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A10N1: Skammerz Ishu

Quelle notti elettriche

Un racconto di Adam Wilson estratto dal nostro ultimo numero.

Dipinti di Brad Phillips.

Adam Wilson è l’autore del romanzo Flatscreen e della raccolta di racconti brevi di prossima uscita What’s Important Is Feeling. I suoi lavori sono stati pubblicati sulla Paris Review, Tin House e The Best American Short Stories 2012. Vincitore del Terry Southern Prize for Humor della Paris Review, è stato recentemente incluso nella lista delle 50 persone più divertenti di Brooklyn compilata dal Brooklyn Magazine. Brad Phillips è un pittore canadese che ritrae scene inquietanti di vita moderna, e abbiamo pensato che i suoi lavori fossero perfetti per illustrare la storia di Adam. Le opere di Brad sono state esposte recentemente alla Louis B. James Gallery di New York.

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Al college leggevo Karl Marx e sniffavo cocaina. Vivevo con quattro altri ragazzi. I soldi ci arrivavano dai genitori, dai prestiti studenteschi o da lavoretti nel campus. Uno dei ragazzi, che chiamavamo Spine, veniva dal Connecticut.

Spine ci forniva la droga. O meglio, lo pagavamo facendo gli esami al posto suo. Ormai ero entrato in un ciclo infinito: avevo bisogno di droga per finire i saggi di Spine, e facevo i suoi esami per pagarmi la droga. Spine passava gli esami con il minimo dei voti, ma non gli importava. Aveva già un lavoro che lo aspettava dopo la laurea, sarebbe diventato un agente immobiliare per un suo zio dal sangue blu.

Una notte stavo combattendo con un saggio da 20 pagine sulla teoria del lavoro quando sentii un rumore di vetri rotti. Erano circa le due del mattino.

Spine si precipitò nella sala tenendo in mano una mazza da baseball. Indossava dei boxer e un accappatoio. Dalla porta aperta di camera sua riuscivo a vedere due ragazze nel suo letto. Una aveva le dita dei piedi con lo smalto arcobaleno. L’altra aveva una chiave della vita egiziana tatuata sulla caviglia. Nessuna delle due era la ragazza di Spine. Era un’altra ingiustizia, anche se non ero sicuro chi ne fosse vittima.

“Che cazzo era?” disse Spine.

Gli altri uscirono dalle loro stanze. Mike aveva in mano il Taser che aveva comprato su eBay, quella specie di bacchetta a scariche elettriche usata dalla polizia. Certe notti ci davamo la scossa a vicenda. Donny aprì il suo coltello a farfalla. Chris non aveva nessun’arma. Arrivarono altri rumori dal salotto.

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“Cazzo,” disse Spine.

Al piano di sotto c’era un ragazzo. Un ragazzo nero, devo dire, perché fa differenza. La differenza era che noi volevamo piacere ai neri. Nessuno di noi aveva mai avuto amici neri. Al college, i ragazzi neri se ne stavano per conto loro.

Il ragazzo nero nel nostro salotto sembrava quasi un senza tetto. Odorava di plastica bruciata e aveva buchi sulle Nike e nel maglione. Le sue labbra erano screpolate e tinte di bianco. Si tolse di dosso i pezzetti di vetro come se non fosse consapevole che lo stessimo guardando. Si grattò le braccia e biascicò qualcosa tra un respiro e l’altro.

“Ehi tu” disse Chris.

L’intruso ritornò in sé. Afferrò una delle chitarre di Spine con due mani come se stesse per colpire un rovescio. Ma la chitarra era pesante. Invece di colpirci, o di lasciare la chitarra e scappare fuori dalla finestra, l’intruso si sedette sul pavimento e iniziò a suonare.

La chitarra, una ES-335 semi acustica con le rifiniture color ciliegia, era l’orgoglio e la gioia di Spine, la preferita delle cinque chitarre che aveva. Lo avevo visto lucidarla per più di un’ora.

L’intruso suonò un accordo a corde vuote, poi prese un do. Iniziò a piangere.

“Cazzo,” disse Mike.

Eravamo ancora tutti intorno al tipo. Io non avevo nessun’arma, ma notai che stavo brandendo il laptop di Spine come se lo avessi voluto sfasciare sulla faccia dell’intruso.

Mike continuava ad accendere e spegnere il Taser, penso per far vedere a tutti come funzionasse, e poi se lo rimise in tasca. Chris riaprì i pugni. Donny richiuse il coltello. Io riposi il laptop sul tavolo. Spine aveva ancora la mazza in mano. L’intruso stava ancora piangendo. Le ragazze, con addosso le t-shirt di Spike, guardavano dalle scale.

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Presi un bicchiere d’acqua per l’intruso. Tirò su col naso e si asciugò le lacrime.

“Tutto bene?” disse Donny.

L’intruso annuì. Fece un piccolo sorso, poi uno più grande, poi si schiarì la voce. “Sigaretta,” disse. La sua voce era flebile e debole.

Spine prese una sigaretta, la accese e la passò all’intruso. Per un secondo le loro dita si toccarono.

