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Musica

Abbiamo fatto analizzare i testi rap a uno psicologo

Poi gli abbiamo chiesto di tracciare un profilo psicologico dei loro autori, da Fabri Fibra e Gemitaiz a Salmo e J-Ax.
Mattia Costioli
Milan, IT

Sigmund Freud, padre della psicanalisi e dello SWAG.

Qualche tempo fa abbiamo chiesto a un professore di letteratura di fare il nostro lavoro e gli abbiamo dato da analizzare alcuni testi di canzoni rap italiane. Ci piaceva l'idea di affrontare l'hip-hop con gli strumenti tipici applicati a una poesia o a un testo con un valore letterario comprovato e l'idea è piaciuta anche al sito web della Treccani, che ha scritto Mattia Costioli parte da un assunto semplice: la vera cifra ontologica del rap è quella poetica. Anche se sono estremamente lusingato dal vedere il mio nome scritto in modo così solenne, il mio scopo iniziale era estremamente più pigro e al principio si è trattato di un semplice gioco, che per una serie di coincidenze è riuscito davvero bene.

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Con la stessa idea in testa, cioè di provare a fare un gioco, abbiamo pensato che sarebbe stato divertente fingere per qualche ora che i testi delle canzoni rap fossero il verbale di una seduta dall'analista e, di conseguenza, provare a tracciare un profilo psicologico dei loro autori a partire da quei verbali.

Dopo un po' di ricerca e qualche tentativo mancato, siamo riusciti a convincere uno psicologo a darci una mano per portare a termine questo esperimento: sotto ogni video troverete le impressioni che ci ha raccontato dopo aver letto un testo ciascuno di Fabri Fibra, Salmo, J-Ax e Gemitaiz.

Ovviamente è bene ribadire di nuovo che si tratta di un gioco, ed è evidente che il testo di una canzone rap non sia un testo libero e, per quanto il rap rappresenti una forma di espressione molto elastica, deve sempre e comunque corrispondere a convenzioni e meccanismi musicali che ne riducono le potenzialità espressive, dal punto di vista di un terapeuta. Quindi, nel leggere i paragrafi successivi, bisogna sempre ricordarsi di questa premessa, così da evitare di doversi interrogare sulla genuinità delle parole ogni volta che il linguaggio della canzone diventi troppo metaforico. Bisogna dimenticarsi completamente dei meccanismi della musica e della rima, per poter fare questo gioco.

(Se premete sui titoli ci sono tutti i testi gentilmente offerti da Genius).

FABRI FIBRA - L'Uomo Nel Mirino

"Sicuramente il rap è una di quelle cose in cui c'è una libertà di temi, ma comunque ha dei meccanismi musicali da rispettare, e questi meccanismi rappresentano un limite. Premesso che io non mi sono mai messo lì a provare a dare una lettura o un'interpretazione di questa forma espressiva, ma dopo aver dato un'occhiata a questo testo mi pare di notare una vena espressiva fortemente depressiva e introversa. La scelta di raccontare della propria vita solo dei pezzi così pesantemente scuri e, per certi versi, negativi è già di per sé significativa: uno potrebbe tranquillamente scegliere di raccontare quella volta in cui si era innamorato perso della vicina di casa e, utilizzando lo stesso schema musicale, raccontare emozioni di stampo completamente diverso.

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Mi stupisce il fatto che in tutti questi brani, per quanto siano stati scelti ad hoc, sia costante questa scelta di raccontare solo emozioni fortemente tormentate. Tutti scelgono di raccontarsi agli altri attraverso i propri lati più incasinati che, presumo, sono anche quelli che li fanno stare peggio.

Quando Fabri Fibra dice inietto veleno in questo casino tanto per cominciare sta comunicando di avere del veleno da iniettare e, anziché tenerselo dentro, decide di vomitarlo su una situazione, su un casino, che è a sua volta qualcosa di negativo. Al di là di quei meccanismi obbligati della musica rap, già dalle prime tre righe si sente il bisogno di prendere e buttar fuori un malessere, qualcosa di personale, mi sembra abbastanza evidente, con un vissuto che non è dei più positivi. Il meccanismo mentale segue uno schema piuttosto facile e parte dalla consapevolezza che c'è questo veleno da buttar fuori, e dichiaro di volerlo fare, nella speranza che forse mi farà stare meglio. Qui la parola casino ha un significato che va oltre quello della rima, e con queste prime righe si definisce già la cornice entro la quale si muoverà l'intera riflessione introspettiva del testo. C'è tanto malessere interno da buttare fuori, verso qualcosa che a sua volta è vissuto negativamente e da cui si può dedurre un vissuto interiore che macera da tanto; buttare le freccette sulla foto da bambino ha un simbolismo di autolesionismo verso certe fasi della vita che, di solito, se consideriamo la media delle persone, rimangono cristallizzate come ricordi ed emozioni positive.

