bon iver

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Musica

Allora, com'è il nuovo album di Bon Iver?

È bello, davvero. Ma prima bisogna capire perché lo percepiamo come un cantautorino del cazzo.

Bon Iver suonerà il 17 luglio 2019 al Castello Scaligero di Villafranca di Verona, i biglietti sono in vendita.

Non credo che Justin Vernon si sarebbe mai potuto aspettare, mentre registrava i pezzi che sarebbero diventati For Emma, Forever Ago, di diventare quello che è oggi. Non poteva certo immaginare quanto le linee di demarcazione tra generi si sarebbero fatte labili, né il modo in cui i media musicali americani si sarebbero scrollati di dosso l'etichetta di "alternativi" inaugurando l'era del poptimism. Era solo un tizio barbuto come un altro, con il cuore spezzato come un altro, con una chitarra acustica come un'altra. Però, aveva una storia interessante━il che, in un mercato saturato come quello contemporaneo, è una componente fondamentale per essere effettivamente considerati su scala medio-larga. Father John Misty piace perché scrive belle canzoni ma è anche uno strambone, i National piacciono perché scrivono belle canzoni ma sono anche una personificazione della gavetta insita nel sogno americano, Car Seat Headrest piace perché scrive belle canzoni ma ha tutta la storia dei dischi su Bandcamp e della queerness, e così via. Lui, aveva quattro mesi passati in uno stanzino in Wisconsin a scrivere canzoni al freddo. E poi, certo, le canzoni. "Flume" aveva una qualità ritmica cullante e una linea vocale che introduceva immediatamente l'ascoltatore al suo vocabolario astruso, tutto allitterazioni ("lapping lakes like leery loons") e termini particolari (già solo il "flume" del titolo, che sta a indicare un canale artificiale usato per trasportare pezzi di legno). "re: Stacks" era un gioiellino di quiete acustica━da un lato la metafora + l'abbandono di una costruzione tradizionale della frase ("This my excavation and today is Qumran", riferimento al luogo di ritrovamento dei Manoscritti del Mar Morto e quindi di un punto di svolta nella storia della religione e, in metafora, nella vita della voce narrante); dall'altro, la pura gioia del gioco melodico e testuale, in un ritornello abbellito da una piccolissima melodia di chitarra quasi soffocata dagli accordi-base del brano e dalle minuscole variazioni dei versi attorno a "back", "rack" e "stack".

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E poi c'era, e c'è ancora, "Skinny Love": il suo pezzo più accessibile, e quindi il più conosciuto. Quello che lo ha cementato come cantautorino indi e quindi lo ha fatto odiare a un sacco di gente per l'aura nazionalpopolare che ha acquisito. "Skinny Love" è il pezzo che la vostra amica figa impara con l'ukulele. "Skinny Love" è la canzone che chi si definisce "alternativo" dedica alla propria ragazza/o senza sapere che cosa dice il testo. "Skinny Love" è ormai la cover alla saccarina fatta da tale Birdy, che viene fuori prima dell'originale quando la cerchi su Google. Ma "Skinny Love" è, semplicemente, una gran canzone d'amore: universale, con un testo tutto tranne che banale ("Suckle on the hope in light brassiere" e "Staring at the sink of blood and crushed veneer" mica sono "I belong to you, you belong to me, you're my sweetheart") e con un impeccabile crescendo emotivo/interpretativo sul "And then who the hell was I?" Poi, certo, c'è a chi quel modo di fare il cantautore fa cagare━e allora Vernon va a rappresentare un certo modo melenso e finto-poetico di espressione cantautorale che ci fa scendere i coglioni a terra. Ma sono discorsi altamente soggettivi: così come c'è chi, a quasi trent'anni e nel 2016, condivide le frasi di Vasco Brondi su Facebook, c'è chi si è reso conto che quel-modo-di-esprimersi e buttare fuori sentimenti appropriandosi delle parole di altri non fa per lui o lei. Il che, mia personalissima opinione, è un approccio che semplifica enormemente e in maniera deleteria i numerosi livelli di significato che la scrittura di Vernon presenta: così come Illinois di Sufjan Stevens non era solo le trombette e le enumerazioni esaltate ("Peoria! Destroy-ia!") e le ali di farfalla sulle spalle della sua band di allora ma anche un'esplorazione autobiografica, un caleidoscopio sonoro di intermezzi, una dichiarazione d'amore per una terra.

