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Musica

In fondo, ci conosciamo: Ariel Kalma

Il disco di Ariel Kalma e Robert Lowe per RVNG ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo deciso dii intervistarli tutti e due. Ecco la prima parte, col maestro Ariel

Immaginate di trovarvi di fronte alla quintessenza del fricchettone girovago: del trovatore hippie che dalla fine degli anni sessanta a oggi ha esplorato il mondo fermandosi in comuni e approdi di fortuna, imparando tutto quello che c’era da imparare per costruirsi una ricchezza spirituale e culturale ampia, per quanto instrdata su una linea di ricerca precisa. Ecco, questo è Ariel Kalma, uno che incarna talmente alla perfezione questa forma di urgenza di vivere che non ha mai lasciato che scadesse nella parodia di sé stessa: è anzi rimasto curioso e spontaneo come sempre, come in ogni tappa della sua assurda vita che, dalla natia Parigi, lo ha portato ora a ritirarsi nella costa est dell’Australia. Nel frattempo aveva davvero fatto di tutto: da diventare un originalissimo polistrumentista a lavorare come assistente di studio allo storico GRM, da fare il turnista per Salvatore Adamo, a fare parte di vari gruppi di ricerca collettiva sugli stati di coscienza umana a, appunto, girare. Soprattutto, però, negli anni Ariel ha prodotto album su album di una musica imparentata col minimalismo, con decine di tradizioni diverse, con i primi esperimenti elettronici e il free jazz. Praticamente una somma di tutto quanto c’era di figo negli anni Settanta, tra la musica che andava alla ricerca di quell’amore trascendentale di cui parlavano i coniugi Coltrane come Terry Riley.

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È assai probabile che questa ricerca sia anche quella che alimenta il percorso di Robert Aiki Aubrey Lowe, che finora abbiamo conosciuto come Lichens e come tuttofare degli Om. Non è un nome a caso: se seguite Noisey Italia sapete che da un po’ di settimane stiamo in fissa col promo di We Know Each Other Somehow, il disco che proprio Kalma e Lowe hanno realizzato insieme, su commisione di Matt Werth, boss della splendida label RVNG (che aveva già pubblicato la raccolta dei primi lavori di Ariel: An Evolutionary Music — Original Recordings '72-'79) e ideatore della serie FRKWYS, di cui questo disco fa parte. Trattasi di una serie di collaborazioni, curate da Matt stesso, tra musicisti che, di volta in volta, possono avere un’estrazione simile ma essere distantissimi in termini di spazio e tempo… O viceversa! L’importante è creare connessioni nuove, e godere delle forme più sincere della creatività.

Grazie a Matt e a questa serie abbiamo potuto, ad esempio, ascoltare album stupendi come i due realizzati da Sun Araw coi Congos, e, appunto, recuperare un artista “perduto” come Ariel Kalma, che aveva da un po’ abbandonato la produzione di nuova musica dopo essersi trovato molto scomodo nel claderone new age, e per il quale questa resurrezione potrebbe significare una seconda giovinezza. Una roba simile a quella che sta vivendo Suzanne Ciani coi Neotantrik, per capirci. S

arebbe stupendo, intanto il disco è talmente bello che abbiamo deciso di dedicare un'interviste approfondita ad Ariel. L’ho chiamato su Skype mentre da lui erano le nove di mattina e per me le undici di sera. Mi sono trovato di fronte un uomo dallo spirito energico e divertente, incontenibile, uno che nonostante l’anzianità, ovviamente, ci crede quanto e più di prima.

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Per prima cosa vorrei chiederti: ho notato che gran parte dei titoli dei tuoi lavori, dal tuo primo disco Yo Yo Homme Noveau alla raccolta uscita per RVNG lo scorso anno, hanno a che fare con l’idea di evoluzione e il concetto di rinnovamento umano. Da dove viene?
È una buona domanda… Nessuno me l’aveva ancora mai fatta, a dire il vero. Sono da sempre interessato all’evoluzione, allo sviluppo del potenziale umano. Negli anni Settanta ho iniziato a fare parte di gruppi e comunità che facevano ricerca applicata sulle potenzialità evolutive dell’uomo. Avevo un grosso bagaglio che veniva dalla mia famiglia, dal mio passato, dall’educazione religiosa che avevo avuto, e volevo liberarmene. Per cui ho partecipato a molti gruppi di ricerca e meditazione, per poi entrare anche in gruppi tantrici. Ho sempre cercato di diventare un “me” migliore, perché tutto era partito dalla mia esperienza personale, mentre successivamente iniziò a interessarmi fare parte di un movimento per un “noi” migliore, inteso come razza umana.

