La leggenda di Paul Kalkbrenner

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Musica

La leggenda di Paul Kalkbrenner

Ripercorriamo la carriera di Paul Kalkbrenner prima del suo concerto all'I-Days Festival, da quando scoprì la techno dal lato sovietico del muro di Berlino fino al suo successo planetario.

Ultimo sabato d’inverno. Masada, a Milano. Dieci e mezza di sera. “Piovra, tu che sei un DJ: mi chiedono un articolo su Kalkbrenner. A me piace molto, ma non mi sento pronto per scriverne, cosa devo studiare?”
“Guarda, se vuoi ti presto un libro.”
“Su Paul Kalkbrenner?”
“No, no, non c’entra un cazzo con Kalkbrenner. Però potrebbe piacerti.”
“Ah. Grazie.”
“Però Kalkbrenner è un po’ il Moby degli anni zero. Secondo me te la risolvi così. Vado sotto cassa.”

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E ci ho pensato, a questa cosa del Moby anni zero. Le premesse sono diversissime, il turbocapitalismo USA da una parte e la Berlino divisa da un muro dall’altra, ma effettivamente sono tante le sfumature che avvicinano i due musicisti, oltre al taglio di capelli. La gavetta, l’underground, l’esplosione e il riconoscimento ben oltre e ben al di fuori del proprio ambiente. Poi però basta sentirli parlare per trovare una frattura insanabile, e anzi, per farne un vero e proprio percorso con la stessa meta: il successo planetario, ma compiuto attraverso un percorso profondamente differente. Da una parte ci sono irrequietezza, eccessi, mancanza di autocontrollo, entusiasmo perenne, trent’anni di attivismo vegano e futurismo, oltre alla delusione di essere eterosessuale. Dall’altra, al contrario, ci sono abnegazione, fermezza e quasi isolazionismo da parte di un artista che quando crea si aliena dal resto del mondo, perché “il silenzio è fondamentale”. Paul Kalkbrenner, in buona sostanza, è un esempio lampante di quanto un artista possa essere intrinsecamente, incontrovertibilmente, incommensurabilmente tedesco.

Paul è sempre stato un predestinato, fin quando da ragazzino vide crollare il muro e iniziò ad ascoltare elettronica grazie agli americani che, volendo reprimere la propaganda sovietica, sostituivano alle stazioni radio moscovite un palinsesto tutto occidentale; una di queste nuove stazioni passava mixtape techno a tutte le ore, senza dare spiegazioni, l’importante era che i messaggi dei comunisti non uscissero dalle porte del Cremlino. Lui aveva appena dodici anni, ma crebbe con davanti agli occhi le incongruenze e i paradossi di Berlino est, Berlino, l’Europa, l’occidente. È stato così che nei primi ‘90 ha iniziato a fare clubbing, e poi a mixare e mettere dischi per i locali di una città che cercava di rimarginare le proprie ferite a 120 colpi al minuto. È quasi paradossale che un paio d’anni fa a Rolling Stone abbia detto che per lui la techno è finita proprio in quel periodo, che dopo il ‘93 il genere perse il suo fascino, quando iniziarono ad arrivare “cose come 'Somewhere Over The Rainbow' e la canzone dei Puffi in versione techno”. Un discorso che ho sentito innumerevoli volte ma da parte di artisti di nicchia, spesso metallari indefessi che ricordano i bei tempi in cui ci si scambiavano le musicassette e che difficilmente con i loro lavori sono usciti dal circuito degli appassionati. Fa insomma abbastanza impressione leggere di un artista tra i più celebri dell’elettronica contemporanea, che riempie arene e il cui nome svetta sui cartelloni dei festival più importanti, che approccia la propria musica e il proprio lavoro con riverenza e lucido, consapevole oltranzismo.

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Fotografia promozionale.

Non provare a chiamarlo DJ, perché Kalkbrenner ha smesso di lavorare alla musica altrui nel 1999: da quando uscì Superimpose su BPitch Control (etichetta di un’altra berlinese che negli ultimi venticinque anni ha detto due o tre cose in ambito elettronico, Ellen Allien), Paul si è sempre e solo presentato sul palco per suonare. Per questo la sua strumentazione ai live è particolarmente nutrita, per questo non lo vedi mai viaggiare con carrellate di vinili: da vero cultore della materia e del suono, per lui un concerto è tale solo se il suono viene costruito sul momento, se l’artista vive il momento della creazione ogni sera, su ogni palcoscenico, davanti a ogni pubblico. Un attore di teatro nell’epoca del cinema, un caso unico all’interno di una scena dove anche i produttori migliori sfruttano la dimensione live per mischiare il proprio materiale con quello di altri, il sé con l’altro da sé, Paul Kalkbrenner ha come unico obiettivo quello di sviluppare, rinnovare, modificare, esplorare nuove soluzioni ad ogni data, vivendo ogni giorno l’emozione del potere totale e assoluto sul proprio suono. Ecco spiegata la ragione per cui ogni volta che lo vai a sentire percepisci una sfumatura diversa, un colore nuovo. Quell’ombra che la volta scorsa non avevi notato, semplicemente non c’era.

