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Musica

Abbiamo fatto pace con Galeffi

Siamo andati a intervistare il cantautore romano per parlare di quella volta che lo abbiamo criticato e la sua ragazza poi lo ha lasciato, ma alla fine è andato tutto bene.
Foto via Facebook.

Far apparire diverso dal vero; narrare, esporre, interpretare in modo contrario o diverso da quello giusto: questa è la definizione di travisare.

Essere travisati è una cosa fastidiosa.

Quando il 5 dicembre 2017 è uscito il mio pezzo intitolato "Galeffi fa sold out in sei giorni, e l'indie italiano dove va?", mi sono subito reso conto dalle reazioni social che moltissime persone lo avevano travisato. Il motivo, credo, è il pregiudizio: quello di chi pensa di sapere di cosa parla l'articolo senza leggerlo, solo a partire dal titolo e dalla testata che l'ha pubblicato; e quello di chi parte da una posizione molto precisa (in questo caso "l'indie è una merda") e interpreta l’articolo secondo quella chiave e coi paraocchi, esclusivamente per trovare conferma alla propria tesi, anche dove, evidentemente, questa tesi veniva tutt’altro che supportata.

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Fortunatamente c’è stata anche una minoranza (o una maggioranza silenziosa, chissà) che il pezzo l’ha capito e l’ha apprezzato per quello che era: una riflessione sul panorama della musica indipendente italiana, sul pubblico e sulle etichette. Senza attacchi particolari, ma con una certa risolutezza nell’ammonire una tendenza giudicata dannosa.

Essere travisati, dicevo, è fastidioso, ma è quasi “naturale” per un contenuto online, fa parte del gioco e non ci si può far molto, se non, al massimo, abbracciare la soluzione-Mentana e prendere di petto ogni commento fuori tema a suon di battutine sarcastiche, cosa che mi guardo bene dal fare.

Servirsi di qualcuno o di qualcosa esclusivamente come mezzo per conseguire un proprio particolare fine, non dichiarato ed estraneo al carattere intrinseco di ciò di cui ci si serve: questa invece è la definizione di strumentalizzazione. Essere travisati è fastidioso, essere strumentalizzati è inaccettabile. Il 23 dicembre è uscita su XL un’intervista a Galeffi in cui si citava implicitamente ma chiaramente il mio articolo, definito “un pezzo che ultimamente ti ha tirato in ballo come pietra dello scandalo della musica indipendente italiana” e Galeffi rispondeva, tra le altre cose, che “dopo la pubblicazione del pezzo ho avuto molto sostegno ma anche persone che mi hanno scritto, su Facebook ad esempio, insultandomi”.

Quando qualche giorno fa (con troppo ritardo) ho letto questa intervista, ho capito due cose: che la strumentalizzazione delle mie parole da parte di una giornalista per creare una polemichetta e ingraziarsi l’artista che stava intervistando era patetica (Galeffi nel mio articolo era raffigurato casomai come esempio paradigmatico di un certo approccio del pubblico, non certo come una pietra dello scandalo) e che, se qualcuno aveva contattato Galeffi per insultarlo dopo aver letto l’articolo, si era decisamente oltrepassato il punto di non ritorno.

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Ho chiesto così al cantautore romano se aveva voglia di incontrarmi per fare una chiacchierata e chiarire alcune cose. Ha subito accettato, ed è stata l’occasione per parlare anche di questi sei mesi intensi fatti di tantissimi live, del suo nuovo singolo, del Primo Maggio, della ragazza che l’ha lasciato dopo quella famigerata serata sold-out al Monk e dei proverbiali progetti futuri.

Galeffi suonerà al circolo Magnolia di Milano domani, 25 maggio, sul palco del Mi Ami. Acquista i biglietti sul sito del festival.

Noisey: Ma quindi hai vissuto davvero così male quell’articolo?
Galeffi: Lì per lì un po’ sì, ma per una motivazione molto semplice: era il momento in cui stava uscendo il disco ed ero iper-nervoso in generale. Ma soprattutto mi sono arrivati centinaia di messaggi il cui senso era più o meno “sei la rovina dell’Italia”, e io avrei voluto rispondere: “ragà io ho scritto nove canzoni e non v’ho fatto niente, al massimo non ascoltatemi, ma non mi odiate”.