E qual è il ruolo della musica in questo?
In ognuno di questi gruppi suonavo musica per costruire l’ambiente e l’atmosfera, o per dare delle indicazioni precise. Ti faccio degli esempi: per un periodo sono stato in un gruppo che aveva un nome pomposo ma era molto ok: Cosmic Consciousness. Ci si chiedeva come espandere la nostra coscienza, non solo come parte della razza umana, ma per trovare unità con l’universo. In quel senso creavamo un’atmosfera che ci permettesse di entrare in contatto con dimensioni superiori tramite la meditazione. Suona molto pretenzioso, detto così, ma ti garantisco che erano davvero esperienze incredibili. La musica ne era una parte importante, come anche i giochi di luce, i laser. Era quasi tutto suonato coi synth. C’è una foto nell’album in cui io sono in piedi col mio sax in mano, vestito di bianco: è di quando stavo in quel gruppo. Tenevamo serate molto lunghe. È da lì che ho cominciato a chiamare la mia musica, specialmente quella dei primi anni Settanta “space music”, perché è fatta per farti viaggiare nel tempo e nello spazio. Associando musica e meditazione si può arrivare molto lontano. Con questo non intendo solo per degli ascoltatori, ma funzionava anche per me. Durante certe registrazioni io finivo davvero altrove, a volte crollavo sulla tastiera mentre suonavo, hehehehehe.

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Quanto è importante “sapere suonare”? Nel senso: è più importante lasciarsi guidare dall’istinto puro? La disciplina di uno strumento è una scorciatoia o un limite?
Prima di tutto, io vorrei umilmente dire che tutti i miei studi sono stati istintivi, ho scelto di non fare studi classici, tranne nei primi anni col sassofono. Quelli sono stati le fondamenta, ma non volevo limitarmi a una sola direzione e a un solo sistema. Non ho voluto imparare a leggere scrivere la musica perché pensavo mi avrebbe rinchiuso tra dei muri. mentre io volevo muovermi tra le note. Ora, molto tempo dopo, mi spiace non avere imparato almeno un po’ a leggere la musica, perché spesso mi viene chiesto. Ma ho un buon orecchio. Certo, non è la stessa cosa.

Hai comunque impiegato molto tempo nello studio degli strumenti, per quanto senza un metodo?
Certo, certo. Per esempio, con l e tastiere ho sviluppato una mia tecnica, che segue solo la mia idea di suono e ritmo. All’inizio fu molto difficile, imparare la respirazione circolare, ad esempio, fu la cosa più difficile.

Sì, ho letto la storia dell’incantatore di serpenti.
Hahaha sì, è una storia vera, eccetto per un particolare: non mi diede un bicchiere di brandy ma un grosso chilum. Ero un po’ timido, non mi andava di scriverlo sul sito.

Hahahaha, ok…
Era un Sadhu, è così che va con loro, hehehe.

Be’, gli è vietato bere alcool, no?
Sì, ma in teoria a noi sarebbe vietato fumare hashish, per cui…

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Ok, quindi potresti spiegarmi il tuo approccio al suono e al ritmo?
È una domanda molto interessante. Il mio passato e le mie esperienze di vita sono finite tutte in un sistema per cui ritmo, suono, spazio e tempo hanno una interconnessione [incrocia le dita delle due mani]. Faccio questo gesto perché a un certo punto finiscono per avere senso tutte insieme. Parto da un dal caos [agita le mani]: melodie, suoni, ritmi… Che a un certo punto trovano un punto di connessione [incrocia di nuovo le dita] e iniziano a evolversi insieme [muove le mani incrociate come fossero ali che sbattono]. Ora sto facendo molte prove per i concerti che farò con Robert negli Stati Uniti, e quando faccio pratica tengo bene a mente le mie teorie, cerco di costruire un suono unico che si muove nello spazio. È qualcosa che, ad esempio, Terry Riley nelle sue prime cose era bravissimo a creare. Sono pochi quelli che ci sono riusciti davvero. Posso partire creando un suono qualsiasi con la tastiera, suonarlo per un po’, seguirlo ed “entrarci” dentro. Dopo un po’ succederà sicuramente “qualcosa” di molto difficile da seguire, inizierò a sentire dei pattern, delle frequenze particolari. Seguendole e rimescolandole si può creare qualcosa. È molto semplice, in realtà, chiunque abbia un minimo di pazienza può seguire questo metodo. Non molti ce l’hanno.

