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Musica

La folgorazione acid jazz di Massimo Ranieri

In questo periodo di rinascita del sound partenopeo, Italian Folgorati esamina uno degli album più strani usciti da Napoli: 'Meditazione' di Massimo Ranieri.

“Sono curioso. La curiosità è il mio motto, questo mi da modo di stare sempre a casa, ma mai in pantofole. La curiosità è una cosa meravigliosa”.
Massimo Ranieri a Dire Giovani, 2016

Da qualche tempo una bella fetta d'Italia sembra affascinata da un fenomeno innegabile: il ritorno del suono napoletano. Che si parli di Liberato o dei Nu Guinea, la bandiera partenopea in musica, anche a costo di rivedere e correggere il passato, è tornata a sventolare. Ma a parte i recenti recuperi ai danni (o a favore, a seconda dei punti di vista) dei Napoli Centrale o del primo Pino Daniele, a parte i testi della tradizione popolare napoletana infilati in un contesto illuminato dalla luce fredda dei telefonini, c’era già qualcuno che nei lontani anni Settanta aveva capito che c’era bisogno di fare un miscuglio fra nuovo e antico nella maniera più diretta possibile, più audace possibile, ma allo stesso tempo più popolare che mai. Il suo nome è Massimo Ranieri.

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Vedo già molti di voi strabuzzare gli occhi. La cosa non mi sorprende. Essendo uomo di teatro, attore, presentatore, cantante, insomma, un personaggio “per tutti i gusti”, Ranieri non ha mai goduto della giusta considerazione o di certi riconoscimenti anche tardivi rivolti a tanti suoi contemporanei, proprio perché diretto a un pubblico generalista. Sì ok, ha sempre ottenuto grande rispetto per la sua street credibility, per il culo che si è fatto nascendo in un contesto proletario, tanti premi formali, ma dal punto di vista artistico è sempre stato ghettizzato nell’area del “mestiere”. Vero è che molte sue prese di posizione verso personaggi come Pino Daniele (che all’inizio, ammette nel documentario Il tempo resterà, non gli piaceva per niente e che rivalutò solo secoli più tardi) non hanno aiutato Massimo a bucare troppo il muro dei consensi giovanili o dell’area “alternativa”. Nonostante sia un tuttofare, un vero operaio dello spettacolo nel senso più nobile del termine, è stato sempre visto come uno della “vecchia scuola”, un rappresentante di una Napoli che si tiene stretta le sue tradizioni di musica leggera senza fare passi avanti. Bravo, sì, molto bravo; ma tanti saluti al resto. In realtà le cose non stanno proprio così: non solo, infatti, il nostro nasce musicalmente col rock (il suo primo pseudonimo era proprio Gianni Rock, quando a solo tredici anni si esibiva all’Academy di Brooklyn), ma nel 1976 il nostro pubblicò persino un album che rasenta il weird da mascella che cade. Stiamo parlando di Meditazione.

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Prima di tutto la copertina: sulla cover di Meditazione il nostro Ranieri sembra avvolto da una nube porpora totalmente kosmische musik. Il gatefold lo vede disegnato a schizzi di carboncino in un eterno porpora che ricorda quadri dell’avanguardia del periodo (opera di Jacqueline Schweitzer, cantante pop e moglie di Totò Savio degli Squallor). Poi vai a leggere in copertina e si nota un nome che mai ti aspetteresti su un disco di Ranieri: Eumir Deodato.

Per chi non lo conoscesse, Deodato è uno dei padrini dell’acid jazz e nei Settanta faceva faville. Brasiliano di origine, divenne famoso per la sua versione di Also Sprach Zarathustra di Strauss in versione proto-acid jazz (all’epoca era ancora considerato jazz rock, ma le sue peculiarità stilistiche erano ben altre e più accessibili) ispirandosi all’uso che ne fece Kubrick in 2001: Odissea nello Spazio. Successivamente, nel 1979, sarà inserita nella colonna sonora di Oltre il giardino con Peter Sellers, diventando a tutti gli effetti un brano evergreen. Oltre a questo, il nostro ha fatto dei dischi di Cristo (ricordiamo, che so, Whirlwinds) ed è stato anche artefice di produzioni ultramoderne: una per tutte gli arrangiamenti per la Björk di Homogenic, ma ancora prima le produzioni di gente tipo i Kool and the Gang. Insomma, il suo nome era ed è sempre stato una garanzia, e soprattutto nell’anno di Meditazione Deodato era in cima alle classifiche e stava cominciando a macchiare il suo caffè musicale con il latte fresco della disco. Ma che c’entra con Ranieri? A primo acchitto un’emerita cippa, sono lontani anni luce in tutto e per tutto. E allora perché trovarli uno accanto all’altro?

