Sono stata al concerto di Liberato con Motta

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Musica

Sono stata al concerto di Liberato con Motta

Prima del concerto e del mare di cellulari tipo Black Mirror, Motta mi ha raccontato di quando ha quasi scoperto l'identità di Liberato, ma era distratto.
Carlotta Sisti
Milan, IT

Ci sono eventi partecipando ai quali, se come me vi muovete nel mondo guidati da un irrefrenabile ottimismo, anche voi penserete di non sopravvivere, o di farlo a stento e con orribili strascichi sulla restante parte della vostra esistenza. Uno di questi, per l’appunto, era il concerto di Liberato, il 9 giugno, nel quartiere Barona di Milano, al quale mi sono approcciata con sguardo vitreo fisso da giorni, aritmia cardiaca e uno stato confusionale più evidente del solito.

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Sì, perché, a sostenermi nel ruolo di inviata di Noisey a concerti in compagnia di musicisti, ho doti davvero utili come il raccapriccio verso la folla e le forze dell’ordine. E l’evento in questione, almeno sulla carta, non pareva essere affatto carente su nessuno dei due fronti. Con tutta questa spensieratezza, dunque, e dopo una trattativa via WhatsApp con Francesco Lettieri, il regista dei videoclip di Liberato (che ringrazio di cuore), sono riuscita ad avere un ingresso per me e il mio ospite Motta.

Preda di oscuri pensieri circa scenari di caos e manganellate, sono planata in una Barona ordinatissima, seppur fresca come il delta del Mekong e transennata che nemmeno il G7. Erano le 17:30 quando io e un suicida Kevin Spicy in camicia a maniche lunghe ci siamo presentati ai cancelli che avrebbero aperto, da programma, alle 18. C’era già un po’ di fila, ma nulla di sconvolgente, se non il fatto che quella fosse, per noi, la fila sbagliata. E vorrei poter incolpare di ciò qualcuno a caso, ma la pirla sono stata io che, dimentica del per nulla ambiguo ultimo messaggio di Lettieri che recitava “l’entrata pass&media è da via Teramo”, sono andata dalla parte diametralmente opposta. Già preda di sconforto e rivoli di sudore, mi sono sentita dire da un addetto alla sicurezza che “via Teramo è tutta di là, devi fare il giro, tornare indietro, in fondo e a destra, ma uè è lontano eh, tutta di là”, e mentre lo diceva non piangeva ma saettava in aria un braccio con un'espressione eloquente: “zia, non ce la farai mai”. E invece l’abbiamo portata a casa, non dico senza turpiloquio o qualche menzione ai santi tutti, ma quella cazzo di via Teramo l’abbiamo raggiunta, e da lì, a parte un breve siparietto con le guardie che hanno scambiato il mio quadernino con su scritte le domande per Motta per un vietatissimo carica batterie, è stata tutta in discesa, e persino la coltre grigia della mia paranoia s’è dipanata di fronte a un’organizzazione ben oliata, ma sopratutto a un’atmosfera proprio figa.

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L'autrice con Francesco Lettieri.

Il pubblico è meno uniformemente giovane di quanto pensassi e, a occhio, equamente diviso tra maschi e femmine, mentre l’area media altro non era che un lembo di cortile affiancato al parterre “normale”, senza alcun comfort in più se non la visione durante il live del già più volte citato Francesco Lettieri completamente perso dietro allo show, che se l’è ballate e cantate tutte, andando a smontare nel più credibile dei modi la teoria di un tale che conosco che sosteneva con assoluta certezza che lui e Liberato fossero la stessa persona. L’ultimo picco di panico è arrivato intorno alle 20 con un messaggino: “Motta", mi ha scritto la sua addetta stampa, "ha sbagliato ingresso (ahah) e ora s’è perso”. Eccolo, ho pensato, il karma che si vendica del mio pessimismo; e invece, è bastato il tempo di bere e sudare una birra ed è arrivato. Ci spalmiamo scompostamente al tavolo di un’osteria (con spettacolo di cabaret ai nastri di partenza) e iniziamo parlando di odio in rete, sulla scia di quanto sta accadendo a Young Signorino.