Immagino la pazienza sia davvero la componente chiave. La “disciplina” pratica di cui parlavamo prima, deriva da lì, no? Che si segua un metodo tradizionale o meno, dalla capacità introspettiva di relazionarsi con un qualsiasi strumento che faccia da canale per la propria creatività.
Esatto, lo hai spiegato in maniera eccellente. Ha a che fare con la meditazione. Anzi, chiamiamola “concentrazione”, perché la parola “meditazione” spaventa molta gente, ma è molto semplice: ci vuole pazienza. Stando in silenzio per molto tempo si cade in uno stato che genera molte idee. L’intuizione comincia tutta da lì, ma per raggiungerla serve la quiete.

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Ti risulta più difficile oggi trovarti in una condizione di quiete?
Certo, è più difficile. Siamo delle antenne, riceviamo tantissima informazione. Vivere in campagna può certamente rendere le cose più semplici, ma in ambienti più urbani e moderni, con la wi-fi e tutto il resto, è più difficile ma ancora possibile. È un muscolo: se lo tieni allenato lo potrai sempre usare. Guarda cosa succede in India: è un tale caos, pieno di gente, di rumore, di casino, eppure trovi gente negli angoli totalmente persa nel loro mondo spirituale. Ad ogni modo, tornando alla musica: se, ad esempio, seguo un pattern ritmico di qualsiasi tipo suonando le tastiere, qualcosa che va in questa direzione [muove le dita orizzontalmente], a un tratto inizierò a sentire qualcosa all’interno della musica che mi indicherà la via da seguire [inizia a muovere una delle due mani verticalmente], il che creerà una dimensione ulteriore. In questo senso, gli strumenti che ci vengono offerti dalla tecnologia sono incredibili, con gli effetti si possono trovare molte soluzioni bellissime. Ecco e tu quanto ti sei tenuto aggiornato in termini di strumentazione e di elettronica?
Anni fa seguivo moto da vicino l’evoluzione della tecnologia, anzi diciamo che ho anche sviluppato delle tecnologie nuove a mia volta. Per esempio, mi ero progettato da solo un modo di usare due registratori a bobina in modo tale che si creasse un eco proporzionale alla distanza tra i due. Non so chi l’abbia davvero fatto per primo, se Eno e Fripp o io. A dire il vero non mi interessa, perché credo nella sincronicità delle idee: quando si ha un’idea rivoluzionaria questa molto probabilmente apparirà contemporaneamente da un’altra parte. Poi, per dire, quando apparve il primo controller pitch-to-voltage in Inghilterra, io andai a procurarmelo, perché in Francia era introvabile. Usavo anche moltissimo il VCS3, che era molto costoso e, sulle prime, fu molto complesso. Poi ho avuto un momento in cui mi sono distanziato completamente dalla tecnologia, più o meno quando uscì la Yamaha DX7.

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Sì, be’, non è una cosa rara, quando iniziarono a uscire quel tipo di synth molta gente disse: “ok, se è così che suonano e sono fatti i sintetizzatori di oggi, io me ne fotto della musica elettronica”.
Esattamente. Il che forse era un errore, perché la DX7 si poteva comunque programmare in modi interessanti. Comunque, il mondo digitale per me era un po’ un territorio straniero, e ho iniziato a rimanere indietro. Ho cominciato a riaggiornarmi negli anni Duemila. Ne avevo bisogno per me stesso e per la musica che volevo fare uscire sulla label che avevo creato, Musique Mosaique. Però c’era un grosso divario e non mi sentivo molto a mio agio. Ora finalmente mi sto riaggiornando davvero, ho progettato un set mobile per i live in cui uso una tastiera Korg Triton e Ableton Live su un laptop. Sono in una fase in cui sto imparando molto.