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Beh, in quel periodo Ranieri attraversa una vera crisi artistica. Pareva che avesse raggiunto qualsiasi risultato nel cinema e nella musica: David di Donatello, Canzonissima, Sanremo. È un mietitore di successi che alla lunga gli stanno stretti. A questo punto deve cercare nuovi stimoli: li trova parzialmente nel teatro e nelle rivisitazioni delle canzoni napoletane, ma forse è il momento di fare uno strappo alla regola importante avvicinandosi a un genere più sperimentale e quindi ad una nuova fascia di ascoltatori. Ma come fare per non perdere il suo pubblico medio, quello che alla fine preferisce Pulcinella e mandolini alla chitarra rock? Beh, basta seguire l’esempio di Deodato: riarrangiare brani di musica classica in salsa acid jazz/cosmica e rivestirli con testi in italiano. Sfida chiunque a dire che fanno schifo, chi lo farà offenderà la storia.

Il compito di arrangiare e di dirigere questo guanto in faccia è proprio affidato a Deodato stesso, come potevasi immaginare. L’operazione è molto semplice e d’altronde è un espediente tipico del progressive, basti pensare agli ELP, ma, senza scomodarsi troppo, anche agli italiani Capisicum Red e affini. Sulla carta quindi è un album che unisce gusti “di cassetta” (e una tradizione che addirittura va oltre quella napoletana per qualcosa di universalmente accettato) a orecchie più attente a sonorità meno comode. Ma lo svolgimento del tema sarà quello giusto?

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Andiamo presto a controllare: si parte con "Adagio Veneziano", brano storico di Benedetto Marcello, che si apre con chitarroni e flautini sintetici, ma l’andazzo sembra quello di un classico pezzo dei Pooh pre-sinfonici e in vena melomane. Ranieri parte cantando a stecca nella sua maniera enfatica, in zona sceneggiata. Cosa è cambiato rispetto al passato? Beh, dopo le prime strofe parte un synth che ti trapana le orecchie, la solfa cambia ed ecco qui Deodato, ecco qui la pezza: funkettone con groove rotolanti e via a chiappe alzate. Il testo, per quanto romantico fino all’impossibile, sembra il delirio di un pazzo, non si capisce un’acca in un tripudio di odi alla donna ideale ed epicità sopra il livello del mare, tanto che non mancano sviolinate alla Riccardo Fogli, ovviamente eccessive. La cosa interessante è però questo ibrido musicale che non può lasciare indifferenti per la sua stranezza (chiusura del brano poi a botta jazz, che non ti aspetti proprio).

Secondo brano, "Serenata", stavolta di Schubert. Piani elettrici e groove solarizzato psych con cambi di accordi audaci di sapore jazz, flauti che ancora una volta vedono la mano di Deodato in uno stile precisissimo e chirurgico, quasi un prog cosmico con bassoni squagliati nel phaser. “Sulla tua voce ho fatto una croce / mio amore non parliamone più”. I testi continuano a essere fuori controllo: “Ho bruciato il tuo profilo, venduto gli occhi tuoi / per asciugare i miei”. Che parli del profilo Facebook? Non sono forse testi di un mitomane? Ranieri arranca nel cantare seguendo le suddivisioni dell’aria classica, ma questo arrancare evoca un’urgenza quasi da serial killer che si ritrova anche nella cupezza degli arrangiamenti, al limite dell’orrorifico. Il dramma è alle porte, si respira un’aria quasi dark: “fuochi distanti e coralli taglienti”. Alla base di tutto c'è il surrealismo: l’impressione è che non stia in piedi niente e questo ci incuriosisce quasi quanto un disco delle Shaggs.

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Il terzo pezzo è il "Notturno in Mib Op. 9 n. 2", nato dalle sapienti mani di Chopin. Si abusa ancora una volta di phaser sul piano, altro brano melodico e di struggente pathos, nel quale dopo un inizio molto fermo subentra una batteria che scuote un po’ le acque. Ranieri si appoggia ancora una volta sulla musica con piglio da “cantante demenziale”, quasi interpretando i testi come un’allucinazione art brut. Assolo di piano elettrico squagliato negli acidi a contrastare i violini e l’arrangiamento diciamo “nazionalpopolare”, che però molto presto prende una deriva Barry White, quasi da crociera disco music al ralenti. Come dice il testo, si mischiano “sassi con le stelle”. Si chiude il lato A e rigiriamo il disco come fosse il nostro cervello.

"Meditazione", opera di Massenet, è piazzata in apertura del lato B. Flauti e piano elettrico disegnano paesaggi lunari ancora una volta abusando di phaser come se non ci fosse un domani. Poi ecco arpe a cascata e una leggera batteria hip-hop ante litteram che dà vita a “un bacio sulle ciglia” su “foglie di pudore che poi avranno il colore rosso del cuore”, come recita l’ennesimo testo drogato. Il drumming sostiene, per contrasto, un pop quasi hypnagogico, che non disdegna arrangiamenti di trombone e fiati. Poi a un certo punto Ranieri urla come un rocker invasato nel momento più incastrato di tutti, in un tripudio di arpe al massimo del climax. Poi però torna il mood rilassato e romantico, in un’altalena bipolare. Solo di chitarra finale di estrema semplicità ma di efficacia new wave Television-oriented (con chitarra distorta direttamente nel mixer) e coda funky psichedelica. Ranieri è sparito nel rosso del cuore come da copione, insomma.

