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Musica

Le recensioni della settimana

Quali dischi ci hanno fatto esprimere delle opinioni questa settimana: The Kolors, Ghali, Gucci Mane e altri.

Noisey è cresciuto e non usa più le faccine col vomito, ma le recensioni restano sempre scritte da persone piene di problemi che non vogliono necessariamente essere prese sul serio.

THE KOLORS
You (Baraonda)

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Non ho capito perché ci occupiamo dei The Kolors e perché me li abbiano assegnati da recensire. Detto questo però, posto che sono una cosa lontana anni luce da me e che non ascolterei volontariamente per più di due minuti, sarà che da quando firmiamo le recensioni ci siamo ammorbiditi, ma pensavo peggio. Confezionano un prodotto ben fatto, che funziona, canzoni che fanno il loro e suonano bene. Inoltre c'è un altro elemento secondo me abbastanza interessante, e cioè che riescono a essere un progetto di enorme successo pur incarnando almeno tre tendenze che al momento la musica italiana ama pochissimo: sono una band, pur andando anche in altre direzioni partono di base da una matrice "rock" o comunque chitarristica, e soprattutto cantano in inglese - cosa che davvero li rende praticamente delle mosche bianche nella radiofonia nazionale, il che non può che farceli stare un po' simpatici. A questo punto dovrei chiudere inventandomi qualcosa di originale, ma non sapendo cosa scrivere chiedo un parere al mio amico Tommaso, di professione millennial: "Vorrei essere Stash perché ha dei bei capelli".
JEAN LOUIS DAVID (FS)

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LIL YACHTY
Teenage Emotions
(Quality control / Capitol / Motown)

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Finalmente l'album di debutto dell'alfiere della bubblegum trap Lil Yachty vede la luce: non casualmente proprio a ridosso dell'estate, perché ne sarà senza dubbio la colonna sonora. Sicuramente la mia, considerato che non riesco a uscire da "Say My Name" e credo che chiamerò uno psicologo per aiutarmi. Questo perché il nostro tira fuori quelle "teenage emotions" seppellite nelle parti recondite del cervello che non rappresentano QUESTA generazione, ma in un certo senso un archetipo della giovinezza, valida per ogni era. Autotune usato spesso e volentieri come per sottolineare emotivamente quella "primavera" che tutti agita, in cui ti perdi, che ti spezza il cuore. Disarmante sia per i testi , che sembrano franchi e senza pose, tanto che gli perdoniamo anche l'ennesimo brano dedicato alla mamma (comunque meglio dei Sottotono), sia per la musica che a volte instupidisce a volte tira fuori delle linee melodiche che rivelano un soul profondo e inaspettato e una cura degli arrangiamenti per cui la diversificazione e l'incastro (che c'è, eccome se c'è) scivola via come acqua gassata. Insomma, l'unico neo è che è un disco un po' troppo lungo, ma d'altronde chi non desidera una primavera infinita?
REGREDITO MIAO (DB)

GHALI
Album
(Sto)

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Non percepisco troppo il bisogno di parlare in maniera approfondita e intellettuale di questo Album, dato che non credo che i suoi autori avessero un pensiero più complesso di "facciamo roba che spacca e possono ascoltare davvero tutti" in testa mentre lo scrivevano (il che, specifichiamolo, non è un male). Le mie opinioni, a freddo, sono le seguenti: 1) Album non è solo una serie di "Ninna Nanna" e "Pizza Kebab" ripetute ad libitum come avevamo paura fosse, il che è ottimo. 2) I pezzi che mi piacciono di più sono quelli latineggianti, quelli con le sonorità che mi sembrano quasi da tempi andati, quelli poppettoni e ballerecci—quindi "Liberté" e "Vida." E lo sono perché non me li aspettavo, e perché penso possano piacere tanto a me come a mia nonna. 3) Credo che i paragoni tra Ghali e x non abbiano molto senso: "Può diventare una cosa come Fedez," vero, ma alla fine l'unico pezzo davvero teen e scanzonato è "Oggi no," e quindi boh; "È lo Stromae italiano," può essere, ma anche qua le uniche davvero paragonabili sono "Boulevard" e "Happy Days," ergo non è che importi molto. Perché non essendo un disco monocorde, Album trova forza nel suo generale approccio musicalmente inclusivo, piacevole, pop—ciao "Milano," e ciao vocalità alla Pezzali sul "sì va bene dai" feat. beat alla "Passionfruit" che dai raga chissene se ci assomiglia, a Drake mica rompete il cazzo quando si prende le basi per farci i pezzi suoi. È una generale sciallata in cui un pezzo come "Ora d'aria," per quanto ok di per sé, sembra anche un minimo fuori luogo. È un disco interessante che potrebbe diventare super ascoltatissimo come rivelarsi solo una bolla che prima o poi scoppierà. Io spero nella prima opzione.
GIANNI FOH (EA)