Tornando al rapporto tra quiete e confusione: Nel documentario uscito con la raccolta dici che la musica è la cosa più vicina al silenzio. Questo nega l’esistenza del silenzio ma anche della musica, no? È come se invitassi a trovare pattern sonori in tutto il percepito, superando i limite del sé. L’ho capita bene?
Sì, l’hai anche detta in un modo bello. Fantastico! Hahaha! Guarda, te ne voglio dare una dimostrazione: ora parlerò, parlerò, catturerò la tua attenzione e poi…. [un minuto di silenzio, in cui sono rimasto tra il basito e il divertito, facendo tremendamente caso a ogni singolo minimo suono che mi capitava di sentire]. Visto? Ho creato qualcosa a partire dal nulla, perché ci ho inserito una parte di silenzio. Per cui, suonando si può fare la stessa cosa: catturare l’immaginazione e la concentrazione di chi ascolta e poi fermarsi, a quel punto inizia a succedere qualcosa dentro l’ascoltatore. L’eco, ad esempio, fa effetto su una funzione del cervello: quando ascoltiamo un suono, è come se lo ripetessimo tramite i neuroni specchio. Quando sentiamo un eco, quindi, il cervello ripete ogni ripetizione, archivia l’eco come fossero suoni diversi, ma in realtà è lo stesso suono, e questo crea una sorta di dimensione olografica, con la quale si può giocare. Per questo adoro usare l’eco: porta il mio cervello a seguire un pattern e a inserire variazioni all’interno di quel pattern. Se lo sai usare bene, riesci a proiettare verso l’ascoltatore qualcosa di multidimensionale, per così dire. Non so se ha senso…

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Credo di sì. Oltre a questo, comunque, ci sono sempre stati molti elementi nella tua musica che riconducono a stili tradizionali di varie culture. Non hai mai comunque cercato di usarli in senso identitario, anzi, hai provato a studiarli e mescolarli per trovare gli elementi comuni. Come mai hai sentito questa esigenza?
Prima di ogni cosa esiste la separazione: individui, culture, nazioni… Delle cellule che, se interagiscono, sono in grado di costituire qualcosa di più grande. Per me, se gli individui possono unirsi in qualcosa di più grande di loro, anche i paesi e le culture possono farlo. Credo che a quel punto non avremmo bisogno di utilizzare le differenze per definirci, perché faremmo parte di qualcosa di più vasto, chiamato, non so… Gaia, magari! Per limitarci alla musica, credo che le tradizioni culturali siano molto importanti. Ad esempio, spesso ascolto la musica tradizionale bulgara, o quella irlandese, e in entrambe trovo che le scale e i ritmi che la costituiscono che sono molto complesse, siano uniche e molto interessanti. La scelta di strumenti e soluzioni musicali, anche. Non ho idea di come potrebbe suonare un misto di musica irlandese e bulgara… Ad ogni modo, il punto ogni tipo di musica possiede una bellezza all’interno del suo sistema. Da piccolo ascoltavo cori bulgari e mi facevano piangere, erano straordinari… Le variazioni, le sottigliezze vocali, le poliritmie… Sono fantastiche! Io credo che se potessimo fondere tutte le culture in una metacultura ed essere tutti dei bastardi, nessuno sarebbe più un bastardo davvero.

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È la stessa cosa del discorso di prima su musica e silenzio. Comunque, credo sia questo il motivo per cui il tuo lavoro è stato paragonato a quello di Don Cherry, che aveva un approccio simile e coinvolgeva nella sua band musicisti da tutto il mondo.
Certo. Conosco bene il suo lavoro e ho anche avuto modo di incontrarlo, una volta. Lui ha approfondito di più: io mi limito a fare questa cosa individualmente, mentre lui aveva costruito una vera comunità di musicisti e soprattutto lo aveva fatto a New York, in cui all’epoca c’erano molte tensioni razziali. Anche lui ha girato molto il mondo, ma era più legato all’espressività jazz. Per me legarmi a quello sarebbe stato un limite, come ti dicevo. Sicuramente non lo era per lui. Credo che ogni stile e tradizione sia un centro gravitazionale, come un buco nero, a cui è bene avvicinarsi per un po’, ma non riesco a starci troppo. Bisogna esplorarli tutti, tutti i pianeti. Per questo quando mi chiedono che musica faccio rispondo, appunto, “space music”, hahaha.

