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Musica

La guida di Noisey alla minimal wave italiana

Tre protagonisti degli anni Ottanta ci raccontano la storia della deriva sintetica della new wave italiana, e delle sue ripercussioni sull'elettronica di oggi.
Sonia Garcia
Milan, IT

I 2+2=5.

Qualche tempo fa, parlando con Alessandro Adriani e Alessio Natalizia—non contemporaneamente—ho avuto modo di alludere alle compilation di synth wave italiana che i due hanno curato rispettivamente su Mannequin Records e Strut, una quattro anni prima dell’altra. Per synth wave si intendono tutte le venature elettroniche che costellavano e variegavano il già fecondo terreno new wave/post punk, a partire dai primi anni Ottanta. Le scintille dance arriveranno in incognito in un secondo momento, ma saranno le fondamenta di tutta l'irriverenza con cui quella nuova e bizzarra "musica elettronica" si poneva come alternativa di nicchia alla disco music commerciale.

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Stilisticamente Danza Meccanica (2009) e Mutazione (2013) hanno punti di contatto più che evidenti: entrambe coprono la fascia centrale della decade di riferimento, e sono accuratissime istantanee dell’enorme potenziale creativo di cui la penisola disponeva, per confrontarsi col resto d’Europa. “Niente da invidiare alla Neue Deutsche Welle,” ripeteva Alessio, ed era vero.

Il primo ad aver parlato di new wave italiana da queste parti è stato Valerio Mattioli, con l'intervista a Gianpietro Huber dei bolognesi Stupid Set, di quasi un anno fa. Partendo un po' da lì, un po' dalle moderne suggestioni danzerecce che ne attingono a piene mani, ho raccolto tre testimonianze che aiutassero a stabilire la vera natura di questo filo conduttore. Nello specifico di un fiorentino, Daniele Ciullini, di recente ristampato su Ecstatic, e di due milanesi, Giacomo Spazio, fondatore assieme a Nino La Loggia della seminale band new wave 2+2=5, e di Fred Ventura, che dal post punk dei suoi primi State of Art è diventato icona italo disco—di cui però non tratteremo.

PS. Le foto sparse in qua e là, invece, sono tutte state scattate nel corso del lungo pomeriggio che ho trascorso a casa di Giacomo. Sono orrende perché fatte col telefono mezzo scarico.

"Ai tempi da quel che ho visto non c’era alcun tipo di coscienza collettiva su quanto stava succedendo. Ad esempio, quando ho ristampato i Musumeci ho chiesto a tutta la scena di Torino chi fossero, per rintracciarli. Nessuno li conosceva. Alla fine ho messo una traccia dentro Danza Meccanica 2, perché non avendoli trovati non è che potevo metterne più. Che succede? Che mi scrivono loro. “Abbiamo visto che hai inserito la nostra traccia, ti volevamo ringraziare.” Ho fatto un salto dalla sedia di due metri, non ci potevano credere. A quel punto mi hanno raccontato anche di loro. Facevano parte della scena anarcopunk. Facevano punk hc in pezzi da un minuto, ma ci hanno fatto confluire l’esperienza elettronica di Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, etc. Atrocità del genere umano varie, insomma. Nonostante tutto nessuno li conosceva. Cioè questi avevano una tape label, suonavano in giro e nessuno mi ha saputo dare informazioni su di loro." (Alessandro Adriani)

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Nuova onda fiorentina
Daniele Ciullini, negli anni Ottanta, lavorava all’assessorato alla cultura del comune di Firenze, e organizzava concerti per band emergenti, mostre di arte contemporanea, design, etc. “Nella scena elettronica degli anni Ottanta il sintetizzatore la faceva da padrone,” mi racconta, “specie se si pensa a gruppi come Throbbing Gristle, SPK, Einsturzende Neubauten. Le fanzine sono state una grande porta verso lo scenario indipendente. A Firenze c’erano Paolo Cesaretti con Free e Vittore Baroni con TRAX, Tribal Cabaret, Dancing Silhouette, tutte fanzine classicamente fotocopiate, con contenuti che si distaccavano nettamente dall’ambiente dei Cure, e si avvicinavano all’elettronica in vari modi.”

Paolo Cesaretti curava la fanzine Free—sua sarà anche la label Industrie Discografiche Lacerba—che a detta di Daniele “era di una raffinatezza esemplare, pari a quella dell’inglese 4AD”. Il giro musicale, allo stesso modo, era molto composito: “Qui a Firenze avevamo i Neon, che credo siano il gruppo più conosciuto dopo i Litfiba e i Diaframma, poi c’erano i Pankow, e molti altri, certo.”

