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vita vera

Meno Paz più Tex

Andrea Pazienza: fumettista geniale o fenomeno mainstream simbolo del fuorisedismo?

Valerio Mattioli è un giornalista e musicista che abita a Roma, in un quartiere simile a un set di un western neorealista. Vita Vera è il suo modo di abdicare alla gloriosa tradizione della requisitoria di borgata, o, in altre parole, una rubrica in cui ci parlerà di libri, musica e un po' del cazzo che vuole. 

Un paio di settimane fa ero alla Fiera dell’Arte Contemporanea di Roma (Roma Contemporary, si chiama) e tra gli espositori c’era una galleria milanese che metteva in mostra le foto di Alberto Korda a Che Guevara, alcune tavole originali di Fabio Civitelli per Tex, e un po’ di disegni di Andrea Pazienza. Che Guevara a parte, la folla era tutta per Pazienza. Chiaramente, per me Civitelli era molto meglio, ma provate a immaginare: il Che e Pazienza assieme. Non vi dà di déjà-vu? Mancava un Rino Gaetano in sottofondo, e il quadro era completo. Suppongo capiate di cosa sto parlando.

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Voglio subito mettere in chiaro che a me Pazienza piace, o meglio piaciucchia: Zanardi è Zanardi. Perché Pippo sembra uno sballato mi ha fatto ridere tanto. Al tempo stesso, le cose su Pertini le trovo orribili. E anche tutta la roba di satira, per me è incommentabile. Probabilmente il suo fumetto che sopporto di meno è Pentothal, ma ci torno a breve. Comunque: Pazienza le sue cose le ha fatte, e ogni tanto tornarci non mi dispiace. Ma diciamo che non sottoscriverei la vulgata secondo la quale è stato il più grande fumettista italiano di tutti i tempi (magari assieme a Hugo Pratt). Non sono il solo, ci mancherebbe. Per esempio: chiunque viva fuori dall’Italia la pensa allo stesso modo, semplicemente perché Pazienza non sa nemmeno chi sia. Qualche anno fa ero a un convegno assieme a Tanino Liberatore, quello di Ranxerox (intendo i disegni; le sceneggiature erano di Stefano Tamburini): lui, che vive a Parigi, mi confermava questa assoluta italianità dell’amico Andrea, una specie di Dio In Patria la cui eco però si interrompe di qua dalle Alpi. E dire che il fumetto italiano, all’estero, è mediamente ben considerato, anche quello—diciamo così—di area pazienziana: Ranxerox, per esempio, è un classico al pari di Moebius. E sappiamo tutti che Grattachecca e Fichetto Matt Groening li ha copiati da Squeak the Mouse.

Per certi versi—o, diciamo così, dal mio punto di vista—Pazienza è stato sfortunato: appartiene a una generazione che il fumetto (italiano e non) l’ha rivoltato come un calzino, e di questa generazione lui è sempre stato un po’ la retroguardia. Prendiamo il gruppo storico di Cannibale, la rivista che di fatto lo lanciò: era stata fondata a Roma da Stefano Tamburini e Massimo Mattioli (nessuna parentela col sottoscritto), due tizi che di lì a breve avrebbero sfornato una fila di capolavori che a metterli assieme ti prende un colpo: Mattioli, oltre al già citato Squeak the Mouse, si inventò una cosa come Joe Galaxy, un’allucinante epopea pop che mescolava Liechtenstein e porno-fantascienza. Tamburini invece era più sottile ma anche più geniale: col disegno se la cavava poco, quindi—oltre ad affidare il suo Ranxerox alle matite altrui—cominciò a trafficare con fotocopiatrici, cartoncini bristol, collage e copiaincolla al limite del furto. Da fumettista si trasformò in visual designer, probabilmente il più grande che l’Italia abbia conosciuto in quegli anni, uno che nei cataloghi dovrebbe stare a fianco di Neville Brody e Rudy VanderLans. È stato Tamburini, dopotutto, a inventarsi una rivista come Frigidaire, che di Cannibale fu un po’ il proseguimento.

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A confronto dei due fondatori, la cosiddetta “colonna bolognese” di Cannibale/Frigidaire era meno “d’avanguardia” e più… fumettosa. Il che non toglie che una pagina a caso di Filippo Scozzari valga 100 volte un pallosissimo Hugo Pratt. Poi c’era appunto Pazienza, studente fuori sede originario della Puglia: il Michelangelo del gruppo (o quello era Liberatore?), il pazzo genialoide, l’estroverso dallo humor surreale a cui tutti volevano bene, ma anche quello che inorridiva quando gli altri mettevano sul giradischi i Residents e il cui disco preferito era Breakfast in America dei Supertramp perché “gli piaceva la copertina.” La sua prima opera importante fu proprio Pentothal, storia di uno studente del DAMS negli anni della contestazione: lo pubblicò che aveva 21 anni, e da lì sarebbero arrivate le collaborazioni col Male, Linus, l’inserto satirico dell’Unità, le copertine per Roberto Vecchioni, le locandine per Fellini, Corto Maltese, le aspirazioni d’artista, il tentativo di reinventarsi come pittore, l’eroina, la morte, le celebrazioni postume, Vincenzo Mollica, le retrospettive, Vincenzo Mollica, i film, Vincenzo Mollica, i documentari, Vincenzo Mollica, e poi Vincenzo Mollica, Vincenzo Mollica, e ancora Vincenzo Mollica.

