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Musica

Ricominciare dopo l'orrore

Una settimana dopo gli attentati di Parigi, Rodrigue Mercier, ingegnere del suono sopravvissuto alla strage del Bataclan, ci racconta perché è necessario ricominciare.

Rodrigue Mercier - via Facebook

L'articolo è apparso su Noisey Francia, di cui Lelo Jimmy Batista è direttore.

Una settimana fa, a quest'ora, stavate probabilmente mandando messaggi ai vostri amici, come me, per organizzare il vostro venerdì sera, fissare a che ora e con chi vi sareste trovati, senza nemmeno avere l'idea che stavate per essere proiettati in un limbo di orrore, isteria e incomprensioni. Il caso ha voluto che quel venerdì, il 13 novembre, io mi trovassi a poche centinaia di metri dal Bataclan, al Café de la Danse. Lo stesso caso ha voluto che perdessi, dopo gli avvenimenti che tutti conosciamo, parecchi amici e colleghi. Per questo, e per altri motivi, mi sembrava finora inconcepibile parlare degli attentati su Noisey. Il rispetto che nutro verso le famiglie e i cari delle vittime, verso il loro immenso dolore, mi ha portato a stare in silenzio, anche solo per non alimentare un rumore di fondo che andava a completare la prospettiva infernale in cui, da venerdì scorso, abbiamo vissuto, per non fare in modo che le mie parole diventassero un manifesto social in cui like e condivisioni erano solo numeri che si aggiungevano a un'equazione terrificante. Me ne sono stato in silenzio, fino al momento in cui Rodrigue Mercier mi ha contattato.

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Sopravvissuto al Bataclan, questo giovane ingegnere del suono che avevo incrociato a un bel po' di concerti voleva raccontarmi la storia di quella settimana orribile e assurda iniziata venerdì scorso. Voleva raccontarmela con la testa e il cuore un po' più freddi, dopo il tempo necessario per metabolizzare, benché solo in parte, l'accaduto, lontano dall'accanimento mediatico dello scorso week-end. Mi ha detto di voler parlare di ciò che ha vissuto, ma soprattutto di com'è stato tornare a vivere. Aveva rifiutato di parlare con i giornalisti, ma si è rivolto a me perché sperava che non avrei edulcorato o spettacolarizzato il suo intento. Sono andato a trovarlo ieri, mentre lavorava sul set di un videoclip, senza avere nessun'idea sull'esito del nostro scambio—ero comunque reticente all'idea di parlare di questo argomento. Dopo aver parlato con lui, sono tornato con la certezza che fosse giusto pubblicare quest'intervista. Non perché racconta una parte infinitesimale dell'orrore accaduto, ma perché è la storia di qualcuno il cui mestiere è la musica, che è letteralmente passato per qualcosa che l'ha schiacciato, ma che vuole aggrapparsi alla vita e alla sua passione, che vuole andare avanti. Come tutti noi. Noisey: Ciao Rodrigue. Puoi presentarti in breve?
Rodrigue Mercier: Ho 26 anni, vivo a Montreuil e sono un ingegnere del suono. Mi piace il rock alternativo da quando ero ragazzino e seguo gli Eagles Of Death Metal da una sacco di tempo. Ho visto un loro concerto per la prima volta nel 2005 al Trabendo e da allora li ho visti più o meno altre 9 volte. Sono uno dei miei gruppi preferiti.

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Venerdì scorso eri al loro concerto al Bataclan come spettatore, non come ingegnere del suono.
Esatto. Ho lavorato parecchie volte al Bataclan, ma ora lavoro soprattutto alla Mécanique Ondulatoire e, da settembre, al Klub. Vado anche regolarmente in tour con alcuni gruppi. Gran parte della mia vita la passo ai concerti.

Com'è stata la tua serata di venerdì?
Ho comprato il biglietto all'ultimo minuto, venerdì alle sei del pomeriggio sulla pagina Facebook dell'evento, da una ragazza che rivendeva il suo. Avrei dovuto andarci con un po' di amici, ma le circostanze hanno voluto che invece fossi lì da solo. Nella prima parte della serata sono andato a bermi qualcosa in un bar vicino al Bataclan. Una cosa che, a posteriori, mi ha turbato—è solo un dettaglio, ma continua a tornarmi in mente—è che, nell'ora precedente al concerto, ricordo di aver ascoltato un pezzo del primo album dei Soulsavers, "Longest Day", il cui testo dice: "This must be the door to take / I’ve nowhere left to run / I wanna run / I better run now / Run / As far as I can". Sono entrato al Bataclan poco prima che gli Eagles Of Death Metal iniziassero a suonare. Andava tutto bene, ero nelle prime file, contentissimo. A un certo punto hanno suonato un pezzo che mi piaceva un po' di meno e ne ho approfittato per andare a prendere da bere. Dall'altro lato del bancone, ho visto due miei amici. Stavano discutendo, non volevo interromperli, quindi mi son detto che li avrei ribeccati più tardi. Il gruppo ha fatto un altro pezzo che mi piaceva così così, quindi sono rimasto in fondo alla sala, vicino al mixer.