Milano in fermento
Giacomo Spazio mette subito le mani avanti. “Il panorama è un po’ complesso da spiegare. Milano in quel periodo lì era piena di disillusione e dubbi su cosa stesse davvero succedendo. Ai tempi c’era la sinistra e la destra, comunisti e fascisti, e pure tra punk ne esistevano alcuni di destra. Oltre a questo non c’era niente, c’era stato un tentativo di autoproduzione in forma cooperativistica, e quindi band che si erano staccate dalla musica progressive.”

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Per tutti quelli che avevano abbracciato la causa punk, la smania di evoluzione era totalizzante, e in poco tempo divenne la costante per tutto. “Dal ‘77 in poi il fermento era totale,” mi spiega Fred, “forse solo un dieci percento di quelli che erano parte di questa scena a Milano sono rimasti fedeli ai primi ideali. A un certo punto il punk si è commercializzato, è diventato un fenomeno da baraccone qualunque; c’erano delle band notevoli che continuavano a fare musica di alto livello, ma c’era anche chi si stancava dei limiti che lo stesso punk poneva. Di conseguenza l’avvento di determinati strumenti musicali elettronici facilitò la svolta di molti artisti.”

“Dopo il punk c’è stata sì l’evoluzione nel post-punk e nella new wave, che continuavano entrambi il discorso basso-chitarra-batteria, ma spesso si aggiungevano anche synth, batterie e tastiere elettroniche. Il D.I.Y era importante, ed è per questo che mi facevano storie per il negozietto di oggettistica punk che avevo aperto. Ci vendevo di tutto, e riuscivo anche a fare cinquantamila lire a settimana. Per molti stavo snaturnado il punk. La gente tende ad escludere che la complicità di intenti non era così militante come si credeva. Una parte di noi era felice di essere presente e di abitare la notte al Plastic. Il Plastic era il nostro locale. Per il giro punk/new wave era un punto di riferimento.”

"Senza dubbio i La Maison sono stati il miglior gruppo wave milanese." (Giacomo Spazio)

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Convivenza ed eterogeneità
Specie a Milano, stava alla sensibilità di ognuno scegliere i propri punti di riferimento, intesi come luoghi di ritrovo. “Quelli che ritenevano il Plastic una merda, già ai tempi, erano molti,” prosegue Giacomo, “in città c’erano varie frange di sottoculture. Per noi il punk non era il bondage e il chiodo, potevano esistere anche altre cose. La scena si sviluppa in un modo e ha le sue derive. Per me uno dei gruppi più sconosciuti e più validi usciti da Milano, per esempio, sono i La Maison, che facevano elettronica sperimentale, con testi vari parlati. C’era un’enormità di persone in campo, molte di queste che si muovevano da un’anima all’altra della città. Le personalità più definite appartenevano al giro del Virus, che era il punto di riferimento del punk militante.” Quando gli chiedo se come 2+2=5 ci abbiano mai suonato mi risponde con un no categorico, sottolineando l’ostracismo sviluppatosi da entrambe le fazioni, e le ostilità che persistono tutt’ora tra alcuni di quei protagonisti.

Flyer vari.

Locale wave per eccellenza era invece l’Odissea 2001, dove a detta di Fred “ci sono passati tutti, dai DAF, Clock DVA, Bauhaus, Gang Of Four, Siouxsie And The Banshees, pure molti della Neue Deutsche Welle.”

“Fuori dai centri sociali,” riprende Giacomo, “la scena vera era molto più coesa di quanto non venga mai ricordata. Le persone si frequentavano, si conoscevano e si scambiavano cultura, con grandissimo rispetto. Il gruppo dark andavamo tutti a vederlo, per esempio. Non ci ancoravamo a niente in particolare, l’eterogeneità era alla base di tutto ciò che facevamo.”

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Milano sfavillava di luce propria in questo senso, e intato però quei primi addetti ai lavori peccavano di capacità imprenditoriale. Le band duravano poco, si scioglievano ancora prima di produrre il primo disco, e spesso incidevano a malapena qualche pezzo. “A Firenze e Bologna era diverso,” suppone Fred, “c’era molta più costanza e meno voglia di sperimentare. Non in senso negativo, si portava avanti l’idea con una consapevolezza diversa. A Milano c’era la tendenza a rimanere colpiti dal rinnovamento, che portava anche a non avere più voglia di condividere determinate esperienze con persone che non la pensavano come te. Era veloce la tecnologia che si evolveva, così come il gusto musicale e il cambiamento radicale in ogni ambito. Nell’84 già era cambiato tutto, era un altro mondo rispetto all’81, per dire.”

