DRONE CUORE SANGUE SENTIMENTO
Foto per concessione di Asian Fake

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Musica

Drone126 è il cuore della Love Gang

'Cuore sangue sentimento', il primo album del producer romano, è la fotografia perfetta della crew più esaltante del rap italiano nel 2019.
Giacomo Stefanini
Milan, IT

Ogni tanto ci penso, a questa cosa della Love Gang. Perché è un fenomeno davvero assurdo in questa scena italiana. Si potrebbe quasi giocare a paragonare la crew di Trastevere al cast di Trainspotting. Franco è Mark Renton, il ragazzo fragile che cerca l'amore e si perde nella noia, ma capace di una tagliente (auto)ironia; Ketama invece è Spud, lanciato a tutta velocità verso l'autodistruzione; Pretty Solero è Sick Boy, per cui ogni momento passato senza compagnia femminile è un momento sprecato. Manca (per fortuna) il Frank Begbie del gruppo, ma si sa che le metafore sono una cosa imperfetta: non volevo forzare Ugo Borghetti o Asp nel ruolo dello stronzo violento solo per infiocchettare bene questo paragrafo. Non me ne volete. Ma se Roma è la loro Edimburgo e piazza San Calisto la loro Leith Walk, Drone questo libro lo ha scritto.

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Cuore Sangue Sentimento è il primo album di Drone126 ed esce oggi per Asian Fake. Contiene undici pezzi che riescono ad abbracciare molte delle sfaccettature della gang dello scalone, fotografando in maniera finalmente definitiva la loro poetica. Una poetica fatta di strada e di noia, ma anche di valori: "L'amore m'ha imparato a non chiamare le donne cagne / Il tempo a rispettare davvero mio padre / E mio padre che chi ruba è un infame / E gli infami che in questo mondo di merda la lealtà è un diamante" rappa Asp126 in "Caffè Illy". Poche tracce più su, Ketama faceva la danza dei soldi, mentre Ugo Borghetti affogava la sua solitudine in una spirale di alcol e droga.

Il lavoro di regia fatto da Drone è impeccabile, uno stile eclettico che riesce a mettere insieme sample di sapore old school con le basse striscianti e oscure della trap, condendo il tutto con effetti psichedelici e un gusto cinematografico per la dinamica delle canzoni. Alcuni di questi pezzi li abbiamo già sentiti nel corso dell'anno scorso, ma è un vero trip ascoltarseli uno in fila all'altro.

Ho chiamato Drone per parlare del disco, della sua storia, di Roma e della sua crew.

Noisey: Come hai iniziato a fare musica?
Drone126: Ero al liceo. Avevo un cugino raver che mi aveva spinto a fare musica elettronica, quindi all’inizio facevo roba tipo drum’n’bass insieme a Ketama, che conosco fin da quando eravamo bambini. Abbiamo cominciato così a scaricarci i programmi e a smanettare con la musica, poi dopo relativamente poco ci siamo spostati sul rap, un po’ anche perché a Roma mancava la scena d’n’b mentre invece quella rap stava prendendo piede. Uno dei primi dischi che ci ha fomentati è stato In The Panchine, che a Roma è culto. Quando è uscito ci ha sconvolti perché era totalmente underground, suonava quasi fatto in casa. Era un po’ una rottura col passato.

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Così abbiamo iniziato a produrre per un gruppo rap che ora non esiste più, in cui tra l’altro Carl Brave faceva l’MC, i Molto Peggio. Dopo poco tempo si sono messi a rappare più o meno tutti i membri della nostra comitiva storica, e da lì è nata la 126. Sarà stato il 2010.

Dopo la scuola mi sono trasferito a Berlino, dove ho studiato da fonico e lì ho conosciuto Il Tre, che ai tempi aveva già prodotto roba di Gemitaiz; siamo andati a vivere insieme e da lì ho cominciato a prendere tutta la faccenda un po’ più sul serio. Tramite Il Tre ho anche fatto un pezzo con Davide [Gemitaiz], si chiama “Rap Doom”… una deep cut [ride]. Poi sono arrivati tutti i progetti 126, a partire da Ketam City.

Quindi è stato più o meno quando tu sei tornato da Berlino che hanno iniziato a uscire i dischi dei vari progetti 126…
Sì, pochissimo dopo c’è stato il primo piccolo boom con Carl Brave X Franco126, poi è arrivato Oh Madonna di Ketama.