Di ombre e sfumature poi, Paul ne fa una ragione di vita: tutto ciò che compone è suo, solo e soltanto suo, e quando entra in studio—rigorosamente ad anni di distanza dall’ultima volta, per riscoprire l’ambiente a ogni registrazione come fosse la prima—non ascolta niente altro. La musica è solo un output, non può mai essere un input. L’album che risulta dai mesi, a volte dagli anni di lavoro, deve necessariamente essere una sintesi di se stesso e questa catarsi interiore crollerebbe nel momento in cui un brano o anche solo un beat venisse inficiato da qualcosa o qualcuno di esterno. Ecco spiegato come sia possibile che uno dei nomi di punta dell’elettronica contemporanea non sappia praticamente nulla di elettronica contemporanea. E quel poco di cui sa non è che l’abbia soddisfatto particolarmente, vista l’opinione che ha dell’EDM: “sono bassi che droppano e champagne, ma non voglio criticarla troppo, ha un pubblico molto giovane, e immagino che quando a quindici anni andavo al Bunker in mezzo alle strobo fosse più o meno la stessa cosa”.

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La scrittura e la produzione di Kalkbrenner sono processi fortemente isolazionisti, quasi alienanti, e non c’è spazio per niente e nessun altro. Dopo quindici anni di underground, l’approdo su una major come Sony è stata una nuova sfida: dal fare tutto da solo, coi propri tempi e le proprie modalità, al dover rispondere e rendere conto a qualcuno, soprattutto a livello commerciale. Perché è chiaro come il sole che ascoltare i brani di 7, da “Feed Your Head” a “One Million Days”, regali un’esperienza completamente diversa rispetto a Self o Superimpose. Il taglio dritto, asciutto e sincopato della cassa di “Queer Fellow” si è ormai disperso negli spazi accoglienti e dilatati di un’assimilabilità quasi pop, ed è difficile credere che tornerà mai. Eppure Paul ha mantenuto una sua coerenza: per lavorare a 7 ha avuto la possibilità di utilizzare lo sterminato archivio della Sony, finendo addirittura per campionare i Jefferson Airplane, ma non ha voluto nessun ospite. Anzi, l’unica critica mai espressa durante le interviste di quel periodo fu che aveva troppa gente attorno mentre lavorava.

Fotografia di Johannes Diboky.

Esiste tuttavia un’eccezione, a confermare la regola dell’eremitaggio musicale di questo berlinese: nel 2016, fresco del successo di 7, ha deciso di lanciare un’operazione speleologica, ricostruendo il suo passato musicale immergendosi in quei mixtape che ascoltava da ragazzino subito dopo l’unificazione: Back To The Future è una raccolta di materiale del periodo d’oro della techno, dall’87 al ‘93 (perché, dopo quel momento la techno è diventata commerciale ed è morta, ormai lo sai), ripescato nientemeno che da YouTube. Il primo e l’unico caso in cui Paul abbia mai modificato anziché creato da zero dal 1999 ad oggi. E per l’occasione ha messo tutto disponibile gratuitamente su SoundCloud. Niente Spotify, niente download a pagamento, niente royalties, Sony deve aver lasciato un discreto spazio di manovra al proprio artista perché potesse permettersi una cosa del genere. E lui, sempre in quell’intervista a Rolling Stone, si augura che questi mixtape vengano sparati “nelle casse di tutte le Fiat 500 e delle piccole Peugeot” durante l’estate, perché l’intento di questa operazione è solo e soltanto dare spazio e risalto alle origini di un sound ancora oggi così pivotale.

Questa non è stata che l’ennesima tappa di un percorso di diffusione e divulgazione della techno che Kalkbrenner ha intrapreso ormai più di dieci anni fa: dopo averla portata al cinema nei panni di DJ Ickarus in Berlin Calling (trampolino di lancio anche per il fratello Fritz, la cui voce modella le dune e i castelli di “Sky And Sand”, uno dei picchi di una grandiosa colonna sonora), l’ha letteralmente messa davanti alla nazione. E qui ritorniamo all’idea originale, al parallelismo con Moby non troppo naturale ma nemmeno esageratamente forzato. Perché se Richard Melville Hall dice di essere amico di Hillary Clinton e di avere contatti nelle agenzie di governo, Paul Kalkbrenner è stato incaricato nientemeno che dal proprio Paese di presiedere alla celebrazione per i venticinque anni della caduta del muro. E lui, rigorosamente da solo, è salito su un palco riempito solo dalla strumentazione necessaria per ricreare quelle atmosfere da zero, sotto lo sguardo della sua città e del resto dell’occidente, con un sorriso sicuro, per festeggiare. Nel 2014, sotto la Porta di Brandeburgo, la Germania intera ha ballato sulle note di “Dockyard”, quel “right here, right now” quasi programmatico, sbattuto in faccia al mondo in un momento di aggregazione unico, probabilmente incomprensibile per tutti noi che quelle cicatrici non le portiamo dentro.

Paul Kalkbrenner suonerà al prossimo I-Days Festival, che si terrà tra giovedì 21 e domenica 24 giugno nell'area Expo di Rho, appena fuori Milano. Se poi ti stiamo molto simpatici, ci sarà anche la Cameretta di Noisey, uno stand tutto per noi.

Acquista i biglietti per il concerto e scopri il resto della line-up del festival. Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Segui Noisey su Instagram e Facebook.