Anche perché nell’articolo l’unica cosa che può essere interpretata come negativa su di te è quando scrivo che non sei un fuoriclasse come Contessa o Calcutta, che non mi sembra un insulto: semplicemente loro hanno aperto quelle porte dove tu come altri sei passato, è un dato di fatto, né positivo né negativo.
Ma sì, io alla fine l’ho anche capito l’articolo, sono stato un giornalista e credo di sapere come si scrive un pezzo e quanto conti la testata. Noisey è una testata di “rottura”, e capisco che ci siano questo genere di contenuti. Poi, sul fatto delle porte aperte da Contessa e Calcutta si potrebbe fare una dissertation [detto alla francese, N.d.R.]. Credo che Contessa, Calcutta, Paradiso e Coez siano i quattro poli di questo mondo indie che poi indie non è più. Io ho un rispetto totale per tutti e quattro e non mi va nemmeno di fare confronti. Posso solo dire che a livello di scrittura Contessa è quello che mi piace di più e che, come amante del pop, Paradiso è il numero uno perché fa solo hit, poi si possono fare tanti ragionamenti soggettivi che lasciano il tempo che trovano. Detto questo, merito a loro che hanno aperto questa strada, ma a mio avviso si sono anche create delle combinazioni tali che lo hanno permesso, varie cose sono combaciate per far sì che loro adesso siano i “capostipiti”. Poi io, per esempio, suono da dieci anni, e magari quando ho fatto le prime canzoni non era ancora il momento.

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Alcune tracce di Scudetto, in effetti, esistono da molto prima dell’uscita effettiva del disco.
Sì, infatti questo è un mio piccolo rimpianto. Il disco esiste praticamente da tre anni, e magari se l’avessi fatto uscire prima non sarei stato catalogato o catalogabile come “copia” o cronologicamente secondo, e me la sarei da subito giocata con le stesse carte. Poi però mi dico che tutto questo sarebbe anche potuto non succedere per niente, quindi va bene così, di mestiere faccio il musicista, che era il mio sogno, e prima o dopo alla fine non conta, quello che importa sono le canzoni.

Da quell’articolo scritto dopo il tuo “esordio”, il primo live del tour di Scudetto, sono passati quasi sei mesi. Sei mesi in cui sei passato da essere un esordiente a un nome spendibile per il palco del Primo Maggio, come li hai vissuti?
Sono stati mesi duri a livello personale, soprattutto da un punto di vista sentimentale. Il disco era stato concepito per la mia ex fidanzata, che dopo il Monk mi ha mollato, quindi le restanti date, più o meno 38, le ho vissute cantando quelle canzoni e pensando “ma per chi cazzo le sto cantando?”. Comunque, al di là delle lacrime, ho cercato di essere il più possibile professionale nell’approccio a tutto quello che mi stava capitando, ed è stato bellissimo per le tante persone che ho conosciuto, e per le continue prove da superare. All’inizio pensavo “chissà se mi regge la voce e se cambierò caratterialmente per il successo”. Poi la voce è andata bene, del successo me ne frega meno di prima e soprattutto la gente è venuta ai concerti. Ovviamente a Roma-Milano-Bologna c’è una certa risposta, a Carpi, con tutto il rispetto per Carpi, ce n’è un’altra, ma è giusto e sacrosanto che sia così.

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Tante date, e ormai una certa abitudine a cantare anche davanti a tanta gente, ma salire sul palco del Primo Maggio deve essere stato particolare.
Ecco se dovessi individuare un punto di svolta, forse è stato quello. I primi sei mesi non mi sembravano fondamentalmente nulla di troppo diverso rispetto alla tanta gavetta che ho fatto, la prendevo quasi come una gavetta fuori Roma. Nella line up del Primo Maggio ho letto Carmen Consoli, Gianna Nannini e poi anche il mio nome, e non mi ha lasciato indifferente. Al di là del trauma di cantare davanti a così tanta gente, che secondo me non si supera mai, l’avrà avuto anche Carmen Consoli, lì ho capito che ora sta a me. Nel senso che ho davvero realizzato che se voglio continuare a fare questo lavoro devo giocarmi le mie carte, altrimenti tornerò a portare le pizze come un anno fa, che reputo comunque una cosa più che degna.