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Poi hanno iniziato a suonare "Kiss The Devil", uno dei miei pezzi preferiti, e sono corso di nuovo a mettermi tra le prime file. Qualche istante dopo ho sentito un… rumore… Non sapevo cosa fosse e, per pura deformazione personale, ho creduto fosse un DI [DI sta per iniezione diretta, un affarino che serve ad adattare l'impedenza degli strumenti elettrici al mixer] mal collegato sul palco. C'erano crepitii molto secchi, molto netti. La mia prima reazione è stata quella di voltarmi verso la regia, come a dire "dai, ragazzi, mettetelo a posto," oltretutto, sapendo come vanno queste cose, mi stavo prendendo male per l'ingegnere del suono. All'improvviso, però, il gruppo ha smesso di suonare. Ma il rumore continuava. E in quel momento, non me lo scorderò mai, c'era un silenzio assoluto. Non so se è solo la mia percezione o se fosse davvero così, ma c'era un silenzio terrificante. Nessuno gridava, nessuno parlava, non c'era alcun rumore, niente, a parte i crepitii.

Ho pensato davvero fossero petardi, perché facevano lo stesso rumore dei petardi che scoppiavamo quando eravamo ragazzini, sai? Mi guardavo intorno, tentando di capire cosa stesse succedendo, ma la sala era ancora buia. All'improvviso si è accesa la luce, mi sono voltato e ho visto tutte quelle persone accucciate a terra. Ero ancora nelle prime file e, per riflesso, mi sono abbassato anch'io. Non mi sono messo a terra perché non c'era spazio. In quel momento ho capito che qualcuno stava sparando colpi di arma da fuoco. Attorno a me c'era sempre silenzio. Però ho cominciato a sentire il rumore delle pallottole che colpivano le persone. Che le ammazzavano. A caso, senza mirare. Era letteralmente un bagno di sangue. E il ragazzo accanto a me si prende un proiettile. Non lo conoscevo, ma avevo passato tutta una parte del concerto al suo fianco. A un certo punto si era acceso una sigaretta e mi era venuta voglia di fumare, così me n'ero accesa una anch'io. Sono immobile, ma capisco che non si sarebbero fermati e che bisogna che io faccia qualcosa se voglio andarmene da lì. Alzo gli occhi e vedo il segno illuminato dell'uscita di sicurezza, proprio a pochi metri da me. Era l'unica possibilità. Come sei arrivato alla porta?
Erano tutti per terra, ma non mi rendevo conto se avevo di fronte persone che strisciavano per uscire o corpi morti. C'era tantissimo sangue, era impossibile capirlo. Non avevo voglia di calpestare chi stava a terra, ho deciso di lanciarmi verso la porta, con un salto, per passare sopra alle persone. Ho perduto gli occhiali. All'improvviso mi sono ritrovato fuori, nel passage Amelot. Non ho mai acceso la televisione, da quel giorno, non ho letto giornali da venerdì scorso. Quindi non so esattamente cosa sia successo dopo, ma sono quasi certo che abbiano iniziato a sparare verso la strada. Sì, hanno sparato verso la strada. Una volta fuori, cosa hai fatto? Ti sei messo subito a correre?
All'inizio camminavo, ero un po' inebetito, poi mi volto e vedo un tipo che tenta di uscire a sua volta e viene colpito. Mi metto a correre come mai nella vita. A zigzag. E non so se è perché ho corso velocissimo o per la paura, ma credo che mi stesse per venire una mezza crisi cardiaca. Davvero. E sono un tipo sportivo. Dietro di me vedevo che le persone si fermavano, credendo di essere fuori pericolo. Gridavo loro di continuare, di prendere le vie laterali e di rifugiarsi dove potevano. Io ho attraversato rue Amelot, ho continuato sul boulevard Beaumarchais e là il mio primo riflesso, non so perché, è stato di chiamare un tazi, per portare in salvo più gente possibile. In quel momento mi sono reso conto che avevo perso il mio telefono.