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Un tentativo di spiegazione della cosa cerca di farlo: il mio destino è fare l'uomo nel mirino. Chi scrive a questo punto si identifica non più nell'attore del suo malessere (come quando lanciava le freccette), bensì nell'oggetto delle angherie di una realtà esterna, al contrario di quanto si diceva all'inizio. A questo punto c'è la sofferenza di una persona che si ritrova al centro di una sofferenza imposta.

Se facciamo un passo indietro sull'immagine dello scagliere freccette sulla propria foto, nella letteratura, nei meccanismi evolutivi, i propri vissuti da bambino sono argomenti che offrono alcuni spunti, anche se si ha la percezione emotiva di aver subito dei torti o delle cattiverie… Diciamo che nessuno di noi si porta dietro, mediamente, un vissuto della propria infanzia negativo. Per fare un esempio banale: quando io ero bambino passavo la maggior parte del tempo con mia zia, anziché con i miei genitori, e una delle cose che ricordo meglio di lei è quando mi inseguiva con i suoi righelli e attrezzi da sarta per darmi delle giuste mazzate; eppure nonostante questi episodi non conservo di quella persona un ricordo negativo. Questo semplicemente per dire che il vissuto di ciascuno di noi rispetto all'infanzia, al di là dei singoli episodi (che possono essere belli o brutti), non viene determinato dalle azioni concrete, ma dalle emozioni a cui quelle azioni si legano. È il vissuto dell'emozione quello che ti segna e ti condiziona nella vita adulta, rendendoti in un modo o in un altro. Questa scena delle freccette sulla propria foto da bambino non è tanto la simbolizzazione di qualcuno che te le dava, ma è il ricordo di come tu ti sei sentito. Paradossalmente può anche essere che nessuno ti abbia mai dato neanche uno schiaffo, ma c'era una modalità di relazione con te da bambino che era così cattiva o brutta, per come la percepivi, da esserti rimasto dentro.

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La completa disattenzione ad esempio è molto più debilitante per la psiche, soprattutto perché da bambini non si è in grado di analizzare queste sensazioni in modo lucido: il bambino piccolo in generale quando sta male per colpa di qualcuno non riesce mai, perché non ne ha gli strumenti, ad attribuire in maniera chiara e convincente per se stesso la colpa del suo star male a qualcun altro. Se la mamma non ti guarda non è colpa della mamma, è colpa tua. Quella sofferenza, magari dettata semplicemente da un sorriso che non arriva o dall'indifferenza (in un contesto famigliare sano o comunque apparantemente accettabile) si trasforma e, nel momento in cui si acquisisce una razionalità maggiore e quindi una capacità analitica migliore, diventa qualcosa di più concreto, per permettere a se stessi di dare un nome a quella sofferenza che, in caso contrario, non si avrebbe idea di dove andare a piazzare.

Questo è più o meno il lavoro dello strizzacervelli, ma quelle freccette di cui si parla all'inizio potrebbero essere proprio la concretizzazione di quel male psicologico, pure se magari nell'infanzia non c'è mai stato nessun tipo di abuso. È un tentativo di dare un nome alla sofferenza per tenerla governata all'interno di sé e fare in modo che non circoli liberamente, inquinando qualsiasi cosa. Questi sono i meccanismi che un po' tutti quanti noi mettiamo in pratica per cercare di proteggerci e arginare le cose, piccole o grandi che siano, che a un certo punto hanno bisogno di essere piazzate da qualche parte, con la convizione che una volta trovato un posto per la nostra sofferenza tutto andrà meglio. Mi sembra una dinamica piuttosto applicabile a questo caso che stiamo analizzando, perché quando uno subisce un torto, in generale, nei meccanismi di funzionamento di ciascuno, ci sono due vie principali: la rabbia e la depressione. Tu mi hai fatto male, e io faccio male a te oppure tu mi hai fatto male, e io me lo merito, prendo consapevolezza di meritarmi di stare male ed entro in un circolo vizioso da cui non riesco più a uscire. Questo Fabri Fibra mi sembra che tenda molto di più sul secondo versante e sicuramente è il racconto di qualcuno che dei torti li ha subiti, ma la cui reazione non è stata rabbiosa, ma depressiva. Fare l'uomo nel mirino vuol dire che tutte queste cose scritte nel testo sono meritate e che non si reagisce perché si sa di meritarle. Da questo testo viene fuori un profilo di una persona che ha una stima di sé molto bassa e non c'è nulla che dia l'impressione di porla in maniera attiva all'interno delle sue sofferenze.