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Accidenti, chi l’avrebbe detto che avrebbe addirittura osato tentare il famigerato "Adagio" di Albinoni? Invece sì, solo che nell’intro non ce n’è traccia; c’è un synth a onda sinosouidale che striscia sopra a un pianoforte ancora una volta flangerato. Ma ecco Ranieri, delirante come sempre: “buttiamo a mare la poesia, io vado via / si muore un po’”. Liriche da depressione endogena schizoide a causa di affari di cuore irrisolti. Deodato, per evitare banalità, stravolge la parte centrale in un pop sinfonico/sintetico che si conclude con le classiche aperture che sono il marchio di fabbrica del nostro eroe. Il synth traccia suoni d’isole lontane dove il protagonista del pezzo sembra idealmente indirizzarsi per fuggire dalla sua lei.

Il "Concerto di Aranjuez" di Rodrigo è invece una cavalcata soft acid jazz tutta fiati blaxploitation e stacchetti fusion, il cui testo è probabilmente di matrice politica (e sappiamo che Ranieri era per ovvie origini “comunista così”). Celebrando forse la fine del regime franchista in Spagna, si ribalta a tutti gli effetti l’uso strumentale che i franchisti facevano di questo classico, coverizzato da un numero infinito di musicisti tra i quali Miles Davis, che col prode Gil Evans fece una versione bomba su Sketches of Spain, e addirittura da gente tipo Buckethead che lo adottò per i suoi sfasci sonici. Ranieri non è da meno e si cimenta, letteralmente, con l’impossibile.

C’è da dire che i testi sono veramente scoppiati nel loro tentativo di raggiungere una solennità poetico-drammaturgica che però diventa quasi monumentalista, quindi indigeribile. Il terzetto Avogadro (autore tra gli altri di "E la luna bussò" per Loredana Bertè) – Bigazzi (sì, lo storico produttore di Tozzi e Masini nonché mente degli Squallor) – Pallavicini (artefice di brani come “Le mille bolle blu” di Mina, ma anche paroliere per gli Albatros di Toto Cutugno) qui sembra in preda a sostanzine esaltanti. I musicisti sembrano invece assumere altro tipo di coadiuvanti, quelli che potrebbero trovarsi nei cannoni (non quelli da sparo): abbiamo nelle loro file infatti Silvano Chimenti, autore del discone Viaggio nei problemi dell’uomo: Droga e chitarra allucinata di Quattro mosche di velluto grigio di Morricone, nonché capoccia dei Pulsar. Poi Sergio Coppotelli, autore per Bruno Martino, ma soprattutto jazzista solidissimo che vanta, tra le altre, collaborazioni con Massimo Urbani e Gil Evans. Alla sezione ritmica troviamo Maurizio Majorana al basso, membro dei popolari Marc 4 che praticamente hanno collaborato con tutti i compositori di colonne sonore in Italia, e alla batteria invece siede Vincenzo Restuccia, session man per Baglioni, Branduardi, Morricone e De Andrè ma soprattutto jazzista completissimo. In effetti di jazzisti ce ne sono in questo disco, cosa che rende il tutto molto raffinato anche nel contrasto fra le parti. Tra l’altro l’ingegnere del suono è Giorgio Agazzi, famoso per il suo lavoro con i Goblin (il suono di "Profondo Rosso" è opera sua) per cui, ecco, è sicuramente un disco “alterato” per definizione.

Ovviamente un tale esperimento si concluse con un flop colossale a livello di vendite, tanto che successivamente Ranieri cercherà di andarci piano con la commistione di linguaggi. Si concederà solo qualche tentativo come La faccia del mare, concept album sull’Odissea anno 1978, nel quale il sentore funky torna a fare capolino. Oppure i dischi degli anni Duemila, con la collaborazione di Mauro Pagani, atti a rivisitare i grandi classici della canzone napoletana in salsa jazz/world e col recupero di una letteratura in dialetto oramai scomparsa (e oggi sappiamo chi segue il suo esempio…).

Lo scorso 19 maggio, invitato ad Amici, Massimo ha confessato un ritorno discografico imminente con un album d’inediti previsto per la fine dell’anno. Nel frattempo viaggia come un treno, calcando i palcoscenici di tutta Italia in un tour infinito che non sembra vedere momenti di stanca. Certo, difficile pensare a un nuovo Meditazione, ma in realtà anche il vecchio sembra a tutt’oggi impensabile, impossibile, inimmaginabile, quindi siamo pari. L’importante è, appunto, meditarci su: perché la curiosità è una cosa meravigliosa e non c’è tradizione che tenga.

Demented è su Twitter.

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