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Poi, arrivò la proverbiale chiamata della vita: quella di Kanye West, che aveva sentito For Emma tramite un suo collaboratore e aveva scritto un pezzo basato su un campione di "Woods"━quello che sarebbe diventato "Lost in the World", pezzo di quasi-chiusura del capolavoro che fu My Beautiful Dark Twisted Fantasy. "Mi piace il fatto che canti senza paura", gli disse Yeezy al telefono, "Non te ne frega niente di come suona la tua voce. Sarebbe figo se venissi da me alle Hawaii a sentire il pezzo, possiamo anche lavorare su un altro paio di cose." Vernon, ovviamente, partì subito. MBDTF era un album massimalista, prima vera espressione del Kanye-cervello circondato da produttori, strumentisti, cantanti ed MC uniti dall'intento comune di scrivere qualcosa di grosso che soddisfacesse le ambizioni di Ye. E Justin, con le sue stratificazioni vocali e il suo assurdo falsetto, si sposava perfettamente con l'approccio compositivo di Kanye (basato per gran parte sulla voce come strumento, come ha spiegato benissimo Vox in questo video).

Bon Iver, Bon Iver fu il frutto di tutte le lezioni che Vernon aveva imparato da zio Kanye: pensa sempre in grosso, non avere paura di sembrare pretenzioso, dì quello che cazzo ti passa per la testa, credici tu e ci crederanno anche gli altri. E allora via di voci pitchate, percussioni maestose, fiati suonati da Colin Stetson, due batterie, tastieroni e così via. C'erano la maestosità introduttiva di "Perth", la dolcezza di "Holocene", l'amarcord universitario di "Towers", quella ballatona storta con l'autotune di "Beth / Rest"━e tutta una serie di stramberie liriche a metà tra intelligibilità e volo pindarico, un modo di fare musica lontano dalla tradizione cantautorale ma a essa aderente. In altre parole: come tanti, come sempre, Vernon scrive canzoni che parlano dell'esperienza umana tra amore, amicizia e vissuto: ma vagamente d'amore, d'amicizia e vissuto. Dipingeva un'America disconnessa e spirituale, in cui il Minnesota è in Wisconsin e la Gehenna è in Texas, usando coerentemente un linguaggio ai limiti della correttezza grammaticale. Alla fine, anche con l'assenza di una effettiva seconda hit abbastanza semplice da far bagnare le masse, Vernon si è stabilito come qualcosa-di-diverso-dal-resto, soprattutto a livello di scrittura. Il che, data la nostra abilità con l'inglese, non fa tanto la differenza: in fondo, è una lingua che cantiamo male e capiamo male, perdendoci per strada paccate di significati. E allora il rischio, e realtà, è che Bon Iver venga messo nella stessa risma dei gruppi simil-folk-elettronici coi testi scritti col generatore automatico di sentimenti malinconici: i Daughter o Ben Howard, per dirne due. Questo, senza entrare nella questione one hit wonder alternative propinate come headliner rivelazione con un cazzo di solo album fuori e un cazzo di solo singolo di successo (ciao Hozier, George Ezra, Strumbellas, Lumineers, Vance Joy, Tom Odell, Clean Bandit). Insomma, roba che vorrebbe rivolgersi a pubblici come quelli di Vernon pescandone solo le parti interessate alla musica meno come forma culturale e più come svago e/o campionario di frasi da usare per descrivere i propri sentimenti su internet. E non c'è niente di male di per sé nella cosa, eh━sono scelte.

