Sulla razza

Espérance Hakuzwimana parla di letteratura, Italia e inclusione

"Non è facile fare bene il tuo lavoro quando corri continuamente il rischio di diventare un simbolo, un animale da palcoscenico."
Esperance-Hakuzwimana
Espérance Hakuzwimana durante la manifestazione BLM del 2 giugno 2021 a Milano. Foto di Alwaysithaka di Saverio Nichetti e Martina Miccichè, per gentile concessione dell'intervistata.

Questo è un approfondimento della nona puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata alla “letteratura postcoloniale”, prodotta da scrittrici e scrittori migranti o di seconda generazione. “Sulla Razza,” di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Esce a venerdì alterni, e puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.

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Nella nota della curatrice che apre Future, un’antologia che raccoglie le voci di undici scrittrici afroitaliane (effequ, 2019), Igiaba Scego racconta la sua esperienza di autrice italiana di origini straniere. “Ho 45 anni,” dice “e ho iniziato a scrivere professionalmente a 30. Sono stata fortunata perché sono capitata in un periodo in cui l’editoria italiana era in fermento. E forse lo era anche la società. Si era aperta una finestra per chi scriveva in italiano e aveva un’altra origine.”

È allora, tra fine anni Novanta e inizio dei Duemila, che per autrici come Igiaba Scego, Cristina Ali Farah, Gabriella Kuruvilla, Gabriella Ghermandi si aprono le porte del mondo della cultura italiana che inizia finalmente a leggere le loro storie. 

È il filone che la critica definirà nel 2004 letteratura postcoloniale, una produzione che si fa carico di aprire gli archivi polverosi e dimenticati della storia coloniale italiana, denunciare il razzismo sistemico nel nostro paese e mettere in discussione il concetto stesso di italianità.

Scego si domanda come sia stato possibile che dopo poco quella porta si sia chiusa dietro di loro ermeticamente. “E nel tempo mi sono chiesta come mai dopo di noi, noi che ora abbiamo superato i 40 anni, è stato così difficile per una persona di origine migrante (che sia figlio della migrazione o migrante in prima persona) pubblicare.”

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Espérance Hakuzwimana è una giovane scrittrice italiana che a pubblicare c’è riuscita, contribuendo a una nuova fase del filone postcoloniale in cui la letteratura si interseca all’impegno sociale e all’utilizzo dei social media, megafono e punto di contatto con altri italiani di seconda generazione.

Oltre ad aver scritto un racconto in Future, “Lamiere”, Hakuzwimana è autrice del manifesto E poi basta (People, 2019). In questa intervista parla della sua esperienza di autrice doppiamente fuori dal canone, perché donna e perché nera.

VICE: Partiamo dalle etichette. Date le tue origini, sei considerata un’autrice postcoloniale. Ti rispecchi in questa definizione?
Espérance Hakuzwimana:
Quella di autrice postcoloniale è una definizione che non ho scelto, mi è stata data, ma credo sia un passaggio obbligatorio perché la critica e le case editrici hanno bisogno di definizioni chiare, in modo da far capire ai lettori che cosa andranno a leggere.

Io reputo Scego postcoloniale per i temi che tratta, i suoi studi, il suo impegno, il suo pensiero; io da “nipote” vedo il termine postcoloniale molto grande e non so se a 30 anni sono pronta a prendermi carico delle responsabilità che ne derivano. Preferisco fare un passo indietro e dire che sono una scrittrice italiana della diaspora, perché rispecchia la mia esperienza personale. Questa definizione mi fa sentire parte di una collettività eterogenea, ma che ha in comune con me la separazione dal luogo di origine. 

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Secondo te è importante mantenere una distinzione terminologica tra letteratura italiana tout court e quella scritta da italiani neri? 
In questo momento sto scrivendo un libro e penso sia un libro italiano, punto. A me basterebbe dire letteratura italiana, ma in quel caso vorrebbe dire obbligare l’Italia ad allenare il pensiero e a fare i conti con determinate cose che è molto restia ad affrontare, come quello dell’identità. E poi basta è stato messo sotto sociologia, biografia, anche letteratura della migrazione, ma questa non era la mia impronta.

Qual è secondo te la categoria più adatta al tuo primo libro?
Sociologia poteva anche andar bene, ma a me piace molto quella di autofiction in cui rientrano ad esempio Jonathan Bazzi o Valentina Mira. Questa corrente tratta tematiche che sono sociali ma che si intersecano inevitabilmente con il personale: identità, sessualità, violenza.  

Nel filone postcoloniale stiamo assistendo a una svolta che in termini stilistici si declina in un genere meno strettamente letterario. Il tuo primo libro ad esempio è un ibrido tra generi diversi. Questa scelta dipende dalla necessità di mettere in chiaro alcune cose prima di potersi dedicare alla letteratura, oppure è una richiesta delle case editrici? 
Quando ho iniziato a scrivere mi sono scontrata con il fatto che le altre persone non mi vedevano come una scrittrice, ma come un personaggio che si erano messi in testa loro. Scrivere quindi è stata un’occasione, come dici tu, per mettere in chiaro delle cose. Ho pensato “le scrivo e poi basta” (proprio come dice il titolo), poi inizio a fare quello che voglio davvero.