Parlando di Cuore Sangue Sentimento, varie tracce erano già uscite come singoli nell’anno precedente. Quindi si tratta più di una raccolta di cose a cui hai lavorato, o l’hai pensato proprio come album?
In origine era partito proprio così, nel senso che avevo una serie di tracce che erano rimaste “sfuse” e le volevo raccogliere in un unico contenitore. Poi nel corso del tempo il progetto si è un po’ espanso, e dalla seconda fase ho iniziato a ragionarlo più come un disco coerente, che rispecchiasse il mio suono ma anche il gruppo nell’insieme, perché non era ancora successo che fossimo tutti insieme sullo stesso progetto.

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È difficile per un producer fare un disco che porti il suo nome in copertina visto che il tuo ruolo è quello più “in ombra”, insomma, banalmente non canti.
È stato un bel casino, infatti. Anche perché il periodo della lavorazione è stato ricco di avvenimenti e colpi di scena, tutte cose positive naturalmente, ma è cambiato molto dall’inizio al momento in cui l’abbiamo chiuso.

In effetti, dal mio punto di vista, il momento chiave per il tuo lavoro è stata l’uscita di Amor Vincit Omnia, il video che hai realizzato con Trash Secco che racchiudeva tre tracce in un’unica narrazione. Quello è stato il punto in cui il tuo nome è diventato più centrale.
Senza dubbio. Avevo voglia di un progetto in cui potessi avere un maggior potere decisionale, pur contando che quando lavoro con quelli del mio giro la sintonia è sempre fortissima. Però avere davvero in mano la direzione artistica di un disco è una cosa nuova per me e ci tengo molto.

Com’è nata la collaborazione con Trash Secco?
Io sono fan di Trash Secco da molto tempo, fin da quando aveva girato il film Mostro di zona, che per me è un capolavoro. Mi è piaciuto subito per il suo approccio indipendente, quasi di guerriglia, una roba mega underground, forte ed estrema che comunicava bene un certo tipo di “disagio romano”. Da lì in poi ho iniziato a seguirlo da vicino come artista. Poi ci siamo conosciuti quasi per caso a Trastevere, e la collaborazione è arrivata in maniera abbastanza spontanea, lui si è appassionato ai nostri progetti e da lì è nata questa idea di fare questo trittico. Mi piaceva l’idea di creare un’unica opera che mostrasse le diverse sfaccettature di Franco, Pretty Solero e Ketama.

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A proposito di “disagio romano”, è interessante vedere come abbiate definito un’estetica molto precisa che mescola il TruceKlan con Franco Califano e Gabriella Ferri. È una scelta consapevole? Come siete finiti in fissa con questa roba?
Quello secondo me, nel bene e nel male, è un prodotto della città in cui siamo cresciuti. Per come la vedo io, e in questo mi ha aiutato anche vivere all’estero per un periodo, ci sono proprio delle cose che segnano lo spirito con cui si vive in questa città all’età nostra. È una cosa che, in modo più o meno consapevole, abbiamo sentito tutti noi, una reazione al nostro ambiente.

Roma, soprattutto negli anni della nostra adolescenza, è stato un posto complicato nel quale vivere e nel quale immaginare una maniera di vivere che fosse sensata e soddisfacente; è una città che vive una condizione di forte stagnazione. A parte il bagaglio storico che si porta dietro, dal punto di vista creativo è stata una città molto importante, pensa solo al cinema romano di qualche decennio fa; ma quando eravamo ragazzini noi avevi un po’ la sensazione che di tutto questo fossero rimaste solo le briciole, le macerie. Per cui, sì, stai in mezzo alla Grande Bellezza, ma hai anche l’impressione che sia un posto in cui le cose non funzionano, non si muovono, ristagnano, soprattutto per i giovani. Secondo me tutta la nostra produzione artistica deriva dal fatto che avevamo bisogno di crearci uno spazio nostro, per esistere come volevamo, perché altrimenti non l’avremmo trovato facilmente.

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Questa idea di immobilismo io la ritrovo anche nei vostri testi, in cui pare che non ci sia scampo dal trascorrere le giornate a buttare giù Peroni nelle piazzette di Trastevere, unica via di fuga le eventuali sostanze che vi ritrovate in tasca. Che non ci sia altro da fare che perdere tempo.
Sì, è la sensazione di essere in un limbo, sospesi. Quando uscì “Pellaria” di Carl e Franco, ricordo che alcune persone l’avevano interpretata proprio così: una condizione di sospensione, a metà, senza poter andare né da una parte né dall’altra. Quello che cerchiamo di fare è trovare il lato, diciamo, “figo” o almeno romantico di questa condizione.

