Ci siamo innamorati di Mim Suleiman
Foto via Ortigia Sound System.

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Musica

Ci siamo innamorati di Mim Suleiman

Hai sentito la sua musica che mescola techno e tradizione africana giocando a GTA V, noi siamo andati a conoscerla meglio.

Questo articolo fa parte della collaborazione tra Noisey e Ortigia Sound System: Mim Suleiman suonerà a OSS sabato 28 luglio su una barca. Per comprare i biglietti visita il sito del festival.

Incontro Mim Suleiman nella hall di un albergo dimesso dove Milano sfocia nell’autostrada, prima della sua esibizione alla serata We Riddim. Dato che l’ultima mail organizzativa è stata scambiata nel corso della notte e ci davamo appuntamento per “domani”, non sono certa di dover essere qui “oggi” alle 16. Invece pochi minuti dopo le 16 Mim compare tra le porte dell’ascensore e ridendo confessa lo stesso dubbio; passano pochi altri minuti perché mi renda conto che [ride] sarà l’indicazione più ricorrente in questo articolo.

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Breve carrellata degli ultimi otto anni nella vita di Mim Suleiman e nella cronologia del mio Spotify: Mim Suleiman incanala le influenze musicali che ha maturato durante gli anni passati nella natale Zanzibar e, in seguito, a Birmingham, dove si trasferisce per insegnare metallurgia, in un progetto che mette insieme cantautorato, sonorità taraab, e poi funk, dance, techno. Il primo album, Tungi, è del 2010. L’ultimo, Kawaida, è del 2017. Nel mezzo Mim non solo è diventata una leggenda a Zanzibar, ha fatto gig in tutto il mondo, pubblicato quattro album, partecipato alla colonna sonora di GTA, è stata prodotta da guru come Maurice Fulton e richiesta di ‘presentare’ “un festival swahili nel Regno Unito,” rifiutando “perché non ho mica 80 anni”, rappresentato Zanzibar al Young African Commonwealth Event dei Commonwealth Games, scritto un libro di cucina che uscirà all'inizio del prossimo anno; ma è stata attiva per dare spazio e visibilità alle donne dell’Africa orientale e alla loro storia.

Un sacco di cose, di cui parlare in un’intervista sola.

Noisey: La prima domanda riguarda il tuo passaggio alla produzione musicale: prima avevi un lavoro completamente diverso, insegnavi metallurgia alla University of Birmingham. Ma la musica era parte della tua vita anche prima che la facessi attivamente, no?
Mim Suleiman: [Ride] Ci stavo pensando, perché vista da oggi è ovvio che la musica sia sempre stata parte della mia vita interiormente. Anche perché sapevo che nessuno mi avrebbe ascoltato o capito se avessi detto che volevo fare musica, e se ne parlavo ne parlavo scherzando: “Potrei cantare…” “Come no, come no.” Ma la musica è sempre stata presente intorno a me, soprattutto musica classica egiziana in casa, e musica taraab che sentivo per strada o alla radio.

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Ok, ma cos’è successo allora poi—quando hai cominciato davvero a fare musica?
[ride] Sono andata al mio primo festival, il Womad Festival. Ci sono arrivata e sono impazzita, “Perché nessuno me l’ha detto prima?!” [ride] Mi sentivo come se fino a quel momento mi avessero privato di qualcosa, avevo quasi 30 anni ed era il mio primo festival. Quando il lunedì sono tornata al lavoro mi sono resa conto che avevo bisogno di un hobby—allora perché non cantare? Mi sono iscritta a un corso di sei settimane all’università. Ma non riuscivo a cantare le canzoni inglesi che mi davano da cantare, cioè, erano belle ma non facevano per me. Finché un giorno la docente ci ha fatto cantare della musica sudafricana e all’improvviso cantavo a pieni polmoni. La mia prima esibizione è stata con il coro che poi si trovava a casa della mia insegnante, l’abbiamo fatta in una chiesetta, è durata 15 minuti e ci avranno pagato sette sterline a testa [ride]. Dopo quella volta ho semplicemente cominciato ad andare a un sacco di festival, ho lasciato il lavoro d’insegnante per fare musica, e tutti hanno sicuramente pensato che ero matta.

Quello che ti contraddistingue è un clash di ritmi e lingue, dalla dance alla techno ai ritmi taraab, dallo swahili all’inglese. Ho provato a trovare una definizione a quello che fai ma… be’, ho lasciato perdere.
Sì, hai fatto bene. È musica.

