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Nel 2011 un'intera famiglia è scomparsa in un suicidio di massa. Oggi, una serie vuole fare chiarezza

"House of Secrets: The Burari Deaths" è una serie di Netflix ispirata a un fatto di cronaca, ma anche una riflessione sulla famiglia.
Daniele Ferriero
traduzione di Daniele Ferriero
Milan, IT
House of Secrets: Burari Deaths netflix
Un'immagine tratta da 'House of Secrets: Burari Deaths.' Foto per gentile concessione di Netflix India.

È il primo di luglio del 2018 e Gurcharan Singh si trova a Burari, una località a nord est di Delhi, in India. Quando esce di casa per la solita passeggiata mattutina, non si aspetta certo che la giornata finirà per imprimersi nella memoria collettiva del Paese.

Il vicino che di solito lo accompagna non si vede da nessuna parte e il negozio di sua proprietà è stranamente ancora chiuso. Singh decide quindi di andare a controllare come sta l’amico e, con sua grande sorpresa, trova la porta di casa aperta. Quello che vede una volta entrato lo scuote sin nel profondo.

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Dieci membri della famiglia, tre diverse generazioni, penzolano dal soffitto bendati, imbavagliati e con le mani legate dietro la schiena. L’undicesimo membro, la donna più anziana della casa, giace strangolata in un angolo.

Come il resto del Paese, anche Leena Yadav—regista di Mumbai autrice di Parched e Rajma Chawal—è rimasta molto colpita dall’avvenimento. “Mi ha sconvolto,” racconta. “Ma poi la cosa si è complicata e i media hanno iniziato ad accumulare storie e versioni. Nessuna di queste è però riuscita a fornire alcuna risposta o spiegazione.”

A quel punto Yadav ha cominciato a cercare da sola le proprie risposte, e la ricerca l’ha portata a creare per Netflix House of Secrets: The Burari Deaths. Un documentario che sta spopolando in India, Pakistan e in diversi paesi asiatici.

Yadav ricorda che l’impatto dell’evento sulla comunità è svanito in fretta, sostituito dal solito rapidissimo ciclo mediatico delle news del giorno e del successivo scandalo da rincorrere. “Quando accadono cose simili ci si dimentica che varrebbe la pena scavare più a fondo, a maggior ragione davanti a un caso particolare come questo. Niente di simile era mai stato documentato prima dalla polizia.”

La storia però è rimasta impressa a Yadav, che l’ha sottoposta a Netflix alla fine del 2018. Netflix era sbarcato sul mercato locale solo due anni prima e le persone con cui aveva parlato erano entusiaste all’idea di occuparsi di questa vicenda. “Ho raccontato loro che ero abituata all’architettura narrativa dei film, e che non avevo mai realizzato prima un documentario,” ricorda Yadav. “In questo caso però non potevo proprio realizzare un film di finzione, quindi mi sono dedicata al progetto come se dovessi letteralmente studiarlo.”

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Leena Yadav

Prima dell’inizio delle riprese Yadav si è tenuta lontana da ogni forma di approfondimento. L’idea era quella di occuparsi dei vari livelli della storia in concomitanza con le interviste alle persone collegate al caso—i vicini di casa, gli amici, i conoscenti, i giornalisti, i poliziotti e gli psicologi. La produzione ha accumulato oltre 400 ore di interviste, un totale “emotivamente spossante” per tutta la troupe.

“Per settimane la notizia è rimasta in prima pagina, ma nessun articolo o documento si è preso la briga di trattare il caso con un pezzo di analisi,” sostiene Yadav. “Il mio approccio è stato quello di chiedermi non chi avesse commesso il fatto, ma per quale motivo.”

Mentre il documentario andava avanti, Yadav ha cominciato a mettere assieme i pezzi della storia che avevano portato a quel giorno fatale. Si trattava davvero di un suicidio di gruppo, un caso di psicosi condivisa, oppure di omicidio? Non c’erano risposte semplici e i poliziotti fino a quel momento si erano limitati a grattare la superficie.

