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Demented parla da solo

Il fantasma di Battisti

Il 9 settembre cade l'anniversario della morte di Lucio Battisti—un'occasione per ripercorrere una parte della sua carriera che i più, a torto, hanno dimenticato.

Fotomontaggio di Enrico "Infydel" D'Elia

Il 9 settembre 1998 scompare la musica italiana. Per forza, parlo di Lucio Battisti: senza il quale probabilmente staremmo ancora a cantare “Vola colomba bianca vola”. Dello sterminato patrimonio che ci ha lasciato ancora dibattono critici, ancora musicisti scoprono delle idee da rubare—pure i Verdena, pensate un po’!—giornalisti rivalutano questo o quel periodo (la bega periodo Mogol contro periodo Panella), David Bowie lo cita come il miglior artista italiano di sempre, e pure i Daft Punk ammettono implicitamente di avergli copiato mezzo repertorio. Insomma pare un pozzo senza fondo.

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E in effetti lo è: io stesso sto per parlare di lui non in quanto artista solista e geniale autore, cosa oramai scontata e assodata, ma in quanto altrettanto geniale arrangiatore, musicista e GHOSTWRITER. Ebbene sì, ho deciso per omaggiarlo di parlare della sua opera più controversa, uscita incredibilmente nel settembre 1983: questa opera ha nome Oh! Era ora e non è accreditata a lui, bensì ad Adriano Pappalardo. Fortunatamente, a furia di passaparola, una piccola nicchia si è accorta già da un po’ dell’esistenza di questo gioiellino: vediamo però di sondare cosa rappresenta per la musica italiana e per la carriera dello stesso Battisti, nonché accingiamoci a fare abbondante piazza pulita dei luoghi comuni.

Partiamo dal principio: nel 1980 Battisti e Mogol, il dream team, pubblicano Una giornata uggiosa. Sebbene sia un disco ovviamente stratosferico, si nota una certa predilezione di Mogol nel parlare di vita quotidiana spicciola, dimenticandosi i numeri da “salame verderame” dei precedenti dischi: sembra che Mogol scriva i testi a Battisti come faceva per Bobby Solo. Insomma che si sia leggermente imborghesito, anche se è indubbio che un paio di assi riesce ancora a tirarli fuori. Ed ecco quindi la cesura fra i due: ufficialmente per problemi di diritti d’autore—Battisti si rifiutava pare di dividere gli introiti in parti eguali—ma in realtà per problemi di “ricerca”. Il cantante di Poggio Bustone non ne poteva forse più di cantare di amorazzi, gente che cerca i monolocali eccetera. Voleva parlare del suo mondo.

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Ed ecco quindi che, tempo un anno, Lucio tira fuori un disco che probabilmente fra vent’anni si studieranno anche i sassi. E già parte spedito per la tangente e lascia di stucco i fan della vecchia guardia. Un disco che praticamente è sintetico dall’inizio alla fine e che di umano ha solo la sua voce: sembra di sentire la via italiana al technopop, anzi che dico, la via battistiana, quindi è un po’ sentire un marziano sulla terra che nel 1982 già pensa ai suoni da karaoke (cosa che ora fanno praticamente tutti).
Intendiamoci, non è che sia il primo nel mainstream a smanettare con sintetizzatori e sequencer—ricordiamo che il primo in assoluto ad abolire le chitarre nel 1979 fu Flavio Paulin ex Cugini di Campagna, autore di un disco à la Kraftwerk recentemente tornato a far parlare di sé: ma il modo in cui vengono usati sono oltremodo personali e spiazzanti, addirittura certe volte sembra di sentire gli Autechre.

Soprattutto i testi non sono opera di Mogol, ma pare siano della moglie di Battisti, che si firma con uno pseudonimo. Sì, come no: in realtà VELEZIA (da Veronese Letizia Grazia) non è altro che Battisti stesso, che parla della sua vita. La sua filosofia, le sue passioni, insomma tutto quel che di autobiografico era necessario uscisse una volta tanto fuori, con la moglie a correggere diciamo il tiro e la grammatica. E ne esce una sensibilità “sintetica”, acuta, che può essere riassunta dalla frase “e intanto aggiungi tagli e sintetizzi”. E già in quanto disco meriterebbe un articolo a sé, ma noi siamo qui per parlare dell’album “fantasma”, rischiamo di andare offtopic.

