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Musica

La SIAE è davvero un monopolio?

Abbiamo intervistato Soundreef, principale concorrente della Società Italiana Autori ed Editori, per capire se esista un'alternativa alla SIAE.
Giacomo Stefanini
Milan, IT

Della SIAE e del modo di liberarsene si è scritto abbastanza da far esplodere Internet. Chiunque abbia mai preso in mano uno strumento musicale e abbia partecipato al rito di umiliazione pubblica conosciuto come “spettacolo dal vivo” sa perfettamente che la SIAE è una gran rottura di palle, l’incubo burocratico di ogni mente creativa. Un po’ perché i musicisti sono geneticamente avversi a moduli, tasse e vessazioni di questo tipo, un po’ perché quando arriva un ispettore ti viene quello stesso brivido di disprezzo che ti coglie quando vedi un ausiliare del traffico che punta verso di te mentre pedali contromano. Perciò è un sollievo scoprire che è davvero un ente gestito male, a cui l'ordinamento riconosce un monopolio anacronistico e iniquo in barba alle direttive europee. Allora non c'entrano i nostri problemi con le figure autoritarie, abbiamo ragione! È ormai ampiamente riconosciuto il bisogno di aggiornare questa istituzione di modo che possa retribuire equamente gli iscritti, trattare con cognizione di causa i vari supporti di diffusione della musica, e abbracciare la trasparenza tanto verso il fisco quanto verso gli iscritti la cui proprietà intellettuale dovrebbe tutelare.

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Gli imprenditori italiani e cervelli in fuga (in UK) Davide D’Atri e Francesco Danieli nel 2011 hanno fondato Soundreef con l’idea di dare una scossa al mercato delle collecting society, bloccate in tutta Europa dall’endemica fissità del monopolio. Soundreef si occupa di amministrazione dei diritti sulla musica d’ambiente nei negozi, supermarket, ecc. e di aggregazione e ridistribuzione delle royalty per i live, prendendosi di fatto una fetta del mercato SIAE. Questo ha portato a una vera e propria guerra mediatica e legale, la cui ultima battaglia si è conclusa l'anno scorso con una sentenza che riconosce a Soundreef il diritto di diffondere la propria musica e raccogliere iscritti in Italia. Il prossimo round sarà ad aprile 2016 in Parlamento, come ci spiega il fondatore Davide D’Atri nell’intervista che segue.

Noisey: Da dove avete iniziato? Mi viene da immaginare che Soundreef sia nata da musicisti frustrati, ma magari sbaglio.
Davide D'Atri: Be’, Soundreef è un’azienda molto complessa sia dal punto di vista legale che da quello di business. Individuare una data di nascita precisa è difficile. Io ho un background di economia, ho studiato economia, però ho sempre lavorato nel campo della musica da quando avevo quindici anni, ho fatto di tutto: DJ, impianti, vendere CD per strada, editoria… Però studiando economia all’università, io avevo la fissa dell’Antitrust. E avendo la fissa dell’antitrust non riuscivo a comprendere come fosse possibile che alle varie SIAE d’Europa fosse consentito di agire in regime di monopolio.

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Quindi sei entrato in questo settore non solo per una questione di affari, ma proprio per contrastare questa ingiustizia.
Certamente! Io da studente n’ero, direi, quasi affascinato. Mi dicevo: “Non è possibile che il mercato europeo delle royalties, che vale sette o otto miliardi di euro, sia diviso tra ventisette società, una per ogni Paese della comunità europea”. Da un punto di vista strettamente economico di Antitrust, lascia perdere la questione legale, questa è un’anomalia incredibile. Neanche l’acqua è così: ci sono state privatizzazioni, ci sono le società locali. Cioè, questa storia delle royalties, da un punto di vista puramente accademico, è assolutamente incredibile. Quindi io ne ero affascinato, da studente, ma non è che sapessi cosa fare. Dopo l’università ho lavorato per un editore dell’industria discografica, dopodiché ho fondato la mia prima azienda che tuttora si occupa di diritti sulla musica però relativi alla televisione, sempre in Inghilterra, dove vivo da quando avevo diciannove anni. Poi nel 2011 io, insieme a tre o quattro collaboratori tra cui il mio socio fondatore storico Francesco Danieli, ci siamo guardati attorno e abbiamo pensato che forse potevamo iniziare questa avventura, perché a quel punto avevamo più conoscenze, più qualità, più capacità di raccogliere fondi velocemente. Come dire, eravamo molto più quadrati rispetto agli altri studenti di ventidue anni.