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INSTITUTE
Subordination
(Sacred Bones)

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Se al primo ascolto di Catharsis, il primo album degli Institute uscito nel 2015, eravate rimasti come me a bocca aperta e poi avete passato i due anni successivi a dire a tutti che gli Institute sono "uno dei migliori gruppi di questo secolo", il primo ascolto di Subordination potrebbe risultare un po' tiepidino. Forse la colpa è di questi tempi in cui se una cosa non ti colpisce immediatamente come nuovissima tendi a scartarla e a passare a quella dopo—e qui gli Institute dei dischi precedenti si riconoscono subito, così la prima cosa che viene in mente è una certa nostalgia di Giddy Boys. Ma dopo alcuni ascolti Subordination si apre e rivela le sue perle: tanto per cominciare lo straordinario latrato del cantante Moses Brown—come se il tuo cervello per comunicare con te stampasse volantini di stampo anarchico con un ciclostile; poi c'è la capacità di questi pezzi di entrarti sottopelle e rimanerti in testa per giorni come un'ossessione; e poi c'è l'effettiva varietà della formula che con pochi elementi essenziali e un suono a dir poco grezzissimo riesce a tirare fuori pezzi come la centrale "Human Law", improbabile hit lenta e dissonante dalla struttura schizofrenica. In definitiva, gli Institute con questo album continuano sulla loro strada, quella che li porta in un mondo magico dove i Crass, il protopunk del Midwest, i Germs, i Cramps, i P.I.L. e gli incubi e ossessioni personali dei membri della band vivono tutti insieme in uno stato di costante tensione, un mondo che l'ascoltatore riesce a capire forse solo fino a un certo punto ma da cui non può non rimanere affascinato.
AHMIT AHMSHIT (GS)

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ELYSIA CRAMPTON
Spots Y Escupitajo
(The Vinyl Factory)

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Ora, sappiamo tutti che Elysia Crampton è una delle figure più importanti della musica degli ultimi anni, fino a qui tutto quello che ha fatto mi è piaciuto moltissimo, e la seguirò sempre con grandissima attenzione e interesse, ma… si può dire che questa uscita sembra lasciare un po' il tempo che trova? Si tratta di uno strano lavoro di nove pezzi lunghi al massimo 15 secondi (cose distorte di stampo molto cinematografico) e sei brani più propriamente detti, almeno in teoria, perché in realtà il primo di questi brani "veri", "Battle & Screams", in realtà non è altro che lo stesso concetto di quegli "spot" (vengono chiamati così) allungato fino a un minuto e venti. E poi abbiamo un brano di chiusura che è poco più che un loop con delle note di piano, e una "Chuqui Chinchay" che è una versione un po' più compiuta delle idee cinematografiche di cui sopra.
Spicca per inutilità un brano per solo piano di nove minuti sul cui senso mi sto ancora interrogando. I pezzi migliori sono "Gold Country Vapor", versione minimale dei caporales boliviani, e "Promesa" che a un primo ascolto mi era sembrata un po' "la solita cosa" ma invece non è male, però in generale resta davvero la sensazione di un lavoro un po' raffazzonato di cui non si capisce il senso. Confidiamo però che sia soltanto un mezzo passo falso (o poco comprensibile, magari mi sto perdendo io qualche chiave di lettura cruciale), nel percorso di un'artista meritevole della massima attenzione.
SONIA PAZZIA (FS)

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SÓLSTAFIR
Berdreyminn
(Season Of Mist)