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Coccateli 'sti Grammy, Justin! (foto di Kevork Djansezian) Bon Iver, Bon Iver fu anche il classico disco che diventa di estremo successo senza avere di per sé alcuna qualità strettamente commerciabile: come dimostra la fotografia qua sopra, nel 2012 Justin si portò a casa due Grammy: quello per il miglior album alternativo e quello per il miglior nuovo artista. Era il potere della spinta di Kanye, che aveva traslato dai media alternativi a quelli mainstream e alla classe dirigente dell'industria discografica americana l'attenzione su Vernon, senza però snaturare la sua (che parolaccia, ma di questo si tratta) credibilità indipendente.

Certo, non che con quella vittoria Vernon si sia affermato come un nome veramente popolare negli States: le masse continuano a non sapere chi minchia sia, e sul momento scattò inesorabile il meme "Bonny Bear" nato dai tweet della gente che si lamentava di quel tizio barbuto che era venuto a interrompere la loro cerimonia di premiazione preferita. Ma d'altro canto la stessa cosa era successa l'anno prima con gli Arcade Fire: come ha scritto Vulture, il "Chi cazzo è questo?" è una cifra stilistica della contemporaneità, in cui ognuno è convinto che il suo piccolo centro di verità sia corretto e meritevole di essere riconosciuto come tale dalle masse informi di internet.

E arriviamo a 22, a Million: il nuovo album che Vernon ha annunciato a sorpresa suonandolo interamente dal vivo all'Eaux Claires Music Festival da lui organizzato in Wisconsin assieme all'amico Aaron Dessner, chitarrista dei National. In un contesto in cui il nuovo standard dell'uscita discografica "grossa" è la sorpresa e/o lo streaming esclusivo su una piattaforma, Vernon ha scelto di affidarsi semplicemente alla resa dal vivo dell'album━il che è piuttosto meritevole, data la natura decisamente complessa dell'LP rispetto ai suoi due predecessori. All'uscita della tracklist e dei primi due brani del disco, le opinioni generali sono state "Che titoli assurdi e fini a sé stessi" e "Cazzo, questo sarà il suo Kid A." D'altro canto, a sentire "22 (OVER S∞∞N)" e "10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠" erano entrambe opinioni comprensibili. La prima è costituita da una costruzione di granulosi sample vocali sui quali Vernon appoggia tre strofe d'atmosfera, la chitarra e il sassofono a fare capolino, timidi, tra una e l'altra; la seconda è portata avanti da un beat elettronico glitchato, interrotto da un sample di Stevie Nicks che grida "Wild heart!"━la voce di Vernon, pesantemente effettata e autotunata, a riconfermare l'approccio voce-come-strumento mutuato da Kanye West. Insomma: basta alla predominanza di chitarre e arrangiamenti orchestrali; spazio a un sacco di tastiere, suoni strani, sample e così via. "È stato un po' come quando vuoi un po' spaccare le cose, romperle per guardare cosa c'è dentro", ha dichiarato Vernon in una conferenza stampa in cui ha parlato dell'album a una selezione di giornalisti. Nel prodotto finito sono molti i momenti in cui il tessuto musicale si strappa, ma gentilmente: se Yeezus era impeto distruttore 22, A Million è continua sorpresa, una sorta di wunderkammer musicale da esplorare per via auditiva. Se da un cantautore ci aspettiamo, tradizionalmente, un disco di musica e parole lineare e narrativo, Vernon rovescia la prospettiva premendo l'acceleratore sulle qualità più strane che permeavano i suoi lavori precedenti a livello lirico, sonoro e visuale offrendoci sì una finestra sulla sua interiorità: ma incrinata, di vetro sfumato. Dopo tre minuti e mezzo, "29 #Strafford APTS" viene colta da un crepitio, una smagnetizzazione immaginaria del nastro digitale su cui è stata registrata: per un attimo, la ballata acustica che è si fa sfocata, ruvida, incerta.