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Se è per questo mi sembrate molto più quadrati anche dei giornalisti di Noisey ventinovenni.
Quindi nel 2011 abbiamo passato di mano la prima azienda, che ormai era solida e andava avanti da sola, e ci siamo imbarcati in questa. Soundreef è andata bene da subito perché è un’idea che io ho coltivato per più di dieci anni. Anche con la prima azienda facevamo dei market test che andavano in quella direzione. Quando abbiamo fondato la Soundreef, dopo quattro settimane avevamo già raccolto un milione di euro dai primi investitori, avevamo già i primi clienti… è un business talmente complesso che non è possibile svegliarsi la mattina e cominciare a farlo, per questo faccio fatica a individuare il vero momento della nascita di questa azienda.

Allora voi eravate ben consapevoli delle difficoltà che avreste dovuto affrontare in questo campo, che sarebbe stata una guerra contro il monopolio di fatto esercitato dalle collecting society europee. Ad esempio, sapevate già che avreste dovuto affrontare una causa legale con la SIAE come poi è successo nel 2014…
Eh sì! Avevamo messo in conto che la spesa legale sarebbe stata una voce importante nel bilancio. Ancora oggi lo è. Chiunque si affacci a questo mercato pensando che sarà lasciato stare, be’, non sa come funziona. Noi partiamo dal concetto che siamo assolutamente legali. Per esempio, a me non piace per niente quando mi dicono: “Vi siete infilati nelle pieghe della legge, siete stati bravi [a sfruttare i cavilli]…” No. Questa è un’insinuazione che proprio non mi piace, ok? A mio giudizio, e a giudizio della Comunità Europea, e a giudizio di alcune sentenze, sono queste collecting society che da un punto di vista di Antitrust non si sono comportate correttamente. E non c’è alcuna legge a livello comunitario che impedisca a un’azienda inglese di operare in tutta Europa. Cioè: tu all’interno del tuo Codice Civile italiano puoi scrivere ciò che desideri; se vuoi scrivere che il mandato esclusivo è della SIAE puoi farlo, ma a me, che vengo dall’Inghilterra e opero in Italia, non puoi fermarmi nemmeno per sogno. Perché nella Comunità Europea c’è il libero scambio di merci e servizi. E infatti il giudice ci ha dato ragione.

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E questo problema l’avete avuto solo in Italia, o con tutte le società di diritti europee?
Noi abbiamo avuto diversi tipi di confronto con altre collecting society. In Russia, per esempio, abbiamo avuto uno scontro piuttosto grosso che abbiamo vinto con sentenza definitiva. Abbiamo avuto altri confronti con altre collecting society in Europa che però non sono finiti a giudizio, nel senso che vedendo che noi avevamo tutte le carte in regola, la collecting society locale si è fermata prima. Il problema è che queste varie SIAE d’Europa… prima di tutto, la SIAE italiana, al contrario di quello che pensano tutti, non ha la bandiera nera. Cioè non è che la SIAE italiana sia un mostro rispetto alle altre. Questa è una percezione italiana che non corrisponde al vero. Pensa se devo essere proprio io a spezzare una lancia nei confronti della SIAE. Non è che la SIAE sia un mostro che non si sa cosa faccia e non serve a nulla. La SIAE soffre dei problemi dovuti al regime di monopolio, che è un problema a sé. Quando si crea un mercato monopolistico, quel mercato avrà delle inefficienze, come ad esempio la mancanza di innovazione. Perché il monopolista non ha interesse a innovare, o perlomeno non ha interesse a innovare velocemente. Quindi è chiaro che qui il problema è del legislatore prima che della SIAE. È comprensibile prendersela con la SIAE, ma bisogna ricordarsi che il capo qua è il legislatore. Anche perché in questa fase, quello che succede è incredibile. Cioè, la comunità europea ha detto che tutti possono operare liberamente in Europa; in Italia, noi abbiamo una legge che però non ti permette di fare un’altra SIAE italiana. Ad esempio noi saremmo contentissimi di aprire una filiale della nostra azienda in Italia, assumendo in Italia, facendo gli interessi anche del territorio Italia: questo, però, non lo possiamo fare, il che è assurdo.

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Infatti mi chiedevo se la scelta dell’Inghilterra fosse dettata da ragioni di interessi o solo perché tu hai studiato lì…
La casa madre è in Inghilterra perché noi stiamo in Inghilterra da quando avevamo diciannove anni, sia io che il mio socio fondatore, e anche per una ragione proprio di conoscenza: sappiamo gestire un’azienda inglese, ma non sappiamo gestire un’azienda italiana, dato che abbiamo studiato qui e tutto. Però, detto questo, non è che non vogliamo aprire una filiale in Italia, anzi, saremmo contenti, sarebbe anche doveroso, ma non si può fare; perché puoi fare concorrenza in tutta Europa ma, al momento, c’è una legge del Codice Civile Italiano che dice che l’unico soggetto autorizzato sul territorio italiano è la SIAE. Il governo si è impegnato a recepire la nuova normativa UE entro aprile 2016, quindi effettivamente qualcosa dovrebbe muoversi, ma chissà come, questo non si può sapere.