L’intruso fece un tiro profondo mentre dava un’occhiata al nostro appartamento. Il pavimento era ricoperto di spazzatura e calzini induriti. Dal soffitto pendeva una bandiera a fantasia psichedelica con la faccia di Bob Marley stampata sopra.

Era la fine di aprile, una notte fredda. Fuori pioveva. Il vento soffiava la pioggia attraverso la finestra rotta.

L’intruso tremava. Fece un altro lungo tiro. “Che ne dite di una birra?” ci chiese. La sua voce era più forte, più sicura.

Donny ne prese due dal frigo. Una la passò, l’altra la aprì per lui.

L’intruso fece un lungo sorso. Si leccò le labbra e disse, “Ahhh.”

Mi sedetti sulla poltrona La-Z-Boy. Spine, Donny e Mike erano sul divano. Nessuno raccoglieva i pezzi di vetro rotto. Non avevamo una paletta per la spazzatura. Le ragazze si avvicinarono al corridoio, e l’intruso se ne accorse.

“Ehi ciao,” disse, cercando di apparire garbato. Spine puntò il dito verso l’intruso. “Guardatelo,” disse. Per un secondo entrammo nel panico. Spine guardò la mazza, poi scoppiò a ridere forte. Si schiaffeggiò persino il ginocchio.

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Chris cominciò a preparare un cilum di erba. Spine prese un’altra chitarra, un’acustica. Cominciò a suonare 12 barré in mi, prendendo anche le none per bullarsi, scivolando con la mano su e giù per la tastiera. L’intruso cercava di stargli dietro, ma non era bravo come Spine. Una delle ragazze tirò fuori una bustina dalla tasca di Spine. Sistemò le strisce sul tavolo, e l’intruso si tirò su di morale.

“Prima tu,” disse Spine. Passò all’intruso una banconota da cento arrotolata. L’intruso era scettico. Poi sniffò una striscia e restituì la banconota a Spine. L’unica cosa che mi ricordo poi è che era in piedi e cantava. Cantavano anche Spine, Mike e Donny. Ridevamo tutti, anche le ragazze.

L’intruso si chinò e sniffò un’altra striscia. Tornò a suonare lo stesso accordo, inserendosi a tempo nella canzone.

“Adesso manca una sola altra cosa”––ba-wah, ba-wah––“che i miei nuovi amici possono darmi” ––ba- wah, ba-wah––“farmi urlare, piangere e supplicare.”

“Aspetta,” disse Spine.

“Per una toccata di quelle gambe!”

L’intruso fece l’occhiolino alle ragazze, tirando fuori la lingua.

“Ew,” disse miss tatuaggio sulla caviglia, arricciando il suo piccolo nasino all’insù.

Miss dita dei piedi arcobaleno sembrava non aver sentito.

“Ehi,” disse Spine. L’intruso prese un’altra sigaretta dal pacchetto sul tavolo.

“Ce l’hai un nome?” chiese Spine.

“Jess,” disse l’intruso.

“Un nome da ragazza,” disse Spine.

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“È vero,” disse Jess.

“Bene Jess, non possiamo permetterti di rubare la nostra roba.”

Jess guardò fuori dalla finestra. Vidi il resto della notte balenargli negli occhi, la scena in cui lo avremmo cacciato fuori. Di sicuro non avrebbe smesso di piovere fino al mattino. “Però c’è un divano sotto il porticato, al coperto,” disse Spine. “Se ti ci vuoi buttare.”

In quel periodo stavo venendo a patti con la mia vita. Arrivò maggio, i vestiti andarono via––prima i maglioni, poi i calzini e le calze––studentesse a piedi nudi che prendevano il sole in cortile, libri aperti sulle pance bruciate dal sole.

Ero in fissa con Trotsky, sognavo il Messico. Rimasi seduto nella mia stanza a leggere mentre gli altri facevano festa con Jess al piano di sotto; ascoltai musica mariachi, sniffai bouganvilles immaginarie, mangiai enchiladas. Quando chiusi gli occhi vidi Leon su quel treno merci, testa intontita a riposare su un sacco di riso mentre sfrecciava su Tampico al tramonto. Vidi Frida Kahlo mentre lo cavalcava lentamente, inarcando le sopracciglia e arrotolando con le dita le punte dei suoi baffi. Certe notti potevo sentire il rompighiaccio di Stalin diffondersi dal centro del mio cervello.

Qualcuno bussò alla porta.

“Entrez-vous,” dissi. Isabelle, la vera fidanzata di Spine, indossava un vestito di lino leggero allacciato sull’ombelico. Prese un libro dalla mia scrivania, sfogliò le pagine, lo rimise giù. Prese una sigaretta dal mio pacchetto ma non la accese.

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“Il nuovo inquilino sembra interessante,” disse.

“Questa è la parola giusta per lui,” dissi.

“Interessante. La situazione è, be’, non so esattamente.”

“Bene. Robert è certamente infatuato,” disse, usando il nome vero di Spine.

