FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

Dopo Eminem, il rap dei bianchi non ha più senso

"Sing for the Moment" ha segnato l'inizio dello scisma tra rap bianco e rap nero, e i bianchi non ne sono usciti bene.

Eminem nel video di "Sing for the Moment" / Screenshot via YouTube

Il 2002 fu un anno strano per la musica: il buon vecchio RUOCK stava tracollando tra i mugugni del morente post-grunge e gli esordi di quell'indierock tanto amato dai blogger e, come se non bastasse, il pop-punk la metteva in culo a tutti in termini di vendite. La musica elettronica soffriva del down successivo all'epoca d'oro dei rave dei tardi Novanta, e come ogni down che si rispetti si crogiolava in ciò che oggi è conosciuto come IDM, grazie a Four Tet e soci. Nel frattempo il mondo dell'hip-hop era governato da Roc-a-Fella e dai Neptunes. Ah, c'era anche roba ascrivibile a un genere che potremmo chiamare Rap-rock. E la star più brillante del firmamento musicale era Eminem.

Pubblicità

Ora fa strano parlare di The Eminem Show come di un album che racconta le controversie del successo, ma se The Slim Shady LP aveva reso Eminem una star e The Marshall Mathers LP aveva contribuito a mantenere alta la sua fama, il livello raggiunto da Em dopo quest'album arrivò oltre ogni aspettativa, sia del pubblico che dello stesso Marshall. L'album era infarcito di autocompiacimento e storie di eccessi che travalicavano in tendenze autodistruttive. In questo deserto emotivo c'era però una specie di oasi, una ballata che quasi ricordava la famosa "Dream On" degli Aerosmith. Non è chiaro se l'intento di Eminem e del suo co-producer Jeff Bass fosse quello di omaggiare i Run DMC con quel sample o semplicemente quello di Puffdaddyzzare una hit più datata, fatto sta che non dovresti sottovalutare la portata di quel pezzo, soprattutto se sei una persona bianca che fa rap o ascolta persone bianche che fanno rap. Insomma, la storia è seria, e "Sing for the Moment" ha seriamente conferito al genere una direzione particolare.

Ok, fermi un attimo. Sappiamo tutti che “Lose Yourself” sarebbe stata la mega hit di quell'epoca, il singolone che avrebbe definito la carriera di Eminem e la fortuna di quel nuovo rap, ma il seme era già stato gettato nel momento in cui Joe Perry aveva finito il suo assolo di chitarra. “Sing for the Moment” è uno di quei pezzi in cui Em dice la sua sul serio. Racconta di se stesso, di come il rap—nella sua visione—parla ai ragazzini che vivono in case fatiscenti in quartieri poveri, più o meno come era toccato a lui. Il suo messaggio è diretto, scevro da tutti quei riferimenti alla cultura pop e da quei siparietti demenziali che avevano caratterizzato le sue barre prima di allora. L'Eminem serio—altrimenti detto Marshall Mathers—aveva già fatto capolino in traccce come “The Way I Am,” ma non aveva mai parlato ai suoi fan in maniera così diretta.

Pubblicità

Seguici su Facebook:

Noisey Italia

Em senza dubbio non voleva delegittimare il lavoro di altri rapper con la sua “Sing for the Moment,” che racconta di ragazzini con bandane e braghe a vita bassa che fanno smattare i genitori bianchi, voleva piuttosto dimostrare che il rap è qualcosa di più di una musica che parla di "pistole, puttane e macchine," come ai tempi molti sostenevano. Potremmo dire che ottenne invece il risultato opposto.

Con quel beat farraginoso e difficile, stava divorziando dall'idea di divertimento e leggerezza che aveva caratterizzato il suo approccio all'hip-hop, un atteggiamento che aveva fatto in modo di avvicinargli un'audience variegata, composta anche di reduci del rock. Il mondo degli incubi di Eminem, quello che stava dall'altra parte dello specchio, risultava confortevole perché temperava la sua sete di sangue con pezzi come “Sing for the Moment.” Tracce del genere gli davano tutto un'altro tono, come se si avvicinasse e svelasse "Hey, sono nella merda proprio come te, seguimi." E questo messaggio è esattamente ciò che il rap è sempre stato: la speranza di una via d'uscita per chi non ne ha mai avuto mezza.