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Quando ero piccolo mi hanno spinto in piscina, senza poi tornare a galla per quanta acqua ho inghiottito. Anche qui, viene fuori di nuovo un'incapacità di reagire che è tipica della depressione e anzi, potrebbe essere una buona descrizione metaforica. La rabbia ti può far agire in modo incontrollato, ma è molto più facile lavorare con chi ha manifestazioni di rabbia che con un depresso. Prima di poter tirare fuori un depresso da quel tombino in cui non solo si è cacciato, ma in cui è convinto di meritare di dover stare, ci vuole davvero tanta fatica.

Se mi sparano ritorno perché sono un ologramma è un modo molto depressivo di parlare di sé, con questa frase Fabri Fibra si sta praticamente privando di un'identità corporea, è quasi la traduzione concreta di questa cosa che stiam dicendo. Se mettiamo insieme questi tre concetti, fare l'uomo nel mirino, bagnarsi di benzina e farsi passare da qualcun altro un accendino, ritornare dopo un colpo di pistola perché sono un ologramma (cioè privo di identità corporea) e li facciamo sfociare nella frase mi addormento sognando che mi sveglio in una bara, capiamo quanto sia passivo il modo dell'autore di affrontare i problemi. È un autoaugurio profetico di un modo per risolverla e farla finita: una depressione che arriva al punto di non essere in grado di farsi fuori da soli, lui sogna che per un qualche motivo si sveglierà dentro una bara, e buonanotte al secchio.

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Mi sembra bello depresso, se devo giudicare a partire da questo testo.

SALMO - 1984

Questo testo fin dall'inizio mi sembra più difficile dell'altro, perché vengono fuori meno il racconto di sé e i riferimenti più personali o introspettivi. Se proprio vogliamo dare una chiave interpretativa e comparativa, possiamo subito paragonare due frasi: dove Fabri Fibra diceva mi hanno spinto in piscina, senza poi tornare a galla e Salmo dice è un po’ come nuotare verso l’onda, sono affogato e poi resuscitato. Il secondo caso dimostra che l'eventuale paziente ha in sé una speranza, uno sguardo oltre le difficoltà della vita che possono capitare, ed è subito chiaro che questo non si tratta di un depresso. Idem in anche se mi spari, c'ho la pelle come i cinghiali, leggi: mi puoi fare male, ma non mi fai secco.

Questo testo mi sembra quasi il racconto di un riscatto e in generale di una lettura positiva degli eventi passati. Fin dall'inizio, dalla scelta di scrivere vengo al mondo d'estate, perché avrebbe potuto scrivere qualsiasi altra cosa mentre, tendenzialmente, l'estate è sinonimo di emozioni positive. La lettura che mi viene in mente, a pelle, è il racconto di un riscatto e di un'infanzia vissuta in maniera più positiva rispetto allo scritto precedente. Le cose che vengono riportate potrebbero far parte del vissuto di chiunque abbia fatto esperienza di una certa normalità e tutti i riferimenti lo collocano realisticamente all'interno di un periodo preciso e di interpretazione non del tutto negativa.

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Mio padre non fa il buttafuori ma ti pesta fuori, se leggiamo questa frase con la stessa chiave di lettura di cui sopra, possiamo trovare una controprova del fatto che non è lo schiaffo in sé ciò che provoca l'emozione che ti fa star bene o ti fa star male: lo schiaffo è solo l'azione. Il significato di ciò che si porta dentro viene espresso in una riga e dimostra come i ricordi si leghino a emozioni più complesse dei singoli avvenimenti, nella maggior parte dei casi.

