Gran Gala è la prima fashion story di Sorrowland, l’equivalente in immagini di un singolo d’esordio. Abbiamo sempre dato la stessa importanza alla dimensione musicale e a quella visuale, per creare una narrazione che si può ascoltare e anche vedere, e questo era il modo migliore di mostrarlo.
La scelta del nome non è casuale, perché nelle occasioni sociali un po’ si recita e un po’ no: noi ci siamo divisi tra la realtà di un quartiere di Roma in cui abitiamo, e la finzione di immaginarcelo e dipingerlo come se venisse da un futuro lontano. Ci siamo inventati una quotidianità in cui le giornate passano tra carcasse meccaniche e isole verdi inglobate da rifiuti e costruzioni intricate di passaggi, tubature, scale. I palazzi sono stati ritagliati nelle inquadrature in modo da risultare avvolgenti, vertiginosi, come se si muovessero in cerchio o tendendosi verso l’alto.
Gli agglomerati urbani hanno caratteristiche che a volte passano inosservate, e noi abbiamo deciso di evidenziarle e deformarle con la nostra presenza. Gli outfit che abbiamo disegnato -e in parte realizzato- non sono solo un’anticipazione dei capi che stiamo producendo, o un esempio di estetica che proponiamo al pubblico: sono il racconto di un dopoguerra che deve ancora venire, in cui le sfilate avvengono senza pubblico e stilisti, tra macerie risalenti al 2019.
Dino Buzzati, perché prendeva una piccola assurdità e la versava in un contesto rassicurante, domestico, borghese, finché non distruggeva tutto. Per quel che riguarda l’immaginario Sorrowland direi che Jodorowski è la figura chiave. Il suo lavoro sull’uso del linguaggio simbolico/ surreale sia nel cinema che nel teatro è di grande valore.
C’è sempre stata, sia come elemento di ispirazione che come linguaggio attraverso cui potersi esprimere. Ti parlo del concetto di moda e non del “mondo della moda” da cui siamo molto distanti. Sorrowland è un mondo tentacolare che ha necessità di rendere concreta la sua visione, e come in tutte le sue forme sta sperimentando per definire la propria dimensione anche nella fotografia di moda, nella creazione degli abiti stessi e nel come indossarli.
Noi, le persone comuni. Ogni giorno che passa cerchiamo di raccogliere qualcosa per stare sicuri un giorno in più. Consumiamo e ci derubiamo a vicenda, perché non sembra esserci alternativa. Quando ti abitui al male aspetti solo il momento in cui hai abbastanza potere, o niente da perdere, per farlo. Tutto questo è successo per aver creduto di dover inseguire il successo personale a costo di lasciare indietro gli altri, trasformandoci in un mucchio di più o meno poveri, spaventati o depressi senza prospettive, incapaci di coalizzarci per un obiettivo comune.
A volte l’intento può essere il semplice compiersi di un atto creativo. Semplificando: la mostriamo. Abbiamo sempre dichiarato di voler esprimere quello che facciamo su tutti i mezzi che consideriamo adeguati, senza limitazioni. Il tempo dei brand costosi che danno valore a chi li indossa è finito. Il brutto diventa bello, perché abbiamo bisogno di nuove forme. Nessuno è in grado di darci niente, e non vogliamo nemmeno prendere niente dagli altri. Nell’instabilità del mondo esterno facciamo affidamento solo su noi stessi. Facciamo la nostra musica e facciamo i nostri vestiti.
Si. Goffman ha dimostrato che le persone si rapportano in un’infinità di modi diversi, mentre di recente sono state proposte idee di amore e odio così ampie che alla fine parlano di tutti e nessuno. Non è universalità ma cercare di spacciare una roba che fa scalpore facendo leva sulle caratteristiche più comuni agli esseri umani. Facendo musica come la facciamo, cioè mettendo la nostra personalità al centro, non abbiamo dovuto cambiare niente: eravamo tre asociali e continuiamo a esserlo. Chi lavora in questo ambito, gli artisti con cui abbiamo il piacere di interagire e il pubblico percepiscono questa simmetria e il rapporto diventa naturale.
Quasi tutto quello con cui siamo cresciuti sta mostrando i suoi limiti. L’arte, la politica, l’economia, non sono più in grado di rispondere a nessuna esigenza. Ci divertiva vedere che in un momento in cui dovremmo costruire qualcosa di nuovo, c’è chi spinge per tenere in vita delle macerie. Si parla di cose che non solo hanno fallito, ma non sono proprio più pensabili nel 2019, come per cullarsi nella sicurezza della nostalgia. Ti immagini se domani tutti cominciassimo a scimmiottare i modelli sociali degli anni ‘50 come vorrebbero alcuni? Siamo diventati disillusi, dipendenti, ci siamo inventati modi di sopravvivere e abbiamo imparato ad amarci così. Non siamo padri di famiglia e brave massaie.