Un pomeriggio con Carl Brave in via Libetta
Fotografia di Alessandro Treves.

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Musica

Un pomeriggio con Carl Brave in via Libetta

Dove non abbiamo rubato un casco a caso ma ci siamo presi un gin tonic sotto la pioggia e io ho nascosto le lacrime parlando del suo cane che non c'è più.

Mi trovo in via Libetta, a Roma, quartiere Ostiense. Sono nella capitale per intervistare Wolfgang Flür, storico percussionista dei Kraftwerk, in un posto che si chiama Circolo degli Illuminati per un festival che si chiama Synth Day & Night. Ha appena piovuto un sacco. Carl Brave ha addosso un cappottone tutto largo e un cappuccio che gli copre la testa. Conosce il Circolo, ci è stato "ma in ambito discoteca, a ballare". Credeva che di giorno via Libetta fosse chiusa, scherza. E poi mi conferma la veridicità delle sue parole in Polaroid: "Su un cinquantino vado in fretta / Stacco un casco a caso a un sottosella a via Libetta". "L'ho inculato davvero! Solo roba vera".

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Su un muro in via Libetta c'è una scritta a bomboletta che dichiara "HIPSTER DI MERDA PIÙ PALLE MENO BAFFI": arraffare un casco proprio lì è una scelta abbastanza ardita, direi. Ma Carl è sopravvissuto per raccontarcelo, affiancandolo a una boccia in mano, un cellulare perso, una chiave rotta, delle Jeffrey Campbell ai piedi di una lei. Della sua scrittura per immagini, affiancata a quella di Franco126, si è detto già un sacco: le loro sono immagini di gioventù, libere giustapposizioni, scorribande notturne, piccoli taglietti, il tutto imbevuto di un adorabile senso di sfiga e disagio ma col sorriso, di un'emotività candida.

L'esito della pubblicazione delle loro prime Polaroid non poteva che essere, sul lungo termine, la serie di sold out della scorsa estate che ha decretato il loro successo. Carl e Franco hanno fatto per Roma la stessa cosa che I Cani avevano fatto qualche anno fa, l'hanno cioè resa teatro di un immaginario e una modalità d'espressione che sono sembrati in qualche modo generazionali. Mi sembra che Notti Brave, il nuovo album solista di Carlo, prosegua il discorso che ha iniziato in Polaroid allargando leggermente la sua area di influenza geografica: parla di amori più o meno falliti, di birrette e boccioni, di vacanze e di mare. Non solo a Trastevere e Testaccio ma anche al Parco Gondar di Gallipoli, per dire.

I momenti più interessanti di Notti Brave sono quelli in cui le immagini che Carlo accumula si aggregano in piccole narrazioni. Uno è "Professorè", ritorno a quei banchi di scuola in cui scriveva rap per le pischelle sapendo che se i suoi compagni lo fossero venuti a sapere gli avrebbero dato del frocio. L'altro è "Accuccia", ricordo di un cane scomparso per una cazzata, momento più intimo della sua espressione testuale finora. Ci siamo messi a un tavolino fradicio di pioggia a parlarne, cominciando da una sorta di People Versus dal vivo.

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Noisey: Ieri sera stavo ascoltando l’album con un amico e a un certo punto mi fa, “Ma c’è Fibra?” E io, “Sì, e anche Francesca Michielin!” E lui, “Ah, je piacciono i sordi eh?”
Carl Brave: Ni! Chiaro che mi piacciono i soldi, ma ho chiesto i featuring solo ad artisti che mi piacciono davvero. Zero, zero, ero un trapper se volevo i soldi. Giravo con le collane. E il Rolex, dato che siamo in un periodo in cui se ne parla?
Ce l'ho sulla caviglia! Non te lo faccio vedere, sennò ho paura che me la tagliano!

