Cultură

E se in fondo in fondo avessimo bisogno della censura?

In Censura subito!!!, Ian Svenonius si scaglia contro la libertà creativa—e un sacco di altre cose.
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Ian Svenonius sulla copertina di Censura Subito!!! di Nero.

A volte penso: che meraviglioso momento in cui viviamo. Perché diciamolo, in fondo non c’è era più democratica di questa, in cui ognuno può dire quello che gli pare: basta aprire Internet e scrivere la prima cosa che ti viene in mente—persino fare apologia di fascismo, e magari non ricevere ban o addirittura finire al Salone del Libro. Poi però a volte basta un nudo di Rubens o la copertina di un disco dei Led Zeppelin, e magari un social network lo rimuove perché “non in linea con le normative.”

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La gente si lamenta di questo, ma forse dovrebbe gioirne, perché potrebbe aprire finalmente una nuova strada per liberarci da catene invisibili ma evidenti. Almeno questo ci dice provocatoriamente Ian Svenonius nel suo libro Censura subito!!!, uscito da poco per Nero.

Svenonius è conosciuto dagli addetti ai lavori della musica come il leader di almeno due formazioni storiche dell’underground americano: i Nation of Ulysses e i The Make-Up. I primi dediti a un post hardcore seminale, i secondi a un garage/gospel rock. In entrambi i casi Svenonius si poneva decisamente contro lo stile di vita americano, tanto che queste due esperienze terminano proprio nel momento in cui Ian subodora aria di recupero dal sistema discografico. Continuerà con altre due band dal sapore politicizzato come i Weird War e i Chain and the Gang, nel segno di una coerenza ideologica quasi ostentata.

Ecco: probabilmente per leggere il suo libro dovremmo prima capire se questa ostentazione, alla lunga, abbia un vero fondamento o non sia solo narcisismo. Censura Subito! arriva in Italia dopo ben quattro anni, e raccoglie una serie di scritti random, basati sui flash di Svenonius che si esprime su fatti socio-politico-artistici di attualità, non disdegnando tuffi nel passato.

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La copertina del libro.

Il filo conduttore è il tentativo di rovesciare visioni condivise dai più, in maniera radicale e senza appello. D’altronde è normale che qualcuno, leggendo i suoi “appunti sul camp” e in particolare sulla pop art e Andy Wharol, incensato più o meno da chiunque poiché padrino dell’underground mondiale, si risenta vedendolo definire un molle prodotto del consumismo capitalista che dà valore artistico alla merda pura. In un certo senso è vero, e a prima botta potrebbe scattare l’applauso; alla seconda sorge però un piccolo dubbio—quello che ribaltare il punto di vista non annulla certo l’importanza del soggetto che si vuole ridimensionare, anzi.

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Per fare un altro esempio: il tema che dà il nome alla raccolta, ma contenuto soprattutto nel primo capitolo omonimo, è indubbiamente interessante. Il concetto, in soldoni, è invocare una censura che provenga dal basso, dal popolo. “Non può essere lo Stato il censore,” scrive Svenonius. "Lo Stato deve essere a sua volta censurato, insieme ai suoi vili servitori e ai suoi orridi padroni.” Qualcosa insomma che impedisca il proliferare di una libertà di parola apparente e adulatrice, in realtà dittatura della superficialità degli interessi finanziari che manipolano tutto e fanno dell’ignoranza della gente la propria bandiera, lasciandola liberamente ciarlare.

La cosa è certo stuzzicante, così come anche l’idea che l’arte di oggi per esprimersi al massimo abbia bisogno di una controparte che torni a metterle i bastoni tra le ruote, perché è solo con la vera censura che si ottiene vera arte—quella antagonista a qualsiasi autoritarismo.