E di palchi importanti ne calcherai a breve altri due, il 25 maggio al Mi Ami a Milano e poi quest’estate allo Sziget.
Lo Sziget lo prenderò quasi come una vacanza, il fatto che la stragrande maggioranza delle persone non conoscerà la lingua mi permetterà di stare più tranquillo. Ho intenzione di andare per divertirmi molto, credo che riuscirò anche a sentire gente che mi piace un sacco come Liam Gallagher e Asaf Avidan. Per quanto riguarda il Mi Ami invece sono molto gasato. Sono sincero: così come sono critico con me stesso, lo sono anche con gli altri cantanti, ma un sacco di artisti presenti il 25 mi piacciono molto. Con i Coma_Cose ci sto in fissa, Willie Peyote mi piace tanto, e anche Cosmo e Frah Quintale li ascolto. Oltretutto al Mi Ami faremo la nuova canzone, e spero che verrà bene perché abbiamo avuto poco tempo per provarla.

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A proposito: "Uffa", il singolo appena uscito, significa che è in preparazione un nuovo album o è una canzone che avevi pronta?
No, un disco nuovo no. Cioè, non ancora. Spero di farne un altro e molto dipenderà da come andranno i prossimi pezzi, ma credo che non se ne parlerà prima di almeno un anno. Come dicevo, Scudetto l’ho scritto ormai molto tempo fa, quindi nel frattempo ho avuto modo di buttare giù altre cose, alcune le ho date a qualcun altro, altre le ho cancellate perché non mi piacevano, altre ancora, tre o quattro, sono li in un angolo che aspettano. Questa canzone, che originariamente si chiamava "Amore un corno" ma che poi abbiamo deciso di chiamare "Uffa", è una di quelle. Ho scelto proprio lei perché mi sembrava quella con un messaggio un po’ più rivoluzionario dopo tutti i discorsi sentimentali del disco, parla di tradimento, o comunque di una storia alla fine, e ho pensato che uscire con questa canzone fosse un giusto passo nel mio percorso.

Ho letto che le primissime canzoni che hai scritto erano pezzi rap, visto che adesso è quasi una tendenza consolidata fare delle collaborazioni con cantanti rap, credi possa succedere in futuro?
Perché no, escluderlo non avrebbe senso. Per esempio, mi piacciono molto Fabri Fibra e Ghali. Ma devo dire che in generale, a parte il metal, che detesto, mi piacciono tantissimi generi musicali. Da ascoltare prediligo roba britannica: Beatles, Stones, Oasis, Coldplay eccetera. Da cantare, e questo credo sia buffo, farei solo canzoni blues: Amy Winehouse, Etta James, Sam Cooke, Paolo Nutini, Ray Charles. Tutti questi nomi e poi, quando mi metto al piano mi escono questa canzoncine del cazzo [ride], super pop, ma secondo me fa tutto parte di un percorso di crescita costante, un gradino alla volta. In questo il mio idolo Cesare Cremonini è un maestro, ha avuto un’evoluzione pazzesca, ma vabbè, con lui stiamo parlando di un fenomeno.

Ultima cosa, ho notato che non citi mai la tua esperienza a The Voice, mi dici un po’ come è stato passare dal tritacarne del talent?
Ho firmato l’accordo con la Rai che avevo 21 anni, quando ho intravisto la possibilità di poter fare un disco, mi ci sono buttato con entusiasmo e foga. Pensavo di non superare nemmeno le blind auditions, e invece mi hanno preso. La verità però è che non era il periodo giusto. Dopo una settimana ho capito che non era il mio mondo, ho parlato con Piero Pelù rivelandogli che non ero a mio agio. Ho fatto due puntate e praticamente è come non averlo fatto, infatti nella mia testa l’ho un po’ rimosso. È stata comunque un’esperienza che m’è servita, perché dopo mi sono preso il mio tempo, ho sciolto la band con la quale cantavo, per tornare sul palco avevo bisogno di sentirmi credibile prima di tutto a me stesso, e così non era. Allora ho iniziato a fare il giornalista, poi quando ho preso il tesserino ho capito che non era quello che volevo fare, ho ricominciato a scrivere canzoni, le ho fatte sentire a qualche amico, e adesso eccoci qui.

Alessio scrive di cinema e musica, puoi seguirlo su Instagram.

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