Ho apprezzato molto Giorgio Poi come ritornellaro in "Camel Blu". Per me è un potenziale pezzo dell'estate.
Sì, è un pezzo galoppante. Per lui è stata una sfida, lui non ha mai fatto roba del genere. Ha un background diverso dal mio, e questa roba qua sa davvero di vintage. È un chitarrista clamoroso. Tu che ne pensi della pratica "pezzo dell'estate", ora che sei arrivato a un livello in cui puoi legittimamente considerarti abbastanza famoso da poterne fare uno?
Certo, ora che ci posso provare. Ma inteso come la commercialata facilona non mi piace. Inteso come pezzo estivo che può andare ma serio, che non sia una cazzata mezza reggaeton - che poi c'ho messo pure io il reggaeton, nel pezzo con Coez! Però sto nell'ottica, mi piacerebbe che uno dei pezzi del disco diventasse pezzo dell'estate. E come si fa secondo te a farne uno?
Parere mio, il pezzo dell'estate è un pezzo che già si sa com'è strutturato. È il pezzo alla Fedez e J-Ax, ha delle regole scritte che segui per comporlo. Il ritornello apertone… ci stanno gli autori che sanno che cosa devono fare. A me questa cosa non piace tanto, seguire le regole della musica. Io sono un po' per fare il cazzo che mi pare affacciandomi a quella cosa, sapendo che ci sono delle regole ma senza esserne schiavo. Un'altra domanda che mi sono fatto è: il fatto che ci siano due artisti di Carosello, Emis Killa e Federica Abbate, significa qualcosa?
No, zero! Emis Killa l'ho conosciuto per caso, siamo diventati amici, mi ha invitato al suo compleanno… m'ha scritto "Grande fra, mi piacciono le canzoni tue!" Io ho risposto normalmente, c'era stima artistica e poi ci siamo trovati a livello umano. Federica Abbate invece nasce come autrice, è un fenomeno. Adesso sta uscendo con i suoi pezzi ed è una di quelle che scrivono i pezzi dell'estate! È suo compito fare le hit, e da lei ho imparato a capire quella situazione là.

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Tu hai già fatto l'autore per altri interpreti?
Sì, abbiamo fatto una cosa che non è ancora uscita. Mi sta prendendo bene, devi scrivere in un'altra ottica. Devi studiare la persona a cui vuoi dare il pezzo, e se poi non va la casa discografica cerca altri per cui quel sound possa essere adatto… ma io lo faccio per una singola persona. Che poi in realtà non devi conoscere tanto lui, devi conoscere il suo autore! Dando la tua cosa, la Polaroid della situazione. La maggior parte di chi sta al top ha un autore, scrive qualche canzone e basta.

Ascoltando Enemy di Noyz, in cui parla dell’aver lasciato Roma, mi sono chiesto come e quando e se ti troverai a rendere Roma una parte minore della tua poetica.
Non si può mollare questa cosa di Roma. Anche andando a Milano due anni, a Berlino, la romanità mi è rimasta. Non te se stacca. Mò volevo fare un nuovo disco mio in un altro paese, e ho difficoltà a scegliere. La mia scrittura è una descrizione del mondo che mi circonda, quindi è una scelta difficile. Ho pensato alla Grecia, che comunque è un contesto mediterraneo. O l'India, che non c'entra un cazzo, e direi cose diverse. Ma Roma è unica, non si può raccontare da fuori. A me resta, ho i miei ricordi e me li gioco. Allontanandomi cambierebbero tanto sia la mia poetica che il mio sound.

Mi chiedo se man mano che diventerai più grande la romanità andrà a definirti o sarà una cosa che dovrai smussare per raggiungere più persone.
Mi definirà. Io Roma non la lascio, è il punto focale della musica mia.

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Fotografia di Alessandro Treves.

