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Musica

Jon Hopkins non è un mago dello studio

..ma solo uno che ci passa il novanta per cento del suo tempo! Sfatiamo il mito e parliamo con l'artista, tra i protagonisti del prossimo C2C MiTo festival di Torino.

Non mi fa mai molto piacere intervistare una persona stanca, per cui mi sento una ttimo a disagio quando telefono a Jon Hopkins e lui mi risponde dal sedie posteriore di un taxi, in evidente sbattimento per non essere riuscito a terminare un soundcheck in tempo per l'intervista, e con un evidente bisogno di un attimo per cazzi suoi. Lo richiamo poco dopo ed è in albergo, solo, scazzato ma comunque encomiabilmente disponibile. Si capsice che, dopotutto, ama quello che fa e lo prende troppo sul serio per non sfruttare un'ennesima occasione di sottolineare cosa gli sta a cuore del fare musica, senza menarsela che pur essendo relativamente giovane è già un compagno di giochi fisso di Brian Eno (non che in realtà sia un gran vanto, considerato quanto è bollito quello là). Stessa coerenza che traspare dalle note dell'ultimo Immunity, che se non ce lo ha presentato come gran rivoluzionario, quantomeno ne ha confermato la dedizione completa al suono e alla ricerca di una creatività completamente personale. Noi saremo sicuramente a vederlo a Torino, il prossimo 8 Novembre, ringraziando i compari di #C2C MiTo, va da sé che lo consigliamo caldamente a chiunque legga.

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NOISEY: Stavo guardando i titoli dei brani di Immunity. Abbastanza in linea con la musica stessa, mi comunicano quasi tutti un’idea di etereo, evanescente… citano elementi come luce e aria. Tranne “Collider”, in cui hai campionato il respiro di una donna e ha un feeling più fisico, erotico. È tutto voluto? Da dove vengono i titoli?

Jon Hopkins: Non capisco bene cosa intendi, sinceramente. I titoli arrivano tutti in un secondo momento, sono solo una frazione del mio lavoro. Il corpo delle tracce è già presente molto prima che io possa trovare un’idea concettuale o un nome da metterci sopra. Nel caso di “Collider”, il titolo viene dal fatto che ascoltando quel pezzo pensavo avesse una certa forza distruttiva, ma per quanto riguarda il respiro… Stavo lavorando in studio con una vocalist, mandando in loop frammenti della sua voce.. Be’, io vado molto istintivamente in queste cose, ho semplicemente pensato che mandare in loop il suo fiato creasse un bel mood oscuro e ipnotico. Ad ogni modo, per usto album ho lavorato anche con un poeta di nome Rick Holland, con cui avevo lavorato anche per il suo album con Brian Eno, Between the Bells. Ha ideato lui alcuni dei titoli. Mi pareva che nei vecchi album avessi trascurato un po’ troppo questo aspetto, così ho provato a vedere come funzionavano le sue parole con la mia musica, per espandere lo spettro di cose a cui potevo arrivare.

Quindi pensi che affidare quell’aspetto a qualcun altro abbia fornito una dimensione ulteriore alle cose?

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Beh, non che abbia esattamente creato lui da solo i titoli: ci siamo incontrati molte volte e abbiamo discusso di quali suoi versi potevano essere appropriati, cosa volevano dire per me, cosa potevano diventare in relazione alla musica. Più che altro non volevo che nessun elemento di questo album fosse fatto sbrigativamente, qualcosa che col senno di poi mi sarei potuto dispiacere di avere trascurato.

Quindi ogni singolo aspetto dell’album è stato considerato e curato fino allo stremo?

Sì. C’era sempre qualcosa nei miei vecchi lavori che, a posteriori, mi sono reso conto avrei potututo curare di più. Le collaborazioni, in questo, sono una gran cosa, perché possono aggiungere qualcosa o darti un occhio più critico, “conversare” con qualcun altro è sempre fondamentale.. è il motivo per cui ho lavorato con Kenny Anderson e con la cantante di cui ti parlavo prima. Oltre a questo, spesso faccio ascoltare le tracce nuove ad amici di cui ho stima, per prendere degli input in più.