Yadav spiega che la polizia stava ufficialmente indagando sul caso trattandolo come una psicosi condivisa, un disturbo della psiche caratterizzato da una credenza delirante in comune tra due o più persone con un legame molto stretto. Solo che in quest’occasione si trattava di 11 persone, tra cui donne, bambini e uomini compresi tra i 12 e gli 80 anni. Chiunque conoscesse la famiglia li giudicava persone in gamba e socievoli, che apparentemente stavano bene. In sostanza, non sembrava esserci nulla fuori posto.

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Un'immagine da 'House of Secrets: Burari Deaths.' Foto per gentile concessione di Netflix India.

“Non si trattava di una famiglia strana che viveva in isolamento,” insiste Yadav. “L’idea alla base del documentario era quella di evidenziare che è facile per tutti noi guardare a un caso simile e pretendere non possa succedere alle nostre famiglie. Ma si tratta soltanto di uno spaccato sui segreti delle persone, le verità nascoste e i traumi che decidiamo di ignorare.”

La sfida più grande per Yadav è stata quella di cercare di raggiungere la verità. All’inizio tutti i soggetti intervistati dimostravano di voler nascondere le cose più sgradevoli o imbarazzanti e continuavano a dire che le vittime erano “brave persone”. Per Yadav questo era un ovvio segnale d’allarme.

“Com’è possibile che tutti avessero da esprimere soltanto opinioni positive? Non erano forse anche loro degli esseri umani con dei difetti? Mi sono resa conto solo in un secondo momento che si trattava di quella facciata che ci costruiamo tutti, pensando che i segreti di casa debbano rimanere una faccenda di famiglia. Ci viene insegnato sin dall’infanzia a non lavare i panni sporchi in pubblico.”

Il secondo episodio della serie, intitolato “Diari”, segnala il momento di svolta della storia, il ritrovamento da parte della polizia di alcuni diari scritti in terza persona nel corso di 11 anni. I diari contenevano istruzioni dettagliate sulla maniera in cui ogni singolo membro della famiglia doveva trascorrere la propria vita, come ad esempio dove investire i soldi, nonché informazioni riguardanti la “redenzione di massa”—ovvero il suicidio, incluso il modo in cui le impiccagioni dovevano essere condotte.

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“Quando è uscita la notizia, mi sono rifiutata di credere che dei ragazzini di 12 o 13 anni potessero aver accettato di prendere parte a tutto questo,” racconta Yadav. “Ma a ripensarci si trattava di un qualcosa preparato e discusso da 11 anni in famiglia, una parte importante e consistente delle loro vite sin dal giorno della nascita. Questa visione delirante era tutto il loro mondo, era un qualcosa del tutto normale.”

L’ultima voce presente sui diari è quella relativa al macabro rituale dell’“albero baniano” che imponeva ai membri della famiglia di impiccarsi seguendo una disposizione che ricordasse le radici elevate di questo tipo di albero—basandosi sulla premessa che il patriarca li avrebbe salvati dalla morte. Le indagini della polizia incentrate sui diari avevano rivelato che la fonte principale delle convinzioni della famiglia era un membro relativamente giovane, con una storia pregressa di traumi non curati.

“Ora sappiamo che un membro della famiglia aveva avuto delle problematiche relative alla salute mentale, eppure si tratta solo di un aspetto della faccenda. Potrebbe essere stata la scintilla, certo, ma non spiega ogni cosa. Forse gli altri dieci membri avevano una loro storia personale che li ha resi così vulnerabili? Non abbiamo tutte le risposte,” spiega Yadav.

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La regista spera che la serie spinga anche solo una singola famiglia a sedersi intorno un tavolo e ad affrontare o discutere i propri traumi e problemi. In tal caso lo scopo del documentario sarebbe raggiunto, anche a costo dello shock iniziale di fronte alla storia.

“Anche noi eravamo spaventati mentre lavoravamo al documentario. Ogni membro della troupe, me compresa, ha cominciato ad avere incubi. Si è trattato di una lavorazione estenuante a livello emotivo. E la reazione del pubblico lo rispecchia. Temo il documentario non riguardi necessariamente quella famiglia, ma tutti noi.”

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