“È Spine anche per te,” dissi.

“Spine, Spine, Spine,” disse sdraiandosi sul futon a pochi centimetri da me, con la testa sul cuscino che sapeva di shampoo e di un vaghissimo sentore di sudore. Ci eravamo sdraiati così centinaia di volte.

Avrei potuto scivolare sotto il lino, posare il palmo della mano sulle sue mutandine e sentire il calore venire fuori dalla sua pelle. Magari non mi avrebbe fermato.

“Quindi lui è entrato spaccando una finestra,” disse, “e lasciate che si trasferisca qui.”

“Spine gliel’ha consentito,” dissi. “E poi non si è trasferito. Si è solo buttato un po’ sul divano a riposare.”

Se avessi detto a Isabelle di miss tatuaggio sulla caviglia e miss dita dei piedi arcobaleno le cose sarebbero solo peggiorate. Probabilmente mi avrebbe mandato a fanculo. Magari mi avrebbe picchiato. Sicuramente avrebbe aspettato di essere da sola per piangere. Avrebbe creduto a qualsiasi balla detta da Spine.

Donny lavorava da Campus Convenience. Due volte a settimana, nel pomeriggio, la pausa pranzo dei colleghi e del capo di Donny coincideva, lasciandolo solo al negozio per 20 minuti. Quando non c’era nessuno in giro Donny ci chiamava al telefono di casa urlando “Biotch!” nella cornetta. Prendevamo gli zaini e andavamo a ripulire gli scaffali, a far rifornimento di surgelati.

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Spine insistette per far venire anche Jess.

“Non lo so, dai,” disse Jess. “Non dipende da me.”

“Ma sì,” disse Spine. “Easy.”

Spine prese un passamontagna con due buchi all’altezza degli occhi. “Fidati,” disse.

“Togliti quel cazzo di passamontagna,” dissi. “Non è mica un film.”

“Vi comportate in modo strano,” disse Jess. “C’è qualcosa che non va.”

Ma poi salimmo tutti in macchina e ci dirigemmo al negozio.

Corremmo attraverso i corridoi pieni di adrenalina. Mi sentivo vivo e sexy. Rubammo Slim Jim, cracker Ritz, vermetti gommosi. Jess si precipitò fuori dopo pochi secondi con in mano solo una barretta di Snickers. “Io non gioco,” disse quando tornammo a casa. Quella notte banchettammo. Spine comprò una salsiccia lunga un metro da Stop & Shop, e la tagliammo a pezzettini per condire le nostre pizze surgelate rubate dal negozio. Mischiammo la vodka alla Mountain Dew.

Jess bevve pochissimo. Non lo vidi mai mangiare. Stava aspettando, teneva d’occhio Spine per vedere quando avrebbe tirato fuori le strisce.

Verso l’alba eravamo fatti come zucchine, guardavamo al panorama montagnoso del nostro salotto e cercavamo di recuperare le ultime tracce di polvere delle scorte segrete di Spine sulle copertine dei cd.

Miss tatuaggio sulla caviglia e la sua amica erano nervose. Non massaggiavano più collo e spalle di Spine, e si erano sdraiate per terra a fissare il faccione di Bob Marley. Spine cercò di convincere Jess a uscire per trovare un’ultima botta.

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“Non lo so, dai” disse Jess. “Non è ora.”

“Amico,” disse Spine, mettendo una mano sulla spalla di Jess. Parlava con una voce calma e profonda, come un allenatore di box che carica il suo guerriero per l’ultimo round. “Ora o mai più.”

Uscimmo tutti fuori. Jess guidava il gruppo. Il sole si affacciava all’orizzonte, minacciando di bruciare l’oscurità. Le strade e i prati odoravano di rugiada. Lo seguimmo, come in trance, per tutto Longfellow Bridge mentre vedevamo avvicinarsi lo skyline della città. Camminavamo da un’ora. Sudavo, ero mezzo addormentato, o forse stavo camminando nel sonno e il mattino era un sogno surreale.

Jess ci condusse oltre Chinatown, nel vecchio campo di battaglia. Ci disse di dargli tutti i soldi. Per un secondo esitammo. Guardai un edificio alle spalle di Jess. Aveva le mani in tasca.

Spine tirò fuori il suo portafogli e ne estrasse una fresca banconota da cinquanta. Il resto di noi diede a Jess pezzi da dieci e da venti. Jess accartocciò i soldi nelle mani. Qualsiasi cosa stessimo acquistando, la stavamo pagando troppo cara. Jess ci disse di aspettare fuori. Ci accendemmo qualche sigaretta. Controllammo l’ora.

Quando tornammo a casa era sparito tutto: strumenti, tv al plasma, stereo, tutti i computer.

Jess aveva dei rinforzi, e conosceva un tipo con un camioncino.

Anche i mobili erano tutti andati; il letto matrimoniale di Spine, e anche il divano di velluto a coste pieno di buchi e strappi.

“Cazzo,” disse Spine. “Cazzo.”

Altro dal numero: Viaggio di colpa Il bus dei superflui