Come ti sei avvicinata alla musica elettronica?
Adoro ballare quindi mi sono sempre piaciute la disco, il funk, la musica dance. Infatti quando ho cantato davanti alla regina [Elisabetta II, ai Commonwealth Games] mi è collassata la caviglia, perché mi sono distrutta i piedi ballando e saltando su e giù dal palco. Suono anche le percussioni. Per quanto riguarda il fatto che canto sopra la musica elettronica, semplicemente con Maurice [Fulton] abbiamo pensato che avrebbe funzionato per Tungi. Mi fido di Maurice e del suo gusto, mi fido del suo lavoro, io faccio il mio e poi ADDIO! [ride] Comunque mi piace fare cose diverse: ho anche un set tradizionale con cui suono i pezzi elettronici, per esempio di "Oya Oya Oya", "Wazanzibari" e soprattutto "Mingi" c’è anche una versione acustica in cui mi accompagna una band con cinque-dieci persone, in casi fortunati siamo state anche quattro donne e un uomo—evviva! [ride] Sarebbe bellissimo avere una band di sole donne con cui spaccare tutto.

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E qui mi ricollego a un’altra parte importante della tua carriera: l’attivismo. Ho visto uSista, in cui il tuo fine dichiarato è “dare visibilità alle donne dell’Africa Orientale”.
È importante parlarne, perché come donne dell’Africa orientale non abbiamo alcun riconoscimento per l’arte che produciamo—non per cattiva intenzione, ma perché a volte la gente non ha gli strumenti per capire il valore dell’arte. Quando tornavo a Zanzibar all’inizio, chi mi incontrava mi chiedeva sprezzante, “Ah, quindi sei una musicista?” e mi guardava dall’alto in basso—e non succede solo lì, ma anche spesso è successo nel Regno Unito. Mi chiedevano: “E ti pagano i voli?” Be’, se li pago non è un lavoro, no? È una vacanza. Nessuno a Zanzibar riconosce quello che ha fatto Bi Kidude, per esempio, né la sua voce straordinaria né quello che ha fatto per la musica e il ritmo dell’isola. Nessuno ha documentato la sua storia, e ho la sensazione che preservare la propria cultura non interessi alle nuove generazioni.

Non pensi che le nuove generazioni stiano facendo sentire la loro voce più di quelle che sono passate, sia nel campo artistico che in quello dell’attivismo?
Posso parlare solo di quello che conosco. Il fermento che vedevo ai tempi di mia madre non c’era già più ai miei tempi, né c’è oggi. Prendi "Nyuli ", che riprende il ritornello di un gioco per bambini ma in cui ho inserito parole intese per ‘risvegliare’ chi le ascolta. Quello che speravo era di attrarre l’attenzione del pubblico perché poi ascoltasse, e invece, lo dicevo proprio recentemente a persone che conosco a Zanzibar: “La cosa che mi rende triste è che voi non ascoltate, né leggete, le parole di nessuno". Ah, la musica la adorano, ormai a Zanzibar impazziscono, ma non ascoltano le parole. Di cosa parlo non lo sanno. Ma in generale, penso che la risposta sia sì: la vita moderna ha un modo suo, nuovo, di scorrere, e solo le nuove generazioni vi hanno pieno accesso. Il mondo virtuale ha creato così tante possibilità, non saprei nemmeno da dove partire. Non è colpa delle nuove generazioni. Non possono sentire la mancanza di qualcosa che non hanno vissuto… Non possono preservare cose che nemmeno conoscono.

Nonostante tutte le tue collaborazioni di rilievo, i producer di spicco, GTA etc, non punti tutto sulla promozione "pressante" che usano invece altri artisti. Perché?
Perché non cerco di farmi notare? Conosco persone che sono sempre in radio o iniziano collaborazioni con la moda, etc—quello che io penso in questi casi è che magari il tuo nome è ovunque, ma non vuole dire niente. E invece bisogna essere saggi con il modo in cui si usa il proprio tempo: io insegno nelle scuole, nei workshop, nei campi profughi, e poi onestamente sono diventata madre proprio quando iniziavo il mio percorso musicale e ora ho quasi 50 anni—non posso fare finta di essere una che non sono. Conosco persone che fanno sempre notizia ma poi non fanno un cavolo. Io faccio tutto. Ho risposto io alle vostre mail! [ride]

Trovi la musica di Mim su Juno, iTunes, Bandcamp o Spotify.

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