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Alla fine della fiera non si è capito mica cosa sia successo tra i Sólstafir e il loro ex-batterista e fondatore Gummy. Un gran casino, accuse, dichiarazioni, triccheballacche, ma il merito della questione rimane ancora avvolto dal mistero a due anni e più dalla separazione, e un po' li si aspettava al varco, gli islandesi, per capire l'impatto di una defezione così importante. Salta fuori che Berdreyminn è di nuovo un disco dei Sólstafir, senza se e senza ma, ancora meno acido dei precedenti e ancora più lisergico e poppettaro. Ovviamente non se ne capisce un cazzo manco per sbaglio a meno che non si parli l'islandese, ma ormai ai testi dei Sólstafir abbiamo rinunciato dopo Köld, e sono quasi dieci anni. Per fortuna che rimangono un sacco di chitarroni effettati e di melodie sghembe e ragionevolmente drogate e tutta quell'atmosfera che ha fatto fortuna e felicità di un sacco di cuori teneroni. I cowboy dal Paese dei geyser sono sempre più raffinati, album dopo album, e questi, per quanto lunghi, sono via via sempre più ricchi (cori, tastiere, cose), ma allo stesso tempo accessibili, e non perdono mai la loro potenza immaginifica.
ARON GUNNARSON (AB)

NICO NIQUO
In A Silent Way
(Orange Milk)

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Ne ha fatta di strada la musica da quando quel signore là si trovava in un letto di ospedale con la musica a volume troppo basso. Ma la spinta a lasciarsi perdere nelle atmosfere rilassate e spaziali del genere probabilmente durerà quanto l'umanità. Dietro a titoli rubati a Miles Davis, qui troviamo il grime a gravità zero di Mumdance (senza l'elemento ritmico), le esplorazioni cosmiche di un Klaus Schulze, un elemento di finto lo-fi, e le più classiche reminiscenze Eno, filtrate attraverso quell'hypnagogic pop che un po' ci ha scassato il cazzo. Se vi piace farvi cullare (ma in questo caso un po' anche mangiare il cervello) dal mare dell'ambient, questo è sicuramente uno dei dischi migliori che potrete ascoltare quest'anno. Garantisce quella Orange Milk sempre più etichetta di riferimento per esperimenti in digitale che sembrano provenire direttamente da un futuro passato.
BRIAN GRIFFIN (FS)

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DRAGONFORCE
Reaching Into Infinity
(earMUSIC)

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Persi di vista Herman Li e compagni suppergiù nell'anno di grazia 2006, perché non ne potevo più. Per quanta nostalgia e tenerezza possa provare nei confronti di Valley Of The Damned, il guitarheroing selvaggio di Li e Totman mi aveva veramente asciugato la voglia di vivere ed era così spudorato da averli fatti finire pure su Guitar Hero con il brano più difficile del gioco. Morale, a una vita di distanza casca l'occasione per riavvicinarmi all'ultimo vero fenomeno del power metal e scoprire che non è cambiato niente. O meglio, da che ZP Theart ha levato le tende i Dragonforce hanno un cantante vero che addirittura negli undici minuti (U-N-D-I-C-I M-I-N-U-T-I) di "The Edge Of The World" si cimenta in un growl rated PG che non fa paura a nessuno, ma la voce non è mai stata il tratto distintivo dei Dragoforza. Il resto è invariato, se possibile pure peggiorato: i riff si contano sulle dita di una mano e ne avanzano cinque, però ci sono un sacco di tastierine puffose uscite da un picchiaduro a scorrimento jappo e GLI ASSOLI. La costanza dell'hongkongese trapiantato nella City e del suo compagno di merende nel mettere sullo spartito tutte quelle note e poi riportarle sul manico a quella velocità è davvero incredibile. Indefessi, instancabili, Herman Li e Sam Totman probabilmente vivono un perenne stato di tensione sessuale, un cazzodurismo à la page, da terzo millennio, nei confronti della tastiera delle loro chitarre, e lo esorcizzano così. Magari un giorno impareranno anche a scrivere musica, o finalmente si accoppieranno con il loro strumento, per ora PIRIPIRIRIRIRIRPIRPIRIRIPIRPIRIRIPIPIPIPIRIRIRIPIRI.
SONIC SMARONAMENTO (AB)

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GUCCI MANE
Droptopwop
(Atlantic / 1017)