Insomma, la concorrenza alle collecting society si può fare, basta prepararsi.
Sì, conoscevamo perfettamente i problemi legali e vorrei dirti che una delle mie skill maggiori è conoscere alla perfezione il framework legale internazionale, cioè io personalmente conosco tantissimi statuti di collecting society, le regole specifiche del settore, alcune modalità di collecting society a livello internazionale e poi, ovviamente, abbiamo gli avvocati locali, ecc. Quindi da un punto di vista legale siamo sempre stati sicuri e finora abbiamo sempre vinto, in Europa e fuori dall’Europa. Sapevamo che avremmo avuto dei problemi e ci siamo preparati ad affrontarli.

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Capisco.
Ti dico i nostri tre princìpi:
1) Trasparenza. Gli artisti devono sapere dove e come la loro musica viene suonata, e questo è un discorso tecnologico. Il legale non c’entra niente, le leggi non c’entrano niente, sono fumo negli occhi. Questa è una questione di tecnologia. Si tratta di ricostruire un’infrastruttura tecnologica che rimetta la musica in mano agli artisti. Cioè, se tu vai su Soundreef puoi vedere se la tua musica è stata passata a Stoccolma o a Roma o in Spagna, ogni due passaggi prendi tre centesimi. Questo non avviene nelle collecting society normali.
2) Rapidità dei pagamenti. Se io raccolgo oggi, entro novanta giorni ti devo pagare. Lo standard del mercato è che io raccolgo oggi, per il mercato nazionale te li dò entro ventiquattr’ore, per l’internazionale te li dò entro trentasei mesi. Cioè, è assurdo. È come se tu scrivessi questo articolo oggi e ti pagassero tra trentasei mesi. Per quanto ci riguarda è inaccettabile.
3) Divisione analitica dei pagamenti. Perché tante volte si sente dire “noi dividiamo in maniera forfettaria”. Significa che se io raccolgo duemila euro, io questi duemila euro non li divido secondo ciò che è stato effettivamente suonato, ma li divido secondo i criteri che il mio Consiglio d’Amministrazione ha deciso. Quindi non viene pagato ciò che viene effettivamente suonato, ma ciò che è stato stabilito da alcuni dirigenti! Che secondo noi è inaccettabile. La tecnologia permette di individuare qualsiasi passaggio musicale su praticamente il 99 percento delle utilizzazioni, quindi è nostro compito pagare strettamente solo quello che viene passato. Ogni passaggio, un pagamento. Quando ci chiedono “qual è il vostro statuto, quali sono le vostre regole per i pagamenti?” noi ridiamo, perché non ne abbiamo. Abbiamo una sola regola, molto semplice: vendiamo la musica a Auchan e Auchan ci dà cinquantamila euro? Questi cinquantamila euro li dividiamo per tutte le canzoni che sono state suonate durante il periodo del contratto. Fine. Non c’è altro! Se vai a vedere le regole di ripartizione delle collecting society sono venti, trenta, quaranta pagine scritte fittissime e assolutamente incomprensibili.

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Grab via.

Quindi l’idea è che c’è un modo per ricevere un compenso dalle proprie opere. Perché forse tanta gente utilizza sistemi di diffusione gratuita come Creative Commons proprio perché la SIAE è vista come questo gigante che si prende i tuoi soldi e non te li restituisce, e allora uno pensa: "se non devo ricevere alcun compenso, tanto vale usare una licenza aperta e gratuita".
Guarda, in Italia su Creative Commons si è fatta una gran confusione, confusione aumentata anche da alcune realtà italiane che a mio parere parlano un po’ a sproposito dell’argomento. Una delle prime società in Europa a utilizzare queste licenze è stata la mia prima azienda, nel 2006. Creative Commons non è altro che un contratto tra le parti. Null’altro. Non c’è niente di ideologico: tra l’altro il tizio che l’ha inventato non è assolutamente né un anarchico né un comunista, è un tizio vicino ai Repubblicani americani. Noi in Italia tendiamo a ideologizzare qualunque cosa. L’unica cosa che ha fatto lui è stata creare un contratto molto semplice da applicare sul copyright che permette agli artisti di comunicare a chi vuole utilizzare la loro musica per quali scopi la può utilizzare gratuitamente. Quindi per esempio noi nel 2006 abbiamo reso disponibile la nostra libreria di brani gratuitamente per gli studenti, ma gli stessi brani, se venivano richiesti da una trasmissione televisiva, costavano migliaia di euro. Non è che da una parte ci sia Creative Commons tutto gratis, tutto fricchettone, tutto hippie, e dall’altra c’è il mondo del business. Questa è una gran fesseria. Creative Commons è uno strumento flessibile che si può utilizzare come si vuole, poi se tu vuoi regalare tutta la tua musica utilizzerai la formula di Creative Commons più aperta possibile.