Anche in questo passaggio, cresco in fretta, parlo poco, sembro autistico, l'arte è cibo per la mente: frequento l'artistico. In questo caso il silenzio è espressione dell'arte, una solitudine vissuta positivamente e comunque da catalogare in una sfera di emozioni positive, qualcosa che produce cose buone. C'è un modo positivo di porsi anche nelle frasi successive, ad esempio la frase dove cazzo vai se non sai da dove vieni? a concludere tutti quei riferimenti a un passato personale e collettivo sembrano quasi una riflessione interiore sul proprio vissuto, in un'ottica di interrogarsi su se stessi che mi sembra molto propositiva. Se confrontiamo con Fabri Fibra, pare che qui ci sia una volontà di capire da dove si viene per poter meglio decidere dove andare, in una dinamica assolutamente costruttiva.

Diciamo che rispetto al testo precedente, questo fornisce il profilo di un paziente più facile da trattare, tanto per cominciare perché si pone delle domande. Tutti i riferimenti sono pezzi di un puzzle che non compone un'immagine chiara, ma che vanno ricomposti: il senso di questa cosa è che l'autore sa di avere a disposizione tutti gli elementi, ma non è ancora riuscito a metterli in maniera tale da farsi capire. Nell'ottica della terapia un paziente del genere è un paziente che già parte dalla volontà di capire, e quando una persona entra in uno studio con questa volontà metà del lavoro è già fatto.

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Anche se è una lettura un po' spinta, sembra quasi che l'autore sia arrivato ad un punto in cui si sta ancora interrogando personalmente per capire dove vuole andare, ma intanto che sta facendo questo percorso (che per quanto non depressivo non è mai semplice) tutti sanno il nome. Come se la fama fosse arrivata prima ancora di capire che tipo di persona è sia diventato lui stesso, anche qui: si tratta di una personalità riflessiva e costruttiva, che si interroga sul paradosso di essere diventati famosi prima ancora di essere riusciti a rispondere a quelle domande sulle proprie origini. Salmo si è ritrovato con il futuro migliore a cui fa riferimento in ho fatto i peggiori lavori per ripagarmi i CD, sognando un futuro migliore, tipo questo qui, ma senza essere riuscito nel frattempo a rispondere a tutte quelle altre domande sul suo percorso. Si legge sempre tra le righe quella voglia di maggior comprensione della propria esperienza, un'esigenza di capire se stesso che traspare piuttosto chiaramente.

Credo che, considerata anche sardo come Zedda Piras, sia importante l'influenza psicologica della cultura di un popolo sulla propria personalità. C'è molto delle origini della sua terra dentro questo scritto, c'è il valore di una cultura che non si arrende e questi meccanismi di collettività hanno riferimento anche in letteratura. Il contesto culturale in cui si nasce conta molto, quando si hanno difficoltà personali: ci sono alcune culture che si portano dietro principalmente la parte di quello che subisce la pressione o i problemi, mentre ad esempio la cultura isolana e in particolare quella sarda tendono a fornire delle fondamenta psicologiche molto utili nei momenti di smarrimento, che derivano proprio da quell'isolamento a cui sono sottoposti i popoli che le tramandano.

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Diciamo che questo Salmo sarebbe un paziente facile.

J-Ax - Intro

A differenza dei primi due testi che abbiamo letto questo mi dà l'idea di voler usare la musica, la canzone, per provare a raccontare di sé in maniera esplicita e dichiarata. Il testo è un tentativo di provare a distinguere le cose che per lui hanno valore fuori dagli schemi e dalle mode, non so come altro dirlo. Mi dà proprio l'impressione di una persona che per un bel po' di tempo ha fatto delle scelte dettate dall'esterno, senza mai metterci dentro del proprio e, fin dall'inizio, sembra proprio che dichiari un'intenzione di tirare il freno e fermarsi a riflettere per provare a capire cosa ha senso fare da quel punto in avanti, ma questa volta per sé, anziché per gli altri.

C'è una consapevolezza, richiamata da quel pelo grigio, che pesa come gli anni ed è come se si portasse dietro una specie di rimpianto, perché mentre gli altri costruivano famiglie e rapporti lui pensava solo ai dischi e ai tour. Dentro questa dichiarazione c'è uno dei problemi più forti e più costanti, che si manifesta soprattutto nei momenti più difficili, ovvero che quello che sei, attraverso i figli che hai messo al mondo, in qualche modo rimane e prosegue. Nel testo di J-Ax c'è dentro un interrogarsi sul valore delle sue scelte ed è il segnale di una persona che vuole pensare a se stessa, per lasciare qualcosa agli altri di più profondo, intimo e personale. La parte più esteriore, di facciata pubblica, è quella che più gli è sembrata importante per una parte di vita e ora sta compilando una sorta di testamento di svolta, senza disconoscere le scelte fatte precedentemente, ma ristabilendo un ordine di priorità.

