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Bojack Horseman è destinato a diventare sempre più i Simpson

La quinta stagione cambia ancora. E Bojack non vuole più raccontarci la storia di un attore cavallo depresso.
Still dalla quinta stagione di Bojack Horseman.

Attenzione: nell'articolo ci sono riferimenti alla quarta e la quinta stagione di Bojack Horseman.

La quarta stagione di Bojack Horseman è stata senza dubbio la più strana fino ad oggi—una sorta di fase di assestamento, in cui il focus si spostava dall'indiscusso protagonista verso le vite degli altri mentre quasi in sottofondo il cavallo ultraquarantenne completava il suo percorso di redenzione apparente. Nonostante la morte della madre, infatti, l’ultima stagione di Bojack si chiudeva con quello che, nei termini di ciò a cui ci ha abituati la serie, era un lieto fine: Bojack aveva una famiglia, un lavoro. Non era più solo la star della serie degli anni Novanta, ma un Bojack 2.0.

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Personalmente, dopo tre stagioni divorate e di livello davvero alto, ne ero rimasto quasi deluso. I comprimari non erano forti tanto quanto il suo protagonista—ad eccezione unicamente di Diane— e nella mia testa Bojack raccontava una storia precisa e, in quanto tale, questa storia prima o dopo avrebbe avuto una conclusione senza trascinarsi troppo per le lunghe. Ecco: se la quarta stagione aveva allontanato in modo definitivo l’idea che da lì a poco il “romanzo di formazione” di Bojack si sarebbe completato, la quinta allarga ancora più gli orizzonti, ma lo fa cambiando, in qualche modo, anche la struttura del prodotto e rendendo il tutto più accettabile.

Ancor più delle precedenti, la quinta stagione di Bojack Horseman ha un filo conduttore che unisce le vicende dei vari personaggi, un grosso tema centrale che permette che le storie di quelli che sono ormai a tutti gli effetti definibili protagonisti non risultino slegate, ma solo e semplicemente un diverso punto di vista su un tema scottante.

Se nella scorsa stagione le critiche e i riferimenti erano alle elezioni di Trump, “impersonato” dalla figura di Mr. Peanutbutter (con in più la riscoperta della famiglia e la distruzione della stessa da parte di Bojack, Diane e Princess Caroline), in questa quinta stagione l’ispirazione palese è la rivoluzione culturale partita con il movimento #metoo.

In America la questione #metoo è centrale, e permette ai creatori della serie di avere un tema potenzialmente vastissimo per far immedesimare e bastonare ogni spettatore, calamitato ancora una volta dall’ottusa convinzione che Bojack sia una serie sulla “depressione”.

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Bojack, Mr. Peanutbutter, Todd e persino i personaggi minori come Flip sono tutti esempi di uomini “sbagliati”, ma che non si rendono conto di esserlo—un po’ perché malcelano i loro errori dietro l’ingenuità, un po’ perché di prendersi le proprie responsabilità non ne vogliono proprio sapere.

Anche la struttura è diversa rispetto alle prime quattro stagioni, e sembra destinata a mutare sempre più, stravolgendo ciò a cui siamo abituati. La trama verticale, infatti, ha di gran lunga superato l’importanza di quella orizzontale. Ed escluse piccole vicende quasi “di sfondo”, che fanno sì che si possa collocare ogni evento della serie su una linea temporale, ogni episodio risulta quasi auto-conclusivo.

Se si parla di serie animate auto-conclusive, dunque, non si può che non pensare ai Simpson. Come in Bojack, il protagonista Homer riflette appieno l’americano medio “sbagliato”, capace solo di errare, e attraverso la reiterazione dei suoi errori si arriva alla critica sociale. Una critica sociale che rende i Simpson—specie quelli degli inizi—una serie molto più matura di “colleghe” come i Griffin o American Dad, a cui spesso in Italia è associata (più per la struttura e l’orario di messa in onda che altro).

Più dello spettatore medio, ovviamente, Bojack è un privilegiato che non ha alcuna intenzione di prendersi le sue responsabilità. Bojack ha bisogno di espiare le proprie colpe per dormire tranquillo, non per rimediare ai suoi errori. Lo stesso si può dire di Mr. Peanutbutter, che riflette sulle sue compagne i propri errori, o di Todd, che nel confronto con la sua ex fidanzata pensa ingenuamente di essere risolutore di tutti i problemi, arrivando persino a creare un “robot del sesso” capace poi di fare carriera in una grande multinazionale.

Lo svolgimento di Bojack, dunque, muta incredibilmente con il tempo: se prima usava i propri personaggi in funzione di una storia quasi meramente narrativa, oggi la serie usa la società e i suoi problemi—come aveva provato sullo sfondo con l’elezione di Trump durante la quarta stagione—come spina dorsale della narrazione, tralasciando completamente o quasi l’evoluzione dei personaggi intesa come il raccontare una storia.

Bojack Horseman non vuole più raccontarci la storia di un attore cavallo depresso. Per questo, probabilmente, non ha più senso sperare che la storia si risolva in fretta affinché non si sprechi il buono fatto fino ad ora. Magari le prossime stagioni cambieranno ancora, ma nel frattempo ci sarà sempre Bojack Horseman a bacchettare la nostra società e a farci sentire delle merde.

La quinta stagione di Bojack è ora su Netflix. Il 3 ottobre con l’etichetta edizioni BD uscirà inoltre l’artbook di Bojack Horseman, con i bozzetti, le immagini preparatorie e curiosità sulla serie.