“Professorè” la mette sull’adolescenza, quindi vorrei che mi parlassi proprio di quegli anni. Del modo in cui hai vissuto l’arte, la musica e le relazioni negli anni del liceo.
All'amore sono arrivato un po' tardi, a 17 anni più o meno. Per anni sono stato in fissa greve con le pischelle, ma facevo il giocatore di basket e avevo pochissimo tempo libero. Sono arrivato a tutto dopo. Ho sempre fatto rap, era la mia arte. Cominciai a fare le canzoni per le pischelle tenendole un po' nascoste, perché ti mettevano in mezzo, ti gridavano, "Sei frocio!" Ai pischelli quella cosa, di sentimento, non piaceva. Le basi ho cominciato a farle a 21 anni, tardissimo. Prima facevo solo parole.

Ascoltavi solo rap? Mai altri artisti italiani? Niente indie?
Non me li sentivo, no. Non ho mai avuto un trip indie, [io e Franco] siamo stati catapultati nell'indie. Non è una cosa pensata o voluta. Non ho mai sentito indie, a parte I Cani, di cui ero mega fan. È una cosa che senti, se sei di Roma. "I pariolini di 18 anni"? Sgravata! A una certa poi sono passato all'elettronica, alla techno pesante, a Berlino.

Ma prima ti sei fatto un paio d'anni a Milano, dove hai studiato al SAE Institute. Mi racconti quel periodo della tua vita?
Comincia tutto quando smetto di giocare a basket, che era il mio lavoro. Giocavo in serie B. Eravamo andati in finale di serie B2, la perdemmo, il mio agente mi disse, "Adesso vai in C1 a Benevento". A me non andava di vivere così, non mi piace stare al paese. Quindi ho deciso di smettere. È stata la mia follia, se vogliamo. Tra gli 11 e i 22 anni ho solamente giocato a basket, non ho fatto altro. E allora mi sono reinventato, volevo essere musicista. Sono andato a fare 'sta scuola e a convivere con la mia pischella. Tutto bene, finché non ci lasciamo. Ho affrontato un periodo molto difficile in cui ho scritto un sacco, mi sono chiuso a fare questa cosa. E ho avuto la fortuna di avere un maestro, Marcello Ruggiu, che mi ha aperto un mondo. Mi ha indirizzato, ha creato il mio stile fatto di tante piccole cose incastrate. Come maestro Verdone, con Mario Brega, la spada de foco! Così. Da là è partita questa grande passione.

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In “Parco Gondar" dici “S’è ritirato Totti / Son quasi 28”. Come stai gestendo l'età che avanza?
Dipende, vado a momenti. In realtà non mi sento un'età. Con la testa sono rimasto a prima, vedo questi pischelli di 21, 22 anni e a guardarli così mi sembrano tutti dell'età mia. A volte ci penso, dico "Cazzo, ho 28 anni", ricordo tutto il cazzo che ho fatto e mi rendo conto che ho cominciato dopo a fare questa vita.

Ti cito il ritornello di "Chapeau": “Tu che c’hai la forza di rifarti la vita da zero, io no”. Stai parlando di una relazione finita?
Rifarsi la vita dopo essersi lasciato! Io ho difficoltà, mi attacco molto alle persone. Sia che siano amici che siano partner. Soffro tantissimo la rottura. Sono una persona mega sensibile! Nei testi si vede, lo riesco a dire, ma nella vita reale non sembrerebbe. Sono dall'innamoramento facile, disinnamoramento dopo cinque giorni, e se passo quella soglia penso, "Mi sposo!" Come dico nel testo, ero sicuro di voler stare con quella persona per tutta la cazzo de vita, e invece.

“Accuccia” è il pezzo più diverso dell'album, forse quello che ho trovato più interessante. “Te ne sei andato via per una zanzara / Ma una zozzona la pagherà cara”. “Ho pianto lacrime amare / Era solo un cane, il mio cane / A volte ti sento abbaiare / Che vita da cani”. Anche a livello musicale è strana, tutta tranquillina con un arpeggio e poco altro.
Anche per me è la più bella del disco. L'ho voluta fare un po' stornellata per dare spazio al testo, che è la cosa importante. È un po' la storia di tutti quelli che hanno avuto un cane che è morto. Tu a una certa lo vedi come parte della famiglia, non sapete quanto ho pianto. Come mi madre! Quindi ho raccontato la sua vita, che è un po' quella di tutti i cani. Lui è morto di leishmaniosi, punto da una zanzara. Noi non abbiamo più avuto un cane da allora, non vogliamo la pezza.