Solo che, appunto, Svenonius tira fuori concetti di certo non nuovi: pensiamo a Carmelo Bene e alle sue frasi tipo “la libertà di stampa mi sta bene se è libertà dalla stampa”; oppure a Robert Darnton col suo controverso libro Censor at work, in cui dice senza mezzi termini che “liquidare la censura come cruda repressione da parte di burocrati ignoranti è sbagliato.”

Il potere è ormai alla stregua di un papà che al bastone preferisce far fare al figlio quello che vuole, finché non si fa fuori da solo. In questo Svenonius non ha torto, ma inneggiare alla censura in questo modo, così a gamba tesa, sembra più uno slogan pubblicitario atto a promuovere l’acquisto del libro che altro.

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Stessa cosa riguarda la critica ad Apple o Ikea, espressa in queste righe: “Ikea, in ultima istanza, è il giovane socio d’affari dello strapotere Apple sempre in ascesa, che vuole cancellare la storia, spogliare la gente di tutti i propri averi, riabilitare la povertà totale e lo spiazzamento cosmico come fosse qualcosa di moderno, raffinato e divertente.” In poche parole, Svenonius accusa queste aziende di produrre oggetti che sono oramai diventati lo stilema di un conformismo di costumi e pensiero asettici, che non prevedono accumulazione culturale “fisica” ma al contrario portano a una spersonalizzazione dell’essere umano che lo rende mera “materia digitale” da trattare come numero.

Ma quando leggi quelle pagine ti viene proprio da chiederti: quale sarà l’arredamento di casa Svenonius? Poiché non ci racconta nulla a proposito, forse il suo è uno sfogo contro prodotti che acquista abitualmente, oppure la ragazza l'ha lasciato perché non è riuscito a montare un armadio Ikea. E infatti sembra proprio che Ian in queste pagine sciorini anatemi ma non dia alternative ai mali che individua. Certo, probabilmente non era questo l’intento, quanto piuttosto quello di smuovere il lettore alle sue personali conclusioni attraverso la provocazione.

Conclusioni che sono poi lo stesso motore di Svenonius quando fa analisi semi-fantascientifiche di fenomeni come il twist o gli hippies in senso negativo, capovolgendo la normale ricezione liberatoria e libertaria di questi fenomeni, e a volte rasentando il complottismo. Ad esempio quando dice che “la repressione sessuale ha trovato la sua massima espressione” nei Beatles, senza però poterlo dimostrare. Le parti squisitamente storiche sono infatti il vero tallone d’Achille del libro, e meriterebbero un approfondimento documentato. Non perché non ci fidiamo dell’autore, ma semplicemente perché—se non dobbiamo credere all’hype e al sistema—è giusto avere anche gli strumenti per farlo senza il “famo a fidasse” tipico degli sproloqui dei Facebook-profeti che Ian tanto aborrisce.

La cosa bella, però, è che anche in Italia certi temi del libro sono diventati di stretta attualità: se avete seguito lo sfogo di Fedez contro i rider che lo hanno messo sulla lista dei vip che non danno la mancia, scoprirete che la sua arringa è molto simile a quella di Svenonius. Questi scrive infatti che le mance convengono al padrone, poiché quest’ultimo—mentre sottopaga i suoi dipendenti—lascia invece al cliente (per il 90 percento dei casi povero anche lui) l’onere di sfamarli. Praticamente è il povero che nutre il povero, mentre il ricco se la ride.

Alla fine, comunque, una delle grandi contraddizioni del libro è proprio il fatto che il suo autore può dire quel che cazzo gli pare a ruota libera: lui chi lo censura? In un certo senso è un cortocircuito che frigge l’apparecchio senza più farlo funzionare. Il problema è che il lettore frigge con tutto il resto e rimane un mucchio di cenere da spazzare via. Può darsi che Svenonius abbia ragione e sia proprio quello che ci meritiamo. Lasciateci però il beneficio del dubbio che questo libro sia, in finale, una beffarda pernacchia a noi creduloni, che beviamo tutto quello che ci raccontano.

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