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Be’, ora credo che tanti siano in grado di farsi un’idea sentendo un termine del genere, immagino che quarant’anni fa non fosse così.
No, figurati, quando ho fatto il mio primo disco andavo a proporlo di distributore in distributore, di negozio in negozio, e ovviamente mi rispondevano “ma non sappiamo in che scaffale metterlo, dove lo mettiamo” e io “non lo so, non ce l’avete lo scaffale della space music?” Hahahahahaha.

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Hahahah fantastico. Senti, ma la tua famiglia di che origini è?
La mia famiglia era francese, ma ho un misto di radici spagnole, polacche e russe. Di sangue ho già uno strano mix, per cui è molto più facile per me mescolare diverse culture.

So che hai iniziato a comporre musica tua dopo essere stato in varie band e avere fatto il turnista per vari cantanti. C’è stato un momento particolarmente importante che negli anni ti ha influenzato più degli altri?
C’è un episodio in particolare successo nei primi anni settanta che ti voglio raccontare. Ha a che fare con il principio con cui sono costruite le antenne paraboliche: se metti la luce al centro della parabola, la rifletterà in raggi dritti e paralleli, mentre quando riceve informazione, questa si raccoglie nel centro. Sonicamente, è il principio secondo cui sono costruite le chiese, i teatri greci e anche molte sale da concertoo. Ecco, dei miei amici mi avevano proposto di suonare in un’abbazia molto famosa nel sud della Francia, Senanque. Era una splendida notte e, quando i miei amici se ne andarono, io dissi “no, voglio suonare ancora”, erano tipo le due e io volevo sperimentare con la proiezione parabolica del suono. Le abbazie nel sud della Francia sono tutte orientate in una certa maniera particolare, ma a me interessava sentire che effetto si poteva creare. Mi misi a suonare l’harmonium e a cantare spostandomi per l’abbazia, facendo caso alle risonanze. Tutta l’abbazia risuonava, e trovai a quale frequenza. Fu davvero come salire la scala per il paradiso. Un’esperienza mistica autentica. [si fa di colpo meditabondo e silenzioso per molti secondi]. Anche solo raccontarlo è bellissimo…

OK, veniamo ora al disco con Robert: come lo avete realizzato, considerato che vivete in parti opposte del mondo. E com’è nato il progetto?
Ah, grazie al genio di Matt Werth e alla serie di dischi che ha creato in cui fa collaborare musicisti di diverse generazioni.

Sì, ha fatto delle uscite incredibili.
Fantastiche davvero. Mi chiamò e mi disse “Ariel, credo di avere trovato qualcuno con cui potresti andare d’accordo musicalmente, un giovane compositore di New York, ti interessa questa possibilità?” Io risposi “sì, ma certo!”. Feci una chiacchierata via Skype con Robert, che conosceva molto bene il mio lavoro, il che mi sorprese molto, e mi illustrò anche il suo modo di suonare e la sua strumentazione, che mi fece capire come mai Matt pensasse che avevamo qualcosa in comune. Poi andai a trovare mio figlio negli Stati Uniti e ne approfittai per incontrare Robert, che volò da NY a San Francisco per vedermi. Aveva portato con sé il suo synth modulare, che mi ricordò molto quelli che usavo ai tempi e sapevo ci avrebbe dato un numero infinito di possibilità. Abbiamo improvvisato, e una parte di quella prima jam è finita nell’album. Abbiamo quindi deciso di continuare a lavorare insieme. Al che Matt ha organizzato il viaggio di Rob in Australia per registrare il disco e le registrazioni del documentario. È stato fantastico perché al tempo mi ero convinto che nel futuro avrei fatto solo lavoro di archivio delle mie produzioni passate, invece ora sto per ricominciare suonare live, cosa che non faccio da più di trent’anni.

Vi siete trovati vicini anche da un punto di vista spirituale?
Assolutamente, più lo conosco, più trovo una vicinanza. Siamo molto diversi ma puntiamo nella stessa direzione. Con lui posso stare in silenzio. Se riesco a stare in silenzio con qualcuno vuol dire che insieme posso farci qualsiasi cosa. Abbiamo trovato dei punti in comune. Credo che andrebbe fatto con tutti, invece che concentrarsi sulle divisioni. Qual è il nsotro punto in comune? Siamo tutti umani. Certo, non è sufficiente, ma è un inizio, no? Ci piace a tutti la pizza! Hahahaha.

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We Know Each Other Somehow esce il 14 Aprile. Preordinatelo, fidatevi, è bellissimo.