I Pop Group all'Odissea 2001, 29/04/1980. Foto via

Minimal perché economica

La maggiorparte della produzione musicale evolutasi dal ‘79 all’81, cosiddetta minimal synth, era divenuta tale soprattutto perché a disposizione c’era ben poco oltre al minimo indispensabile. Tutto era dettato dall’economia di quei tempi, e ciò è fondamentale per definire il momento. Anche Daniele conferma di aver cominciato a “registrare i suoi microbrani alla vecchia maniera, con solo un registratore a quattro tracce.” Generalmente bastavano quello, un synth e una batteria elettronica. “Eravamo già abbastanza propensi a guardarci intorno,” riprende Fred, “e nel momento in cui si è presentata l’occasione di inserire nelle nostre formazioni l’uso di synth o drum machine, l’abbiamo colta al volo. Rendeva tutto molto più semplice a livello di gestione della parte programmabile elettronicamente. I mezzi per registrare erano veramente pochi, di conseguenza l’avvento di certa strumentazione ha fatto sì che chiunque potesse permettersi una batteria elettronica e un synth monofonico, senza spendere un capitale. Dato che avevamo tutti la possibilità di registrare quattro piste, la minimalità diventava una necessità.”

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Flyer dei savonesi F.A.R. (Final Alternative Relation)

One man band vs Band

A Firenze Daniele si inizia ad approcciare alla produzione musicale mediante la mail art, e le sue branche più sperimentali, dedite anche alle registrazioni ambientali. “Si trattava di rumori dalla città, spezzoni di film o di radio, e registrazioni di tipo quasi domestico. Ho iniziato a mischiare a tutto questo dei miei microbrani, in stile Music For Films di Brian Eno, da un minuto o poco più. Dopo un po’ che mi allenavo, è successo che una persona che conoscevo si è mollato con la ragazza, è andato a vivere in albergo, non aveva posto per tenere sintetizzatore, registratore a bobina e tutta una serie di strumenti, e mi ha chiesto di tenerglieli per lui. Io ben volentieri li ho messi nella piccola stanza dove lavorava mio padre quando era vivo. Mi sono comprato un synth Yamaha, una batteria elettronica Boss, e ho cominciato a produrre questi brani. Sono riuscito così a raccogliere le principali suggestioni in Domestic Exile, nel 1982, e Nuance, fanzine con audiocassetta inclusa, due anni dopo.”

La condizione di Daniele non era una novità. In quegli anni l’industrial italiano stava già sfornando i suoi nomi più risonanti, e spesso erano tutti artisti singoli, non gruppi. “Maurizio Bianchi, Die Form, Merzbow… lui venne anche a Firenze,” riprende Daniele, “qui in collina, quando vide le lucciole non ci capì più niente. Non le aveva mai viste [Ride]. In generale sembrava quasi che i gruppi avessero creato un loro genere musicale, un loro percorso, il singolo invece faceva tutto in autoproduzione e autodistribuzione attraverso canali come la posta. I gruppi avevano i loro circuiti appositi, comprese le etichette di riferimento a seconda delle città. I disgraziati lupi solitari come me se la sono fatta tutta da soli, questa strada. Adesso attraverso Facebook ogni tanto entro in contatto con gente che mi dice di aver acquistato le mie cassette chissà dove.”

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Lasciati alle spalle il passato negli HCN assieme a Marco Philopat, i 2+2=5 vedono l’ingresso di Rieko—”una ragazza giapponese che abbiamo subito annesso al gruppo, non appena si è presentata”. Insieme, nell’83, pubblicano il loro primo LP Into The Future, di recente ristampato da Mannequin. “È quasi anni Settanta come concept, non so come dire. È registrato nell’83, ma le canzoni sono di qualche tempo prima. Non era così semplice avere i soldi per fare i dischi, né tantomeno farli. Into The Future mostra questa carica contemporanea, una visione disperata che avevo all’epoca, e i testi lo dimostrano bene. La mia generazione è stata la prima a rendersi conto di star lottando per niente. È stato uno dei tratti, unito alla parte musicale, più realisti della nostra musica. Ha contribuito a rendere il disco sempre attuale, per così dire.”

Per Fred, “usare un synth e una drum machine era anche un modo di velocizzare la pratica creativa interna a ogni band.” E i suoi State Of Art erano i primi ad avvalersene, nonostante le nette influenze inglesi alla Joy Division, Factory Records, etc. Era quasi una questione di comodità—”spesso alcuni membri non c’erano e grazie a questa strumentazione avevamo una lineup numero due”—oltre che, come detto sopra, di convenienza economica.