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Nella strofa successiva, che si esplicita bene nelle frasi perchè fare roba nuova se la gente già t'adora, e alla fine si innamora solo della novità è lì per spiegare che in realtà agli altri, al pubblico, non interessa davvero chi sei. È come se volesse dire che non è l'età a costituire il suo problema, ma tutto ciò di personale che mette dentro la propria forma di espressione, in questo caso la musica, e di cui non sembra importare nulla a chi ascolta.

Anche questo scritto, come negli altri, viene fuori la questione del veleno e, in effetti, è un modo veloce e sintetico per confrontare tutti gli scritti visti fino ad ora e capire come si differenziano nel modo di affrontarlo personalmente. In generale questo testo sembra la presa di coscienza di un uomo che è arrivato alla boa dei quaranta, quarantacinque anni e che si accorge che non è il successo a fare di te un uomo di valore. C'è una ricerca di rivalsa, di riscatto, quel ricominciare da meno di zero che denota una voglia di rimettersi in pista, con due milioni di fan e senza un figlio proprio, ma con la consapevolezza che sollevare il velo potrà aiutare a stare meglio, a capire meglio che cosa si vuole dalla vita e non rimanere incollati a quell'immagine vincente che la gente prova a vendere di sé.

Anche in questo caso mi sembra un'analisi di un paziente molto lucido e quindi, ipoteticamente, semplice da trattare. Purtroppo di solito per arrivare a questo genere di consapevolezza deve succedere qualcosa di brutto, come possono essere in questo caso i riferimenti agli amici che non si sono rivalti tali, i traumi con la band o i discografici approfittatori. Eppure da una cosa negativa ne viene fuori una positiva: il raccontarsi veramente per ciò che si è, e di conseguenza la conclusione: non voglio vivere su un grattacielo, solo sputare indietro un po' il veleno e raccontarmi veramente, lo spettacolo riprende: benvenuti a tutti quelli come me.

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Una bella ammissione e, direi, un altro paziente facile.

GEMITAIZ - Scappo Via

Fin dalle prime righe mi sembra il racconto di una persona che ha fatto uso di sostanze e che si sente male una volta passato l'effetto. Ha sicuramente avuto dei problemi legati all'abuso nel suo vissuto personale e quel demone è sicuramente una droga. Magari prendo una cantonata, ma mi sembra un testo di una persona che sta facendo i conti con una sua dipendenza.

Per parlare in termini generali in riferimenti alle dipendenze, bisogna dire che in questi casi la terapia è una cosa che si può fare quando dall'altra parte c'è una persona che ci sta con la testa. Se per un motivo qualsiasi non c'è lucidità nel paziente la terapia non serve a nulla e bisogna intervenire, o prima o durante, con un ausilio farmacologico. La terapia è qualcosa che lavora sulla parte cognitiva e se la persona interessata non è in grado di desumere i significati dei discorsi lo scopo è assolutamente vano.

Dalle cose che scrive Gemitaiz mi sembra una persona che ci è ancora dentro e anche la copertina, in cui c'è metà faccia e metà scheletro/cadavere, è una proiezione piuttosto forte della propria interiorità, rispetto al sentirsi mezzo dentro e mezzo fuori da una dipendenza. Allo stesso modo quel o scelgo me o scelgo te è perfettamente esemplificativo della sofferenza e il problema è che anche quello scappare via in mi hanno inciso il nome sulla lapide, ma io scappo via gli dico di no è qualcosa detto con la consapevolezza di non riuscire a trovare abbastanza forza di volontà per scappare davvero.

La canzone è quasi un elenco puntuale di una persona che sente grosso il rischio di perdere il controllo, a forza di aspettare ci sto rimanendo, e il terrore che l'unica amica alla fine sarà la droga. Dichiarare che è meglio sentirsi un dio maledetto piuttosto che affrontare il vuoto assoluto dell'astinenza… Se stessi affrontando questo testo come una seduta di terapia, sarebbe un punto di partenza molto difficile. Mi dà l'idea di una persona che prova a darsi una spiegazione, che prova a capire se vuole continuare a farsi o se vuole venirne fuori, ma non sa ancora.