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L'intervista è quasi finita, quando hai finito di leggerla torna su e leggi anche:


Come hai vissuto i concerti di fine agosto 2017, da cui era palese che eravate diventati enormi? Io venni a vedervi al Magnolia, a Milano, e c'erano così tante macchine parcheggiate che pareva di stare al MI AMI.
Eh, benissimo! Da lì è cambiato tutto. Ma [sono rimasto] quadrato. Non mi sono presi schizzi da fenomeno. Sono molto sicuro di me sulla musica, quando faccio una cosa se non mi piace la butto. Penso di avere un gusto che in questo preciso momento della storia assomigli a quello di molte persone. Parlo di cose che tutti fanno, e questo mi rende sicurissimo. Non mi è arrivata una botta, non mi sono montato la testa, non ho fatto il pazzo. Più che altro questo botto mi ha portato ad ampliarmi musicalmente. Ho potuto fare il feat con Fibra, con Noyz, con Frah Quintale. Mi ha spronato. Questo disco è diverso da Polaroid, è molto da produttore. Ci sono altri suoni, altre cose. Io sono uno che vuole fare sempre meglio e non si accontenta. Già dai tempi del basket.

Il basket ti da un senso di disciplina immenso, immagino.
Non sai tu il basket quanto cazzo mi ha dato. Che ti dice? Che ti devi allenare tutti i giorni, due volte al giorno. Quindi ora cosa faccio? Lavoro su una base tutti i giorni. Mò mi sto godendo un attimo di pausa, però pure con questo disco non mi sono fermato mai. Ogni giorno dovevo fare qualcosa. Nel basket puoi vincere all'ultimo. Stai dieci sotto, manca un minuto e puoi vincere. Sembra una pazzia, ma è la stessa cosa. È il lavoro più bello del mondo, è vero, ma se lavori ce la fai. Questa è la cosa. Io non sapevo fare un cazzo, mi sono chiuso anni e anni ad allenarmi. Piano piano conosci quello, capisci il mondo, ti arrivano influenze. Sono un nerd, io! Ma adesso farete anche un album collettivo dei 126 prodotto da Drone?
Sì, ma non so se ci sarò anch'io. In questo momento sto pijato bene! Io riesco a fare i testi in base a come cazzo mi sento. Se mi va tutto bene non lo posso fare, lo scuro. E la presa bene messa in musica, in un'epoca di auto-flagellamento, è una delle chiavi del tuo, vostro successo.
Quello è il sentimento romano! Un po' menefreghista, tutto "daje, famo, va tutto bene". Il romano non ci pensa e ci ripensa, il romano è aperto. Ora che hai nel curriculum featuring con rapper del calibro di Noyz Narcos, Fabri Fibra e Gemitaiz, mi puoi spiegare un attimo com'è stato scrivere con loro e per loro?
È stata una sfida, far capire a uno dei tuoi miti giovanili che sei forte, che ce stai. Hai una specie di orgoglio, vuoi dirgli "vali come me". Noyz è arrivato lui a contattarmi. Noyz e Fibra li ascoltavo tutti i giorni in motorino andando e tornando da scuola, sono i miei idoli. Fibra di persona è un grande, mi avevano detto di stare attento, che era pazzo… io ci sono andato impanicatissimo! Ti giuro, incontro Fibra e gli allungo la mano facendomi piccolo. Lui mi ha abbracciato, ha visto che stavo in difficoltà, 'amo detto due cazzate e ci siamo aperti. Gemitaiz invece l'ho conosciuto a Berlino! Era venuto a casa mia a farsi una vacanza. Stavo a casa di Drone e lui mi inculò un calzino di marca, che io non so dove avevo inculato! Su questa splendida nota direi che possiamo fermarci. Grazie Carlo!

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