Ma a te è mai successo?
Non mi succede spesso, però una volta un tizio se l’era presa con mio padre, che ha il curriculum pubblico, avendo lavorato tutta la vita al porto. Insomma, questo stronzo ha iniziato a commentare tutti i miei video dicendo “guardate, Motta è figlio di papà, andate a vedere”. E un conto è se parli male di me, un conto è se tiri in mezzo mi' pà perché hai visto una cosa che ti ha emozionato e hai sbroccato. Lì non ci sto più.

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C’è modo di arginare?
Da un lato va contrastato, da un parte devi lasciar scorrere perché sennò si autoalimenta. Però c’è da prendere posizione ogni tanto. C’è chi dice che “che se ne parli bene, che se ne parli male, purché se ne parli”, però sta gente va sputtanata.

Una figura come Liberato, anonima, riesce a restare più protetta dagli hater secondo te?
Su Liberato vorrei prima tutto dire che mi sembra che questa cosa sia nata in modo bello. Mi fido di Lettieri, che conosco, e secondo me nessuno si immaginava che sarebbe diventata un fenomeno così enorme, non credo ci siano state scelte a tavolino strategiche per far esplodere Liberato. Non so dove andrà a finire ed è strano pensare che stia continuando e che la gente non si sia ancora rotta i coglioni di non sapere chi sia, perché oggi, credo, la pazienza delle persone è minima, o almeno lo è la mia, per cui alla ventesima volta che chiedo “ma chi è?” e nessuno mi risponde, mollo. Pace. Anche con I Cani è successo che dopo un po’ hanno dovuto togliere la maschera. Solo i Daft Punk, a memoria, sono riusciti a rimanere anonimi per tutta una carriera senza venire a noia alla gente.

Non credi che i video si meritino una buona parte di merito per tutto questo successo?
Io ammiro Lettieri, è bravissimo, ma i video da soli non bastano: è la musica, sono i testi che arrivano a tante persone (a me no, ma a tantissimi sì), è il racconto. Nel racconto c’è una piccola percentuale visuale, ma prima viene il racconto musicale, dei testi, dell’amore, dei tradimenti e quelle cose lì.

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L'autrice con Motta.

Ma tu che sei amico di Francesco, quando hai saputo del progetto Liberato?
Prima di tutto: giuro che non so chi è, ve lo giuro. Però, sì, me ne parlò molto prima che uscisse con "9 maggio". Credo che la prima volta sia stata addirittura quando stavamo girando il video "La fine dei vent’anni", quindi nel 2016. Ma per dire quanto poco me ne frega dell’identità di Liberato, una volta è successo che ero a casa di un amico (che secondo ma sa chi è) e gli volevo far ascoltare i provini del disco, così lui mi ha fatto usare il suo PC con la sua mail. Poi lui è stato convinto per un sacco che io sapessi chi fosse Liberato, perché in quella casella mail da cui avevo fatto logout compariva il suo nome. Ma io manco me ne sono accorto. Uno un po’ più all’erta e curioso di me, oggi saprebbe…

Oppure ti sei inventato l’alibi perfetto.
Esatto.

Che Liberato abbia così successo cantando di amore lo vedi come un segnale positivo, del fatto che le persone hanno voglia di romanticismo?
Secondo me la cosa che è coinvolgente è che parli di cose semplici e quindi pop, ma nel senso buono del termine, cioè un pop fatto bene, con cuore. Lo stesso motivo per cui funziona la Dark Polo Gang: io lo capisco perché arriva a tanti ragazzi, ma anche a gente grande, da produttore artistico lo comprendo.

Quando vai a un live distante dal tuo genere, come stiamo per fare, come capisci se uno show è riuscito?
Quando mi coinvolge, nonostante non sia nel mio. E comunque anche se non mi ascolto i pezzi in cuffia, i video di Liberato mi tengono parecchio incollato. Anche l’approccio punk della DPG qualcosa mi smuove, fosse anche solo l’incazzatura, perché a essere onesto non vorrei che mio figlio un giorno ascoltasse la DPG, però qualcosa mi smuove. Invece c’è gente che ha successo e che proprio non mi tocca assolutamente. Non mi chiedere nomi perché non te li dico, ma di certi io proprio non capisco la ragione del successo.

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Francesco Lettieri e Motta al concerto di Liberato.