Insomma, non avevo capito niente.
Con la SIAE non c’entra proprio nulla! In Italia c’è una confusione incredibile. Non c’entra nulla perché la SIAE fa la raccolta economica di un brano, prende i soldi e in teoria li ripartisce. Creative Commons è un modo per licenziare la tua musica. Dove nasce il fraintendimento? Dal fatto che la SIAE non vuole lavorare con brani in Creative Commons per una serie di regole interne sue. Ma non significa che le due cose siano mutualmente esclusive, non c’entrano proprio niente. Ad esempio, la SIAE olandese lavora con brani in Creative Commons, come anche quella degli USA. Quindi questa è semplicemente una stupida regola della SIAE. Ma fine, stop, non sono alternative. Se qualcuno mi dice: “Io metto insieme tutti i brani in Creative Commons per creare un’alternativa alla SIAE”, questo qualcuno non sa di che cosa parla. Perché un brano in Creative Commons può anche essere iscritto a una collecting society in Olanda, negli Stati Uniti, in Giappone, in India… ciò significa che, di conseguenza, per gli accordi di reciprocità internazionale tra le collecting society, quel brano è automaticamente anche iscritto alla SIAE.

Ah! Quindi ci si può girare attorno!
Certo! Non solo, ma ci sono centinaia di migliaia di brani nel mondo che sono in Creative Commons e sono iscritti anche a collecting society! Prendi la prima azienda del nostro catalogo, su cinquantamila brani registrati, almeno diecimila sono licenziati sotto Creative Commons e iscritti a una collecting society. Ho sentito proprio l’altro giorno qualcuno che diceva “Facciamo l’alternativa alla SIAE con i brani in Creative Commons”. Questo significa avere un punto di vista ristretto alla realtà locale di, boh, la provincia di Milano. A livello internazionale si possono fare cose molto più interessanti. Ci fa sempre molto ridere questa finta contrapposizione tra Creative Commons e collecting society. È uno strumento che io apprezzo e sono stato tra i primi a utilizzarlo, però non c’è niente di ideologico e non è in contrapposizione con le collecting society.

Dicevi che entro il 2016 il Governo Italiano sarà obbligato a recepire la direttiva europea…
Sì, ma non significa che sarà costretto a far cadere il monopolio della SIAE. Dovrà creare una legge ad hoc che recepisca la delibera della Comunità Europea. Per assurdo, il Governo potrebbe riuscire a mantenerlo.

Però, in caso, voi siete pronti a entrare anche nel territorio italiano…
Ma noi operiamo in Italia già dal 2011! Noi abbiamo oltre cinquemila negozi che diffondono la nostra musica, tra cui alcune delle più grandi catene, abbiamo fatto 700 concerti di musica Soundreef solo negli ultimi sette mesi… Insomma, l’Italia è uno dei Paesi più importanti per noi, e di sicuro non l’abbandoniamo. Dopodiché, se il Governo fa le leggi come si deve e capisce che non può più proteggere un istituto che subisce gli attacchi della concorrenza estera, liberalizzerà il mercato italiano e consentirà a imprenditori italiani di fare quello che facciamo noi o ad aziende con sede all’estero di aprire anche una filiale in Italia. Se non lo farà, sarà una legge che non serve a niente.

In pratica si tratta solo di prendere atto del regime di concorrenza che è già presente in Europa. Voi non siete in attesa di nessuna legge, andate avanti per la vostra strada e se l’Italia vuole restare al passo, bene…
Assolutamente! Noi ormai siamo presenti in venticinque Paesi in tutto il mondo. Una delle prime cose che abbiamo pensato quando abbiamo fatto partire Soundreef, è che non volevamo far partire un’impresa che rimanesse impelagata in attesa di governi, legislazioni, ecc. Abbiamo una mentalità imprenditoriale, ci piace fare, ci divertiamo tantissimo, abbiamo un team interessante e giovane, insomma, non abbiamo voglia di romperci i coglioni con queste storie. Quindi una delle prime cose che ho studiato molto attentamente è se fosse possibile che un’istituzione pubblica ci bloccasse: e questo l’abbiamo studiato a lungo e abbiamo capito che non è possibile, quindi noi andiamo avanti. Detto questo, se i governi fanno delle leggi come si deve, noi siamo i primi a voler stabilire delle presenze locali sul territorio, che lavorano a stretto contatto con gli artisti, e via dicendo. Se questo non è possibile, va a discapito del territorio, non certo nostro.

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