La tua musica, specialmente negli ultimi tempi, suona molto organica… Molto “vera”, i suoni hanno una loro dinamica specifica, piuttosto forte. È voluto?

In parte, ma credo sia dovuto più che altro al fatto che procedo sempre intuitivamente. Quando piazzo un suono in un mento di una traccia non ho assolutamente idea di cosa verrà dopo, facendo in modo che uno generi l’altro. Ho sempre ben chiaro in testa che la musica deve rimanere qualcosa di vivo e vitale, e non distaccata come molta techno che è solo un groove, anche di proposito. Non è quello che voglio io: voglio coinvolgere tutto il mio mondo sonoro… tutto il mio mondo, in generale, in quello che produco. Sensazioni e suoni che percepisco nella quotidianità finiscono per forza di cose incorporati nel mio lavoro, in studio. Quando provo a darmi una mappa preconcetta, un’idea a tavolino di come potrebbe essere fatta la traccia, finisco per creare qualcosa di sterile e noioso. Preferisco non avere nessun tipo di progetti, entrare in studio e seguire il primo guizzo che mi viene in mente.

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Sei famoso per essere anche un mago dello studio. Pensi che il fatto di avere molte competenze tecniche ti dia più scioltezza, e renda più semplice questo approccio?

Guarda, in realtà non sono per niente d’accordo con quella definizione. Non mi sento per niente un mago dello studio. Anzi: se da una parte credo di conoscere molto a fondo la strumentazione di cui faccio uso, dall’altra non sono sicuramente uno che compra roba nuova ogni settimana né ho una vera e propria preparazione tecnica. Ho imparato tutto da solo, provando e riprovando. È questo che mi ha permesso col tempo di poter strutturare facilmente un album complesso come Immunity. Credo anche che sia molto più importante conoscere bene ogni singolo strumento che hai, piuttosto che prenderne sempre di nuovi.

Ecco, a proposito, qual è il tuo synth preferito?

Uhmm… Per Immunity ho usato molto il Korg MS-20. È fantastico, lo adoro. In questo caso volevo che ci fosse uno strumento che fosse un po’ il protagonista di tutto l’album, ed è “responsabile” della maggior parte dei miei momenti preferiti dell’album. Ma potrei anche dire che Logic è il mio synth preferito, per come lo uso è importante quanto uno strumento vero e proprio.

Qual è il sentimento principale che ha ispirato questo album? In generale…

Credo di avere sentito più di ogni altra cosa il bisogno di trasportare nella musica ogni sensazione, ogni pensiero che mi attraversa quotidianamente. In qualche modo rendere la mia vita astratta dalla sua manifestazione materiale, e trasformarla in qualcosa che può toccare anche gli altri, come se volessi mostrare il paesaggio in cui vivo. Non so se ha senso…

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Sì che ce l’ha. Ma dal vivo come fai a far funzionare l’approccio intuitivo di cui parlavi?

A dire il vero suonare live per me è davvero una gran cosa. È un’occasione unica di condivisione con più gente possibile e aggiunge molti livelli in più all’atto stesso di fare musica. È molto soddisfacente, e la prendo sempre come un’opportunità per espandere le tracce oltre la loro forma su disco, per svilupparne il potenziale ulteriore. Aggiungo cose che non avrei normalmente suonato in studio, ho praticamente “smontato” le tracce in modo da essere libero di intervenire su vari elementi ed aggiungerne altri. Voglio condividere con il pubblico il mio processo creativo. Cambio spesso il set e il suo sviluppo, ma questo in particolare che sto portando in tour ora lo suono già da mesi.

Tra pochissimo suonerai a C2C. Ci sei già stato no? Che ne pensi?

Mi piace! Mi piace parecchio, ci ho suonato… uhmm, non ricordo se tre o quattro anni fa, ma è stata sicuramente un’esperienza positiva. Ricordo di avere suonato nella venue dedicata alla roba più “sperimentale”. Non so in quale sono stavolta [ai Cantieri OGR con James Holden e The Haxan Cloak, ndr], ma sono sicuro che sarà figo. Ho suonato anche allo spin-off di Istanbul ed è stato davvero bello!

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