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Esatto, un fantasma: Battisti oramai fuori dal palazzo del music business, oramai appartatosi dai riflettori, è fantasmatico. Nella stessa copertina di E già appare di spalle davanti a uno specchio che riflette una luce abbagliante, come Dio non può essere raffigurato. E anche come autore spesso lascia delle tracce ectoplasmatiche: già nei Sessanta con Radius e sotto il falso nome di Gias firma un testo eccezionale, “Prima e dopo la scatola”, in cui fa sfoggio del suo secco ateismo, poi firma un paio di canzoni facendo finta di essere Donida (pare che “La compagnia” sia in realtà opera sua, così come “La spada nel cuore”, di cui stranamente esistono provini da lui stesso eseguiti), e di volta in volta produce col nomignolo di Lo Abracek.

Insomma, pare che Lucio quando non si sentiva sicuro di esporsi artisticamente lavorava come ghostwriter: un modo per testare se le sue intuizioni potevano vincere o meno. In Oh! Era ora il sospetto è per l’appunto questo: Pappalardo ci mette coraggiosamente la faccia e la carriera (che si concluderà proprio dopo questo disco, non a caso), probabilmente co-scrive qualcosa, ci sta dentro magistralmente, da vero cantante di razza: la sua influenza nella sterzata di Lucio verso l’elettronica è infatti innegabile (addirittura viene ringraziato in E già). Pappalardo, da cantante soul qual era, aveva una predilezione per il funk elettronico e sosteneva di conseguenza Battisti nelle sue ricerche sintetiche verso un nuovo soul bianco.

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Sarebbe da ricordare che Lucio, da sue dichiarazioni, avrebbe voluto avere la voce di Pappalardo, e quest’ultimo—in tale opera—è praticamente il sintetizzatore vocale di Battisti. Il Lucio nazionale infatti suona TUTTO, anche Pappalardo: arrangia tutte le canzoni e anche in questo caso incide degli equivoci provini per aiutare Pappalardo a cantare, stranamente andati perduti: come è possibile una cosa del genere? Se l'autore delle musiche fosse stato davvero Pappalardo, chi meglio di lui a interpretarle? In precedenza nel suo album Immersione, Battisti si era limitato ad aiutarlo nella produzione e la differenza nella scrittura dei pezzi è evidente: lì sì Pappalardo sembra autore a tutto tondo (con esiti incerti, in verità, nonostante il suono potente e ricercato). E per i testi, la situazione di mistero non cessa di esistere: sono firmati da un certo VANERA. Chi cazzo è costui?

Be', è Pasquale Panella sotto falso nome. Il paroliere, preso in prestito dal grandissimo e geniale cantautore Enzo Carella—che speriamo presto di intervistare—decide di celare la sua identità perché il disco è un esperimento. Il primo esperimento fra due autori, Lucio e lui, che getterà le basi per il futuro pluriosannato Don Giovanni, prima pietra del nuovo edificio battistiano. Vediamo allora nel dettaglio cosa accade nel disco.

Innanzitutto è un disco di technopop massiccissimo, roba che gli Yazoo all’epoca se la sognavano: dico gli Yazoo perché la voce grossa di Alison Moyet può essere paragonata agli urlacci potenti di Adriano, ma potrebbe mangiarsi anche gli Human Legue e i Depeche Mode o qualsiasi gruppo del genere. Uso di Fairlight a pioggia (ricordiamo che Battisti è uno dei pionieri italiani in tale strumento) programmato da Dario Massari—uno dei pochi italiani a saperlo maneggiare. Ritmiche dance da urlo con drum machine a cannone, chitarre suonate con una violenza belluina, tutte distorte e passate direttamente nel mixer che manco i Krisma. Insomma una sferzata di elettronica che—a differenza di E già—abbandona l’alienazione “colta” per la sperimentazione “danzereccia”.