Per te invece com’è stato tornare a suonare, visto che un paio di settimane fa sei tornato sul palco?
Bello, se non fosse che sono palesemente invecchiato e mi sono fatto malissimo dopo due concerti, crollando giù dal palco dell'Estragon, nemmeno facendo stage diving, ma con un cazzo di salto normale. Siccome mi ero già rotto un tallone anni fa, cascando da un’americana, evidentemente c’era ancora qualcosa che non andava e ora sono mezzo zoppo. A parte questo, per me quella così lì è proprio importante, è un festeggiamento, un tormento assoluto, poi io adesso mi sento molto più pronto, più tranquillo. La data di Milano all’Alcatraz è stata dura, dovevo capire dove incanalare le energie, invece adesso non vedo l’ora di avere un palco anche più grosso. Mi sento pronto, molto più di prima.

Com’è il tuo nuovo live?
Molto rock e psichedelico, c’è tanta musica, ci sono dei momenti in cui non canto, non faccio niente, sto fermo e la band suona un quarto d’ora, ma c’è anche abbastanza elettronica, anche perché non sono uno che giudica, per esempio, i rapper che girano con le basi come se quella roba fosse "più fredda". Il discorso digitale/analogico mi sembra un discorso del cazzo. Non penso di essere nel giusto perché suono gli strumenti, ecco.

Com’è stato il post-secondo disco, ostico come vuole la tradizione?
Anche il primo è stato ostico. Dopo il secondo, però, ero ancora più imparanoiato. La differenza è che quest’anno nella mia vita sono cambiate tante cose, ho una fidanzata che mi sopporta e mi supporta moltissimo e questo conta. Non conto le volte che abbiamo fatto le cinque a chiacchierare di cose che magari il giorno dopo mettevo nel disco. Se ci penso, credo che la gestazione non sia stata lunga per me, ma per lei [ride]. A questo giro sono stato più veloce, perché se prima era come aver fatto 20 traslochi senza buttare niente, per cui su un giro di chitarra magari ragionavo settimane e poi non mi portava a niente, ora ho acquisito velocità nel capire quando sto facendo una cosa che mi piace oppure no. E il modo è vedere se mi emoziona quando la riascolto, e per emozionarmi ci vuole un gancio di vita vera, che mi fa venire voglia di continuare un pezzo. Alcune canzoni più arrabbiate, sullo stile di "Roma stasera", nel racconto di Vivere o morire non ci sono entrate, perché la maggiore tranquillità che ho nella mia vita e il fatto di non sentirmi più in ritardo, non me le ha fatte sentire “giuste”.

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In che senso in ritardo?
Ero in confusione, avevo un bivio davanti e non sapevo bene dove andare. Qui ho preso una strada e quindi è come se a un certo punto i pezzi fossero venuti da soli. Ho trovato il modo di cercarli, andando a parlare con i miei genitori, con mia sorella, raccontando loro di un amore che era finito e uno che era iniziato.

Il palco di Liberato.

C’è un momento in cui ti riposi, stacchi e smetti di scrivere le canzoni, anche solo nella testa?
Sì, per circa una settimana. Non è che sia uno che scrive musica di continuo, ma magari prendo appunti di continuo, oppure, spesso, mi aiuta Carolina, si segna una cosa e mi dice “questa potrebbe essere uno spunto interessante”. Anche il modo in cui vivo mi porta a essere sempre attento a ciò che succede. Mi è successo di andare nel panico perché non riuscivo a chiudere un pezzo, ma non è mi è mai successo di non sentire il desiderio di volerlo finire. Diciamo che non scrivo tanto, ma sono sempre pronto a farlo.

Prima dicevi delle cento date dello scorso tour: hai vissuto una sorta di dipendenza da pubblico? Hai sentito addosso in parte la depressione post-performance depression?
Per me finire quelle date è stato fondamentale, per respirare e rilassarmi. Quando fai tanti concerti uno in fila all’altro la tua emotività subisce picchi altissimi e abissi bassissimi, come quando finisci e torni in albergo e precipiti nel down. A me questa cosa qua non fa stare bene, ho capito che mi serve un momento di stasi, per ricominciare a farlo in modo giusto. Questo l’ho capito alla fine dell’altro tour, quando dopo l’ultima data all’Alcatraz mi sono fiondato a casa dei miei per settimane, fermo, a non parlare. A un certo punto mi sono detto: “Ok, ora voglio capire chi sono, chi sono diventato, mi voglio auto-analizzare”. Invece di pagare qualcuno, ho fatto un disco.