Diciamo che, per ampliare un po' il discorso, in questi casi tutto dipende dalla sostanza e da quali effetti collaterali presenta, per esempio la cocaina, al di là di ciò che si dice a destra e a manca, dà dipendenza soltanto a certe condizioni, al contrario ad esempio dell'eroina che dà dipendenza in ogni caso, sempre e comunque. La mia sensazione, sempre ricordandoci che stiamo fingendo di interpretare questo testo come se fosse una seduta, è che questa persona abbia una dipendenza psicologica, ma non fisica. L'autore teme di perdere il controllo e si rende conto dei rischi che sta correndo, ma non parla mai di morte, si limita a raccontare ciò che gli passa per la testa, da un punto di vista personale. Quel Davide come sta, me lo hai mai chiesto? è una domanda che rivolge a se stesso e tutto lo svolgimento di questa roba è un'altalena tra se mi faccio sto bene, anche se ho del senso di colpa e non so come fare a non farmi.

Nel testo si può leggere anche di un tentativo di disintossicazione, probabilmente finito male, e in ogni caso si nota un vissuto fortemente segnato dal rapporto con la droga, si nota soprattutto questo dilemma tra sapere, razionalmente, che è necessario venirne fuori, ma dall'altro lato non avere idea di come fare a farlo. Lo si nota anche nella frase ma a migliorare non siamo bravi, però andare nel baratro siamo i capi, in cui io ci leggo più che la non volontà di uscire dai propri problemi, l'incapacità di farlo. L'autore ha la prospettiva, raccontata dalla metafora del nome che qualcuno gli ha già scritto sulla lapide, di una sorta di presagio molto forte e si legge il desiderio di schivare in qualche modo quel futuro, ma allo stesso tempo si nota una mancanza di mezzi adatti per farlo, che crea un circolo vizioso in cui alla fine si ripiega di nuovo sulla droga, perché apparentemente fa stare meglio.

Dite: "Scrivi tutto quello che hai dentro" Poi lo faccio e dici "Scusa che hai detto?" è un'altra dichiarazione della frustrazione che si prova nel non sapere a cosa aggrapparsi per uscire da un buco di sofferenza e dipendenza, che crea un muro di incomunicabilità con gli altri. Sto sui binari finché non mi arriva dentro e mi porta via, dove c'è solo lei a farmi compagnia è un'altra dinamica che ormai fa parte della letteratura scientifica che descrive la personalità del tossicodipendente, in cui si innesca un processo che porta la droga ad essere l'unica amica, l'unico modo di sentirsi compresi.

Allo stesso modo dei testi precedenti si rinnova un filo rosso comune che è anche una dichiarazione che suona più o meno come "Io sono diverso da ciò che pensate e da quello che io stesso voglio farvi pensare di me. Nessuno di voi è in grado di vedermi dentro". Mi sembra davvero un tema costante in tutti i brani che ho appena letto, come se il prezzo del successo e della popolarità fosse che a nessuna delle persone che ti fanno diventare ricco interessi davvero capire cosa ci sia dietro la facciata pubblica.

Tutti parlano di veleno, tutti descrivono una certa incomunicabilità e, anche se in modalità e con parole diverse (tranne veleno, che è ricorrente), c'è una trama che si ripresenta in maniera sistematica. Nel testo di Gemitaiz ad esempio Questi mi chiedono di fare foto, non sanno che nel cuore c'è un maremoto ne è la massima espressione, di come al suo pubblico importi solo di fotografare quella facciata, vestita di modi e abbigliamenti che non raccontano in alcun modo l'interiorità che viene fuori leggendo questo testo. Forse J-Ax, per fare un confronto e trovare una quadra, con l'aiuto degli anni di esperienza è riuscito ad acquisire una consapevolezza che gli permette di porsi verso quei due milioni di nipoti in maniera diversa, con una meta precisa, con l'idea in testa che la propria esistenza conta di più dell'opinione degli altri, anche se gli si è dovuto ingrigire il pelo per poterci arrivare.

È un buon modo di provare a superare un'immagine di se stessi che condiziona così pesantemente e che, alla fine, si è contribuito personalmente a costruire.

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