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Le musiche poi: non è difficile ascoltare gli echi delle melodie ariose che troveranno poi posto in Don Giovanni, e citazioni neanche tanto velate dal primo Battisti ("La canzone del sole" per “Vanessa moda gaia”, "Ancora tu" ne “Breve la vita felice”, "Sì, viaggiare" infilata un po’ ovunque) nonché dello stesso Enzo Carella,che Battisti prende a modello per adattare il suo stile ai testi. Addirittura in “Caroline e l’uomo nero” sembra che Panella dissemini indizi a proposito di un invisibile deus ex machina del disco che alita sul collo dell’ascoltatore ignaro…sappiamo di chi si tratta. Tra l’altro c’è una leggera critica al mondo discografico con quel "Ma dove sono i dischi dell’altr’anno?” forse accennando al mezzo insuccesso di E già.

Pappalardo si rivela un interprete di grande spessore, giocando aritmicamente con le sillabe di Panella in maniera pressoché perfetta, quasi sull'orlo del sound poetry (cosa che a Battisti riuscirà sempre in parte e con un certo sforzo). I testi sono allucinati, parlano di alienazione, di perdite, di situazioni intricate e amori promiscui, con piglio filosofico, senza peli sulla lingua (addirittura ci scappano anche parolacce) ma allo stesso tempo di semplice fruizione se si ha voglia di prestare orecchio.

Al Mogol familistico Panella contrappone quindi testi totalmente attuali, disturbati quanto basta, recuperando dal suo predecessore il surrealismo oramai perduto e portando la canzone italiana a quel livello internazionale che riuscirà forse solo ai Matia Bazar, che escono nello stesso anno con il loro capolavoro Tango. Sulla carta un disco del genere potrebbe sfondare i tetti delle hit parade, dando ragione alla sperimentazione battistiana verso un “pop intelligente futuribile”, portando le intuizioni di E già su un piano di massa. Invece non se ne fa nulla, il pubblico non capisce la materia, restando spiazzato dai testi e probabilmente dalla stessa figura di Pappalardo oramai associata alle scoattate di “Ricominciamo”.

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Se Battisti lo avesse pubblicato a suo nome, le cose sarebbero andate diversamente: come mai Battisti abbia deciso di non rivendicare la paternità del disco è spiegabile solo con la sfiducia che nutriva verso il suo pubblico e l’odio per la ribalta. Non è escluso un tentativo "Residentsiano " di tornare a fare musica lontano dalle pressioni, ma Pappalardo non era, ahimè, un “occhio col cilindro”. Purtroppo questo suicidio commerciale segna la fine della carriera discografica di Adriano, come già detto, mentre è l’inizio dei cinque dischi medianici a venire di Battisti.

Nel successivo Don Giovanni si trova infatti la formula perfetta per un technopop ”acustico”, oramai conscio che l’italiano medio sta inevitabilmente indietro—è purtroppo proprio l’Italia l’unica fonte di successo del nostro—e ha bisogno di calore, finanche da una stufa elettrica: più avanti il nostro ritornerà sulla materia di Oh! Era ora, ma oramai i campionatori e i synth FM ce l’avevano anche le vecchie per strada. Diciamo che Battisti avrebbe potuto tranquillamente scrivere la musica dell’avvio di Windows al posto di Brian Eno o di Fripp ma purtroppo si sa, nemo profeta in patria soprattutto se si è davvero dei profeti.

Dopo la sua morte si sono scatenati i cacciatori di inediti: spuntano fuori i nastri delle incisioni per la conquista del mercato inglese poi abortita, si svuotano i cassetti dei collezionisti. Si narra addirittura dell’esistenza di un disco postumo inciso e mai pubblicato, che la moglie conserva gelosamente nel cassetto per rispetto al marito e che non si sa se mai vedrà la luce: nel cofanetto commemorativo di vinili, infatti, subito dopo Hegel—l’ultimo album in ordine di tempo—spicca una custodia vuota. Bene, è l’ennesima trovata del Lucione nazionale: il disco mancante è probabilmente Oh! Era ora: perché appunto ”il mistero circonda la borsa / della spesa in cui la cosa si ingrossa,” come dice il geniale sottotitolo.
Ora aspettiamo solo che gli americani lo scoprano e che detti legge per i prossimi dieci anni, come ora sta dettando legge questo.

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