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Hai saputo prenderti cura.
Volermi bene e volermi fare del bene. Forse una delle cose che mi ha fatto meglio negli ultimi anni è stato fermarmi, perché io avevo una sorta di sindrome del maratoneta, per cui dovevo per forza continuare a fare. E invece imparare a dire stop mi ha fatto capire che mi devo voler bene e che quello è il migliore dei modi per ripartire.

Il te stesso dei 20 anni ne sarebbe stato capace?
No, no, non l’ho mai avuta questa cosa, non mi è mai capitato nella vita di fare due concerti e basta in un anno. Ero spaventato, all’inizio, ma questa cosa ha portato a fare un secondo disco, a rimettermi in gioco e a essere felice, perché oggi sono molto più felice di prima.

A questo punto della chiacchierata, dei tamburi furibondi e il boato del pubblico ci hanno lasciato intuire che l’attesa, per tutti quelli che da ormai quattro ore avevano riempito piazzale Donne Partigiane, fosse finita. Così, con quattro grappe e due birre gentilmente travasate dall’oste in innocue bottiglie di plastica, siamo andati, infine, a sentire Liberato, che si è presentato al suo pubblico con cappuccio e bandana e un “uè milanes'” d’ordinanza, insieme a due musicisti bardati quanto lui. Ha attaccato con "9 maggio" e una luna hi-tech sullo sfondo. La scaletta è scivolata via, con tutti i pezzi da "Je te voglio bene assaje", passando per "Tu t'e scurdat' 'e me", "Me staje appennenn' amò", "Gaiola portafortuna" e "Intostreet", senza le sorprese che in molti si aspettavano (c’è stato persino chi, vedendo quel Liberato in the Ocean su sfondo arancione aveva azzardato a una comparsa di Frank Ocean sul palco), e la Barona, terra di Marracash e dei Club Dogo, non s’è tirata minimamente indietro di fronte al dialetto napoletano.

Due giorni dopo uno show potentissimo, questo è il commento che Francesco Motta mi ha mandato: “Arrivare al concerto di Liberato non solo è un'impresa, ma sono sicuro che oltretutto stasera ci sono tantissimi milanesi che in Barona non ci sono mai stati. Dopo essere stati rimbalzati duecento volte ci ritroviamo ad interpretare indicazioni immaginarie. Tutti ci dicono sinistra, sinistra, sinistra ma è mezz'ora che camminiamo e io sono pure zoppo causa un eccesso di entusiasmo durante un concerto a Bologna. Ci metteremo una vita ad arrivare sperando che Liberato non abbia già finito. Dicono che farà soltanto sei canzoni, anche se io so che le canzoni possono durare molto più del previsto. Siamo arrivati ai controlli e per prima cosa mi hanno fatto buttare l'accendino come se volessi dar fuoco al palco nel nome dell'anonimato. Ci sono già duemila motivi per cui sono incazzato nero. Finalmente fra fasci di luce, fumo e una luna rossa e blu ci ritroviamo di fronte al nostro eroe incappucciato, come la sua band. Intorno a noi tanti telefoni pronti a catturare un dettaglio con un fare morboso che ricorda Black Mirror. Però c'è da dire una cosa, c'è un energia bellissima. C'è qualcosa di assolutamente vero, una libertà sedata in ognuno di noi, la condivisione di voler essere speciali anche se non ci vedono.

Seppur mascherato da tanti effetti, mi accorgo non solo che Liberato canta, ma canta e suona pure bene. Liberato è sicuro su questo palco, ha esperienza, oppure è un pazzo che mi piace. Questa caccia al tesoro per arrivare qui ne è valsa la pena. È assolutamente impossibile che questo sia il secondo concerto della sua vita, perché il primo a divertirsi, a testa bassa, è lui e il palco è casa sua.

Liberato è un musicista e conosce il pubblico. Non sappiamo chi sia lui, ma lui sa chi siamo noi”.

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