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È passato un anno da quando Gucci è uscito di prigione. Nel frattempo ci sono state la Brexit, Trump, in Colombia è finita la guerra tra governo e FARC, i videoregistratori hanno smesso di essere prodotti e io mi sento molto più vecchio e impaurito. Ma so che posso tornare da Gucci e avere sempre quello di cui ho bisogno: un po' di trap fatta come si faceva agli inizi, piuttosto monocorde e malata, farcita di droga, armi e pompini. Ci sono quei featuring rassicuranti, di quelli che non devi neanche starci troppo attento per capire se sono una ficata o meno: c'è Offset, c'è 2 Chainz, c'è Rick Ross—gente che ormai ti butta giù un verso che ci sta in cinque minuti e son tutti contenti. Uno pensa che ci possa essere qualcosa di strano e inaspettato. Tipo, "Hurt a Nigga Feelings" ha un titolo che può anche suggerire un tema tipo, "Hey, mi hai fatto male, e ora te la faccio vedere io con le mie barre di fuoco su quanto non sei una bella persona! Ha!" E invece no, perché i feelings che vengono hurt sono quelli di chi guarda Gucci girare sulla sua coupé mentre conta i suoi soldi (certo, potevo aspettarmelo dato che nella prima strofa il nostro prendeva pillole a caso chiamandole "whatchumacalls" e poi diceva di scoparsi una tipa sul lavandino dopo che gli aveva leccato il retro delle palle). Quindi, raga, sapete benissimo che cosa fa Gucci Mane. Venite qua e sentitevi a vostro agio se questa è la vostra tazza di tè e avete bisogno di annegare il dolore e la paura per ciò che vi circonda nel mondo con un po' di sana abitudine. Altrimenti no.
CIUCCI MANE (EA)

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BLAK SAAGAN
A Personal Voyage (Maple Death)

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I giochi di parole e i nomi dei progetti musicali sono due cose delicate, se entrano in contatto, tanto per restare in tema, è come la collisione di due supernove: non può venirne nulla di buono per chi ci sta attorno. C'è da dire che il nome del progetto non è soltanto un gioco di parole fine a sé stesso, visto che Carl Sagan è la maggiore fonte d'ispirazione per questo album di debutto di Samuele Gottardello, vecchia conoscenza dell'underground rock'n'roll italiano con le sue band Hormonas e JohnWoo e il suo progetto solista Second H. Sam. A Personal Voyage è un album di paesaggi sonori strumentali, minimalisti e lo-fi, creati con un organo Farfisa, un synth vintage e una drum machine TR-606, e nulla più. A tratti si viaggia a cavallo di una cometa a velocità Delia Derbyshire, a volte le atmosfere si incattiviscono e ci si ritrova davanti a bulli spaziali vestiti da Martin Rev, o catapultati sul set di uno spaghetti-sci-fi, ma forse i momenti più profondi e coinvolgenti sono quelli profondamente malinconici, come "Atterraggio su Enceladus" che sembra un po' una "Lieber Honig" dei Neu! riscritta da Hal9000. La durata dell'album è coraggiosa, e forse esagerata, ma la si perdona anche grazie ai due ottimi brani finali ("Astronave Enzmann" parte da un sonar lontano e atterra su un dancefloor; "Da Qualche Parte, Qualcosa Attende di Essere Scoperto" è un'intensa cavalcata di 16 minuti dall'incedere marziale, vero culmine dell'album). Non faccio poi così tanta fatica ad immaginarmi mentre ascolto questa cassetta in una notte stellata d'agosto, sdraiato all'aperto, magari con un telescopio a portata di mano.
FIGLIO DELLE STELLE '86 (GS)

HEILIGE 3 KÖNIGE
Heiraten Und Mehr
(Mond Musik)

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A tutti è capitato, magari da sbronzi, sulla pista da ballo, di vedere improvvisamente l'anima gemella che vorresti sposare all'istante. Poi magari ti scende la pasticca e ti passa. In questo caso potete mettere legna sul fuoco della passione dedicando questo disco alla vostra lei o lui, in quanto il tema è proprio questo, il colpo di fulmine. Un disco che risale al 1982, quando gli Heilige 3 Könige, stagionata band di Hannover, si chiusero in sala per un secondo album che non è mai uscito: parte di questo materiale inedito, restaurato, si trova proprio in questa reissue, che contiene anche la prima versione in sette pollici del loro riempipista: "Heiraten". Gagliarda disco wave tedesca che porta diritti a limonare senza pit stop, consigliatissima per conquiste di una notte e, perché no, matrimoni. Non a caso è uno dei miei regali di nozze: acquistatelo e fate trionfare l'amore pure voi.
CUPIDO BIRICHINO (DB)

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