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Perché così in futuro se qualcuno si permetterà di farmi domande personali la mia risposta sarà: io non ho più intenzione di trattare questi argomenti, l’ho già detto in un libro. Alla fine è come dice Toni Morrison, il razzismo è una distrazione e io non voglio essere distratta dal mio lavoro. Voglio scegliere io cosa dire e come dirlo. 

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Espérance Hakuzwimana durante la manifestazione BLM del 2 giugno 2021 a Milano​. ​Foto di Alwaysithaka di Saverio Nichetti e Martina Miccichè.

La letteratura postcoloniale è caratterizzata da una quasi onnipresenza femminile: non solo Scego, Ali Farah e Ghermandi, in questo momento vediamo te, Djarah Kan, Nadeesha Uyangoda, Marilena Umuhoza Delli, tutte le autrici di Future… Come te lo spieghi? 
È una domanda che mi sono fatta spesso anch’io: non solo nell’ambito letterario, anche in quello dell’attivismo, siamo quasi tutte donne a esporci. Penso dipenda dal fatto che le donne nere e gli uomini neri abbiano esperienze di vita diverse, affrontiamo il razzismo in modo diverso. Lo racconta Jeferson Tenório in Il rovescio della pelle.

E poi una cosa di cui si parla poco è il sessismo che esiste nella comunità nera, la violenza, il machismo, il fatto che gli uomini non possano mai concedersi di essere deboli né fuori, per strada, né in casa. Conosco ragazzi afrodiscendenti che scrivono poesie magnifiche ma prima di farmele leggere fanno preamboli infiniti, perché è come se si vergognassero di esprimere le proprie emozioni. Poi il raccontare storie, il tramandarsi la storia famigliare vuol dire prendersi cura e la cura viene vista come un lavoro femminile. E quindi questo li spaventa.

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Si esprimono più con la musica, forse, che con la letteratura...
Sì, e usando la musica raccontano una storia che arriva subito. Per la lettura ci vuole tempo, mentre la musica è più facile da assorbire di un libro. In più il rap o la trap giocano e illudono tanto sul fatto che facendo musica puoi diventare famoso in tempi brevi.

La mia sensazione è che i lettori italiani siano più interessati ai libri di donne nere in traduzione che non a quelli scritti da donne nere italiane. Al di là di Scego, che forse è un’eccezione, sembra che le nostre Chimamanda Ngozi Adichie, Zadie Smith, Bernardine Evaristo siano poco conosciute…
È come se pochi nomi avessero saturato tutta la possibilità, tutto lo spazio. Se tu dici “autori italiani neri” ti dicono Igiaba Scego e Antonio Dikele Distefano, che secondo me hanno fatto un lavoro straordinario aprendo le porte, soprattutto Igiaba, ma è come se ci fossimo fermati lì. Mi fa soffrire la mancanza della pluralità di sguardi: dagli anni ‘90 le cose sono cambiate e le nostre esperienze di italiani neri oggi sono diverse da quelle di chi scriveva libri 30 anni fa. Noi siamo i figli di quelle persone e in pochissimi stanno raccontando le nostre esperienze.

Penso ad esempio ad Anna Osei, che ha scritto poesie straordinarie, e io sono super contenta perché fa parte della mia generazione e ha raccontato tematiche che la mia generazione capisce. Però non è molto conosciuta. Per me è sconvolgente che si conoscano Zadie Smith o Chimamanda Ngozi Adichie e poi fai i nomi degli scrittori italiani e nessuno li ha letti. Poco tempo fa mi è capitato di scoprire i libri di Amara Lakhous, un autore algerino che viveva a Torino. Ha da poco lasciato l’Italia per amore trasferendosi negli Stati Uniti, e purtroppo ha deciso di abbandonare la scrittura in italiano ed è tornato a scrivere in arabo. È un peccato che autori così lascino il nostro paese. Così rischiamo di perdere voci importanti.

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Senti ci sia desiderio di leggere questi libri in Italia?
Tanti ragazzi di origine straniera hanno voglia di trovare storie che parlino di loro, tipo la serie Zero, e sono loro le persone a cui io scrivo: agli afrodiscendenti come me. Per determinate realtà però esiste un problema di accessibilità, che è qualcosa su cui sto lavorando proprio in questo momento. Alcuni oggetti culturali, come i libri, non sono sempre facili da reperire. 

Poi c’è anche il bacino di utenza generico, il lettore medio italiano, vale a dire una donna sui 50 anni, abbastanza benestante che va in libreria e si fa consigliare i libri. Il problema con quel pubblico lì è capire da che cosa sono mossi: curiosità? Ma è anche forse la conseguenza di come veniamo trasformati in argomenti di moda. Non è facile fare bene il tuo lavoro quando corri continuamente il rischio di diventare un simbolo, un animale da palcoscenico, quando tu in realtà vorresti solo scrivere e basta. Come dico nel mio libro, finisci per porti di continuo la domanda: io sono qua perché sono brava o perché sono nera? 

Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza tradurrà concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cercherà di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza sarà anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.

Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.

Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.