Germe dance
“La componente dance, quando c’è di mezzo un synth,” riprende Fred, “una drum machine, e l’uso di determinati ritmi, è inevitabile. Era la versione seriosa del far ballare le persone, che poi si è evoluta nell’italo disco, synth pop etc. Il ballo non era considerato primario, ecco. C’era molta attitude e molti poser. Non si voleva far parte di una massa, ma di un’elite. Fare quella musica era comunque elitario, perché non era quello che si poteva sentire nei club, nelle discoteche commerciali.” Curioso come da tabù, l’attributo dance sia diventato ingrediente fondamentale di tutte le rivisitazioni che, in chiave moderna, hanno riscosso più successo di recente. La stessa EBM, a suo modo, ne era stata anticipatrice, in quanto “musica che ti prende il corpo e lo muove; un sequencer, una batteria e una voce. Ancora meno elementi del minimal synth.”

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Network e comunicazione
Mi spiega Giacomo: “Un uomo contemporaneo a tutto questo che ha fatto tanto a livello di comunicazione è stato Francesco D’Abramo. Grande appassionato di musica, trasmetteva da Radio Popolare ed è stato il primo in assoluto a inserire in una sua trasmissione ‘quello che succedeva’ in giro. Poco dopo Lele e io ci siamo inventati una trasmissione che non esisteva, 00, con la quale abbiamo prodotto anche delle fanze. Era sempre su Radio Popolare e trasmettevamo solo musica italiana. Neanche a dirlo, era costantemente osteggiata non solo all’interno della radio, ma anche tra gli ascoltatori.”

Culla di gran parte del materiale synth wave storico di quei primi anni Ottanta è stata anche Pordenone, con Ado e gli altri protagonisti del Great Complotto. “Era una scena piena di partecipanti e compartecipanti,” va avanti Giacomo, “non tutti scendevano in campo a suonare. Alcuni aderivano solo perché si sentivano affini. L’importante era la frattura sociale di pensiero, non di stile. Era come avere un pentolone che bolliva con dentro gli spaghetti, ma nessuno si sentiva davvero pronto a mangiarselo, quello spaghetto.”

La nuova onda italiana di Frigidaire
Il piatto ha iniziato ad apparire effettivamente ricco, solo quando qualcuno ha avuto la lungimiranza di servirlo in tavola. “Mi ha scritto mio figlio l’altro giorno,” racconta Giacomo, “chiedendomi di chi fosse un certo numero telefonico. Lo guardo e rispondo ‘No, non ne ho idea,’ e lui ‘Me l’ha mandato un mio amico che l’ha trovato su un vecchio Frigidaire, in cui c’era anche il tuo vecchio indirizzo della casa occupata dove stavi.” Quello di Frigidaire, la storica rivista di Vincenzo Spragna—che Leon Benz ha intervistato per VICE non troppo tempo fa—è stato un primo censimento su cosa stava davvero succedendo in Italia in quegli anni. Lo speciale era diviso in tre parti, ognuna su un numero diverso, e consisteva in un lungo elenco di band/artisti emergenti italiani, con breve descrizione della musica fatta, foto e recapiti.

In Italia il punk è riuscito a sopravvivere in modalità più congrue rispetto al giro wave, specie se politicizzato, e quindi inconsapevolmente conservatrice. Ciò che invece ha determinato la totale versatilità di certe sintetizzazioni sonore della deriva minimale della new wave locale è da riallacciarsi all'essenzialità della strumentazione che, come si è visto, era più un bisogno fisiologico che una velleità.

Spiega Fred: “Quello che ho notato ai tempi è stato che c’è stata una tendenza a utilizzare male le grandi opportunità che venivano offerte, quindi della disponibilità di mezzi sempre migliori. Quando questi erano migliori, i dischi venivano sempre più di merda. Il fatto di essere minimali è un po’ come il primo Dogma di Lars Von Trier: utilizzare il minimo indispensabile e uscirsene lo stesso con capolavori.” Qualsiasi declinazione/proiezione sul presente di ciò che è stato concepito in quegli anni, è un tramite che tesse col passato un canale di scambio, che alla lunga aiuta i vecchi e i nuovi arrivati a respirare aria fresca, depurata come al solito da ogni forma di malinconia nostalgica. Come dice Giacomo, "Trovi in me una persona che è disinteressata al passato. Sono contento di aver fatto quello che ho fatto, ma sono più contento di quello che riuscirò a fare."

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