riconfigurato”. Lo straniamento percettivo diventa quindi un modo di sbriciolare le idee consolidate di natura e cultura.

Nel “libretto”, il testo preparato da Negarestani per Articulação e recitato nel disco—tra gli altri— dalla storica sperimentatrice vocale Joan La Barbara, i due “poli opposti” vengono infatti descritti come obelischi, dei centri di potere nati da costruzioni parzialmente illusiorie: “Reza ha lavorato alle idee contenute libretto, che hanno a che fare con il contesto in cui abbiamo originalmente prodotto quel lavoro in forma di performance, a Lisbona, in due parti molto diverse della città: Il Lumiar, un quartiere molto moderno e nuovo, vicino all’aeroporto e parzialmente adibito a case popolari, e il giardino botanico, che è in centro ed è un giardino davvero unico, influenzato dal colonialismo e dallo sfruttamento del Brasile, dell’Africa e di parte dell’Asia che il Portogallo ha portato avanti per parte della sua storia, per cui ha una vegetazione molto densa, intensa, quasi tropicale.” Lo stesso conflitto interno a questi due spazi solo apparentemente differenti, si riflette nel suono del disco, nel costante sovrapporsi tra i concetti espressi dalle voci, la loro natura timbrica e la decostruzione digitale fatta su quest’ultima.

Ma il suo uso della psicoacustica sfugge anche al rischio di finire per manipolare l’ascoltatore in maniera molto forte, “Nel momento in cui una composizione esce dallo spazio scientifico e asettico del ‘laboratorio’ per venire ascoltata ed entrare in uno spazio ‘sporco’ assume dei caratteri diversi, l’effetto che certe frequenze o certi tempi hanno cambia molto a seconda dello spazio, del volume e in generale delle condizioni in cui vengono ascoltati. In generale, faccio un uso degli strumenti psicoacustici radicalmente diverso da quello per cui sono stati progettati, ma in generale credo che aiuti a sviluppare una relazione diversa con l’ascoltatore. In realtà mi aiuta di più a elaborare una relazione più profonda con me stesso”. Una gesto, il suo, di opposizione all’idea di musica come linguaggio, ma anche dell’idea di “linguaggio universale”: “Xenakis diceva che la musica non è un linguaggio, io sinceramente non vedo nemmeno questi ultimi lavori che ho fatto e che contengono per la prima volta del testo come legati a un qualche tipo di linguaggio, per me sono pezzi di testo, non sono nemmeno parti vocali.” spiega, aggiungendo un geniale paradosso che in realtà rende tutto il suo discorso molto più vero “È una differenza che non so spiegare a parole ma che sono certo esista”. L’obbiettivo fondamentale è quello di fare a meno di un soggetto, di un senso: “C’è un bellissimo libro del compositore tedesco-americano Herbert Brün intitolato When Music Resists Meaning che lo spiega bene, ecco, credo che la mia musica non debba parlare di niente” Questo non vuol dire però evitare di incidere sul reale: “Queste astrazioni possono avere un effetto sulla realtà in un senso verticale e profondo, niente di orizzontale e ampio”. Un atto di resistenza profondo perpetrato tramite gesti di ricerca e rimozione, qualcosa, in fondo, di così vitale e spirituale (ma senza romanticismi preconfezionati) che la sua stessa energia non-manipolatoria e non-informativa si trasforma così in un gesto più che intenso.

Se volete toccare con mano di cosa si tratta, potete andare a sentire Florian live a Milano il 31 ottobre, al Circolo Filologico Milanese all’interno della rassegna Savana Spectral di S/V/N

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