La vicenda per certi versi è esemplare: un artista che dopo gli inizi underground viene travolto dal successo, diventa il portavoce di un’intera generazione, e poi muore giovane. A quel punto la sua icona viene recuperata da una prevedibile pletora di agiografi (Vincenzo Mollica) che ne rileggono/ripresentano l’opera smussando gli angoli più acuti e in qualche modo sottacendo gli aspetti tragici, scomodi o controversi dell’opera stessa. Il Pazienza che faceva vita da rockstar viziosa e che disegnava Topolino sfatto di roba diventa l’innocuo gagliardetto del fumetto d’autore buono per Il Grifo e il supplemento settimanale del Corriere. Oppure, senza tirarla troppo per le lunghe, guardatevi Paz!, il film di Renato De Maria uscito nel 2001: un estenuante concentrato di gggiovanilismo punk-yé-yé, humor da macchietta, okkupazioni e studenti sfaccendati alla ricerca di una canna (ne ho rivisto qualche spezzone su YouTube: il tipo che l’ha messo on line è lo stesso che sul suo canale colleziona video e rarità di Vasco Rossi, tra cui un imperdibile “Vasco rossi si fa una canna live Bari”).

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Quello che mi chiedo è: è stato veramente saccheggio? La lettura mollichiana del Paz è il solito tradimento mainstream? Siamo proprio sicuri che il Pazienza autentico sia in realtà irriducibile agli annacquamenti volemmosebene del Tg1? Non è che invece hanno ragione loro?

Riprendiamo per un secondo Paz!, il film. L’autore, Renato De Maria, non è un pazienziano dell’ultima ora: dell’Andreone nazionale è stato amico e compagno di strada. Il Paz insomma lo conosceva bene, e—cosa ancor più importante—vi si immedesimava. Ecco un estratto dall’intervista che all’epoca dell’uscita del film gli fece—indovinate chi?—Vincenzo Mollica:

Mollica: Andrea scriveva delle battute che erano poesia, quale ti piace di più ancora adesso?
De Maria: “Mai tornare indietro neanche per prendere la rincorsa.” Mi piace perché è un po' un manifesto di quel periodo. La battuta non viene detta da nessuno ma appare sul muro di una tavola di Pentothal, e mi ha sempre colpito molto. C'è una strada con un sole che sta spuntando e sul muro c'è questa scritta, che rappresenta… noi.

E qui si ritorna non a caso a Pentothal. Che non è il Pazienza mainstream di metà anni Ottanta, ma lo scellerato ventunenne del periodo Cannibale, praticamente il Pazienza degli esordi. Il fumetto, come detto, ricostruisce le vicende di uno studente del DAMS di Bologna in pieno '77, più o meno come il Ranxerox di Tamburini prendeva le mosse dalle tribolazioni di uno studelinquente nella Roma dello stesso anno. Il movente quindi è lo stesso, ma gli esiti sono diversissimi. Quella di Tamburini è una storia scostante, abrasiva, diciamo pure hardcore. Pentothal invece è la più classica delle opere generazionali, un po’ ironica un po’ consolatoria. Ranxerox finirà per penetrare gli immaginari più disparati: dagli ultrà della Roma (che lo elessero a vessillo) agli intellettuali della New York post-no wave. Pentothal al contrario rimarrà patrimonio e manifesto di quella stessa italianissima umanità a cui si rivolgeva il suo autore.

A tal proposito, le parole più illuminanti sono forse proprio quelle dell’altro bolognese Filippo Scozzari, che parla di Pentothal come di un’opera furba (“culo + furbizia fu sempre la ricetta di Andrea”), ammiccante, “orecchiata” o peggio ancora “un rimescolo falso e cretino”. Insomma, un fumetto fatto apposta per un certo pubblico, che respirava un certo clima e che condivideva un certo immaginario. In parole povere, una paraculata. Che il pubblico a cui il fumetto era rivolto, prevedibilmente, adorò (e adora ancora).

Pazienza quindi fu Paz dall’inizio. Voglio dire: non credo sia un caso che sia diventato una delle espressioni più rappresentative di quel misterioso fenomeno sociourbano che è il fuorisedismo, assieme a Rino Gaetano, le canne in cucina e la pasta al tonno: primo, perché Pazienza era un fuori sede anche lui. Secondo, perché da quella—uh—poetica, lui stesso aveva preso le mosse. Quando Scozzari dice che “non è quello [il Pazienza di Pentothal] l’Andrea che mi piaceva,” suggerendo implicitamente che il vero Pazienza fosse un altro, mi viene da pensare che boh, magari si era scelto il Pazienza sbagliato; e che in qualche modo Pazienza fosse destinato da subito a diventare il Paz di Mollica, di Pertini, del Grifo e dei disegnini esposti alla Fiera dell’arte di Roma. Che erano disegnini bellissimi ma tristi, inoffensivi, persino banalotti, roba che sarebbe stata bene su una Smemoranda. E che, di nuovo, letteralmente scomparivano a fianco del supremo populismo fumettaro di Civitelli, quello di Tex. Che col fumetto d’autore non c’entra niente. Ma che a Mollica piace lo stesso, figuriamoci.