Ma come ammette lui stesso in “White America,” Em parlava a quella gente con gli occhi e i capelli chiari a cui somigliava, le cui vite erano comunque facili, anche nelle condizioni peggiori. Nello stesso pezzo parlava anche dei propri privilegi—cose che in molti dimenticano o si rifiutano di ricordare—ma oramai era troppo tardi. Le sofferenze e i drammi dei bianchi statunitensi avevano finalmente una voce e un contesto: quella dell'artista che si sbatte seriamente per raccontarli, sperando di ispirare altri come lui. E mettendo le sue parole su una base rock grezza e dissonante, Em ha fatto in modo che chiunque volesse emularlo non avrebbe avuto bisogno di farlo con roba che andasse bene per i club o per le radio. Bastava solo che i suoi discepoli sollevassero il volto, e che su quel volto non ci fosse un sorriso.

Pubblicità

Ed ecco che anche oggi ritroviamo quel modo. Una delle hit del momento è “Me, Myself, and I” di G-Eazy, un pezzo privo di ritmiche incalzanti, che ha più il tono di un lamento funebre. Si tratta di un pezzo pop in cui un ragazzo reclama il suo spazio, ma lo reclama con una serietà che fa presumere che il problema in questione sia impellente come quelli dei pezzi di Kendrick Lamar. E questo è il disastro creatosi a partire dal varco aperto da “Sing for the Moment”. Questo—la lagna solipsistica posata su beat anemici quasi rock—è il rap bianco. È rap rivolto a chi sostiene di non amare particolarmente il genere, è il rap che rimane ancorato all'idea che il messaggio sia più legittimo quando suona realmente serio e super tecnico, magari accompagnato da una chitarra acustica.

Se, come dicono Vince Staples e Mac Miller, quello dei "rapper bianchi" è un genere un po' da babbi, "Sing for the Moment" è la sua “Johnny B. Goode.” Rappresenta il momento in cui si sono messe le basi per dare una direzione precisa a quel genere. Da lì è un attimo passare ad Asher Roth che ritaglia la sua ode alle confraternite in stile American Pie tra le dolorose pennate di “Say It Ain’t So” (o di qualcosa di John Mayer?) e Machine Gun Kelly che si permette di fare una cover di quel pezzo acustico dei Rise Against. Perché mai uno dovrebbe includere il beer-pong tra i propri motivi di sofferenza? Come si fa a passare da uno dei beat più duri di tutti i tempi a quel merdoso alt-rock anche un po' datato? Forse c'è qualcosa di più profondo che ci sfugge? No, non mi pare. Logic, che è mulatto, riesce pure lui a fare un rap da bianchi, perché la sua è roba troppo elaborata, troppo studiata a tavolino, e in fin dei conti non fa altro che ballad col pianoforte. Come se il requisito base per fare il rap se sei bianco fosse un po' di malinconica autocommiserazione.

Probabilmente Eminem non puntava a questo, ma la sua "Sing for the Moment” ha dato il La ad una delle tendenze più malate del rap moderno, che anzi va oltre lo stesso rap e soverchia addirittura le convenzioni del mainstream. Dopo quel pezzo, il rap "da bianchi" è diventato quello in cui se non canti le tue sofferenze su una base di chitarra il tuo messaggio non è degno di essere preso sul serio. Questo scisma ha poi portato a personaggi come Lil Dicky, che stempera la propria inadeguatezza con una buona dose di autoironia. Chiaramente però il suo esempio non vale per tutti quanti i rapper bianchi: esistono Mac Miller, i Beastie Boys e molti altri a dimostrazione che questo tipo di rap e il colore della pelle non sono sinonimi. Ma cosa succede quando un rapper bianco decide di non defilarsi e di rientrare nel vero gioco del rap? Non si sa. Quando sui social qualcuno ripesca quel mitologico dissing tra Eminem e Drake sembra quasi che quell'Eminem appartenga a un'epoca ormai andata, nonostante sia ancora una delle colonne portanti del rap per tutti i copycat di Slim Shady che l'hanno seguito. Purtroppo però Eminem, il ragazzo del rap, poi diventato una divinità del rap, non potrà più salvare il rap da ciò che lui stesso ha creato.

Seguici su Twitter: @Noisey_IT