Una cosa che mi sono trovato a pensare, dopo aver ascoltato questo disco, è che praticamente la Love Gang è un nuovo modello di posse. Sei d’accordo? È una cosa importante per voi o vi è semplicemente capitato?
Sono assolutamente d’accordo. Penso che questo sia il grande punto di forza del nostro collettivo. È bello vedere progetti molto diversi, come Polaroid e Rehab, uscire dallo stesso gruppo di persone e trovare un pubblico anche in parte condiviso. Questa della posse, come dici tu, o della crew, è sempre stata una mia ossessione: il mio gruppo preferito in questo senso è il Wu-Tang Clan, ma ovviamente siamo stati anche molto influenzati dal TruceKlan.

Per esempio, In The Panchine, che ti citavo prima, era una cosa fichissima perché aveva da un lato una componente quasi satirica, si vedeva che si prendevano meno sul serio degli altri rapper, ma dall’altro c’erano i pezzi di Chicoria che parlavano di realtà sociali toste, di emarginazione e di tossicodipendenza erano molto più reali di tutte le cose che si erano viste in giro fino a quel momento. Il fatto che queste due dimensioni coesistessero in un unico prodotto è una cosa che mi ha sempre fomentato, secondo me quella è la forza del rap. Per come la vedo io, il rap è il genere della contraddizione, come il classico rapper che viene dalla strada ma poi fa la canzone sulla maglietta firmata. Sono contento se queste contraddizioni si ritrovano anche nel mio disco.

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A proposito del Chico, in “2008” c’è anche lui sulla traccia insieme a Ketama, suona un po’ come una benedizione. Il vostro legame con Chicoria è noto e risale agli inizi della Love Gang, ma mi racconti com’è nata questa collaborazione?
Abbiamo registrato quasi tutto il disco a casa mia, che nell’ultimo anno ho condiviso con Pretty Solero e Ketama, quindi c’era sempre un certo viavai. Chicoria è stato uno dei primi a supportare il nostro progetto, tanto che la mia prima produzione l’ho fatta per lui e Gast, “A tavoletta”, e poi con la sua etichetta Smuggler’s Bazaar ha prodotto Ketam City. Per me tra l’altro è uno dei rapper più sottovalutati della scena, è stato davvero innovativo, sia per il genere di tematiche che per la tecnica, un po’ “assurda” ma super riconoscibile. Per un paio d’anni, qualunque ragazzino si mettesse a fare due rime per gioco su una base si ispirava proprio a lui.

Lui non chiudeva le rime prima che andasse di moda!
[Ride] Esatto! E poi era il king delle sporche, anche se non gli viene riconosciuto molto spesso. Quindi sono super contento che ci sia, poi ci tenevo a mettere nel disco almeno un beat più old school, più simile alle cose con cui ho iniziato prima della trap, e con “2008” ce l’ho fatta.

A proposito del suono, in che direzione ti sembra stia andando il rap italiano e che evoluzione vedi per te come producer nel futuro?
Ho già visto un paio di momenti in cui il genere si è evoluto, sia a livello di immagine, sia di dimensioni del business, che di suono. Mi sembra che già ora sia molto diverso da com’era quando è iniziato. Io naturalmente cerco sempre di tenermi al passo e aggiornarmi senza tradire il mio stile. Diciamo che il suono trap, che ha rappresentato un momento fighissimo per la scena italiana, ha forse già fatto il suo tempo, ha raggiunto la saturazione, anche per una banale questione numerica. Però vedo già degli spunti interessanti in giro, per esempio parlando del nostro gruppo l’unico vero disco trap duro e puro è stato Oh Madonna di Ketama, mentre già Rehab va oltre e ora con Ketama sto lavorando a tracce sempre meno rappate e più cantate.

Però c’è anche da dire che tra i produttori rap c’è spesso l’idea che l’evoluzione naturale e l’obiettivo massimo sia quello di via via avvicinarsi alle cose più pop. Anche produttori che mi piacciono tantissimo, ogni volta che faccio qualcosa di un po’ più melodico, cantato o pop subito gridano al capolavoro; il che ovviamente mi fa piacere, sono anche d’accordo, però mi piace anche cercare i fenomeni più rozzi, più lontani dai classici canoni di melodico e ballabile che tirano. Negli ultimi tempi ho visto diverse cose fighe in Italia: mi vengono in mente i Sxrrxwland, che sperimentano con sonorità distorte e dissonanti, e poi mi piace tantissimo Massimo Pericolo, che voi conoscete bene. Sono sempre attratto dallo “sporco”, dall’amatoriale, diciamo. Quella è sicuramente un’area da esplorare insieme al versante più pop della faccenda.

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