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"10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠" è particolarmente significativa, in quest'ottica: il lyric video ufficiale con cui Vernon la presenta è, oserei dire, pienamente post-internet. Un mouse ideale muove lo schermo a mostrare il testo del pezzo, intervallandolo con dei caratteri strambi come se fossimo di fronte a un testo in Wingdings. Insomma, tutto tranne che il solito, noioso reel di parole presentate a ritmo sullo schermo con animazioni degne di PowerPoint 2003. Il testo, coerentemente, è affascinante nella sua frammentarietà: nel momento in cui tutto si ferma e, dal nulla, il vocione di Vernon se ne esce con un "FUCKIFIED" pesantemente autotunato, che è una parola che non esiste, viene difficile non avere una reazione: che sia una risata, che sia esaltazione, che sia curiosità, già solo il fatto di inserire momenti così spiazzanti nei propri pezzi è segno di consapevolezza. E poi di una forte identità autoriale che, se percepita, toglie automaticamente Vernon dal calderone dei cantautorini melensi tuttiuguali. Questa volontà di uscire da logiche di intelligibilità perfetta, anche se già presenti nelle sue cose passate, sono chiaramente dichiarate in 22, A Million: Vernon stesso ha dichiarato di essere stato, a questo giro, debitore dello stile di scrittura di Richard Buckner: "I testi possono essere più fluidi, più impressionisti. Mi sono trovato a cadere in una terra sconosciuta, o in un sogno, o a sospendere la mia incredulità sempre più ascoltando i suoi testi. Ad ascoltare il loro suono e scoprire il loro significato solo in un secondo momento. Mi ha dato il coraggio di scrivere con questo approccio." Nelle sue parole, in "666 ʇ": "No, non so quale sia il sentiero / Di qualsiasi essenza io abbia accumulato / Lunghe linee di domande." E se ci sono domande e non risposte allora ha senso scrivere in questo modo, non proclamare verità ma navigare nel senso e nelle impressioni.

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C'è poi una divisione sonora, all'interno del disco: i brani del lato B sono più rilassati a livello sonoro, ma non per questo automaticamente più accessibili (ad eccezione della conclusiva "00000 Million", una sorta di nuova "Beth / Rest" più scarna e corale ma ugualmente emozionante, uno di quei pezzi che entrano di diritto nella categoria "lentoni da fine album e concerto" di cui fa parte, tipo, "Vanderlyle Crybaby Geeks" dei suoi amici National). "____45_____", su tutte, esprime pienamente questo nuovo Vernon: suonata su uno strumento inventato da zero assieme a una serie di collaboratori, è fatta da fiati folli e soffici accordi di tastiera su cui viene scandito un mantra semi-nonsense ("Sono stato rimasto bloccato nel fuoco, che cosa arriva prima di?"). E un banjo, a caso, a chiudere il brano. Ma anche "21 M♢♢N WATER" si apre con una voce al contrario, prosegue verso un ambient punzecchiato da interventi sonori in secondo piano, e anche qua una ripetizione ai limiti del senso semi-ossessiva: "La matematica che aspetta, la matematica lasciata dietro / È acqua lunare (La lascerò entrare in me)".

Gridare al capolavoro è precoce, e non è quello che volevo fare con questo articolo. Ma incensare un disco appena uscito è sempre rischioso: solo con un po' di tempo possiamo davvero renderci conto se gli album da otto, nove, dieci che ascoltiamo oggi resisteranno al passare degli anni. C'è da dire che, per una congiunzione astrale che ha messo Vernon al posto giusto nel momento giusto per farsi notare dalle persone giuste, quando parleremo della musica dei nostri anni passeremo anche per i suoi dischi. E quindi penso sia giusto farsene un'opinione, ascoltarli e non sminuirli come il prodotto di un tizio barbuto con l'acustica come un altro. Perché ormai Vernon è sempre stato molto più di quello, ma rischiamo di non rendercene davvero conto. 22, A Million esce oggi per Jagjaguwar.
Tutte le fotografie sono di Cameron Wittig e Crystal Quinn. Elia ha studiato numerologia per scrivere questo pezzo. Seguilo su Twitter.
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