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Mi guardo intorno, sono solo. Qualche secondo dopo vedo arrivare una coppia, assieme alla quale sono entrato in un ristorante là a fianco. Lì c'erano tutte quelle coppiette che cenavano a lume di candela, era un ristorante chic, e queste persone mi vedono arrivare vestito così come mi vedi, tutto in jeans, con un berretto—non mi sono capmbiato i vestiti da venerdì, per dirti—e quella coppia di giovani. La ragazza era ricoperta di sangue e trasportava il suo ragazzo, che era stato ferito. Una pallotola gli aveva sfiorato la tempia e un'altra gli aveva colpito il lobo dell'orecchio. Era letteralmente passato tra due pallottole. I clienti del ristorante come hanno reagito?
Il proprietario e lo staff ci hanno accolto senza problemi, ma non hanno smesso di fare ciò che stavano facendo. Ci siamo rannicchiati in cucina, terrorizzati, mentre loro continuavano a dare le comande, robe così. Non avevano assolutamente capito cosa stesse succedendo. È Parigi, era venerdì sera. Avranno pensato che fosse una zuffa o un'aggressione.
Esatto. A un certo punto un cliente del ristorante, un ragazzo di 20-22 anni con l'aria da primo della classe, è venuto a farmi delle domande completamente fuori di testa. "Ah c'è stata una sparatoria? Ma che tipo di sparatoria? Con pistole vere?" E così è iniziata la messinscena in tutto il ristorante, con domande una più assurda dell'altra. Noi avevamo voglia soltanto che facessero entrare altri sopravvissuti, poi chiudessero le porte del loro cazzo di ristorante e tirassero giù la saracinesca.

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Quanto è passato prima che arrivasse la polizia?
25-30 minuti. All'inizio sono arrivati i pompieri che hanno portato via Will, il ragazzo ferito. Io sono rimasto con la sua compagna, Morgan, con un ragazzo completamente muto e una madre che cercava sua figlia che era al concerto e le aveva inviato un messaggio per dirle che stava bene, ma che aveva visto la sua migliore amica morire davanti ai suoi occhi. Attorno a noi, tutte queste persone che non capivano niente. Non avevi voglia di rinchiuderti da qualche parte?
Sì. Ma tra Morgan che era completamente nel panico, il tipo che non era in grado di parlare e la madre di famiglia terrorizzata, mi sono sentito obbligato a stare lì, a mantenere i nervi saldi. Mi dicevo "non andare anche tu nel panico". Dentro ero terrorizzato. Ma non potevo cedere. Il mio primo riflesso è stato chiedere ai camerieri di darmi un alcolico forte. Per calmarmi. O per essere quantomeno stordito se fossero arrivati ad ammazzarmi.

Quanto tempo sei rimasto lì?
Non ne ho idea. Ho annotato tante cose [tira fuori un quadernino]. Ho sempre con me il mio bloc notes e ho annotato frasi per tutta la sera. Ho scritto gli orari. Non mi volevo dimenticare certe cose. Poi c'è stato il momento orribile in cui il proprietario del ristorante ci ha chiesto di uscire.

Veramente?
Sì. Ma non l'ha fatto in maniera dura. Dovevano chiudere: "bene, signori, grazie mille ma dobbiamo chiudere". Un'altra cosa che mi è rimasta impressa è che a quanto pare sui social network la gente ha iniziato ad annunciare il rilascio degli ostaggi del Bataclan a mezzanotte e venti. Ma noi, che eravamo poco distanti da lì, vedevamo le forze dell'ordine ancora in piena agitazione. In quel momento ho pensato di volermene andare.

Dove volevi andare?
Avrei dovuto beccare alcuni miei amici dopo il concerto, e volevo raggiungerli, anche a piedi. Dovevo partire. Sono riuscito a farmi prestare un telefono, mi sono connesso a Facebook per avvertirli e ho visto che avevo una cosa tipo 170 notifiche e 40 messaggi. Ho inviato loro un messaggio per dir loro "aspettatemi, arrivo." Ho avvertito i miei genitori che ero sano e salvo, ho chiesto a mia madre di postare un messaggio su Facebook per dire che ero al sicuro e sono partito.

E te ne sei potuto andare così?
Credevo di sì, ingenuamente. Morgan voleva raggiungere il suo compagno all'ospedale Lariboisière, che era sulla mia stessa strada. Ci siamo fatti forza e stavamo per metterci in cammino. Una volta fuori, però, ci siamo resi conto che le forze dell'ordine avevano piazzato il loro quartier generale proprio lì a fianco e non appena abbiamo messo piede fuori dal ristorante un Robocop ci ha ordinato di rimanere lì dov'eravamo e di tornare al sicuro nel ristorante. Gli abbiamo detto che il proprietario voleva chiudere e lui ci ha risposto "Non è finita, tornate al sicuro." La situazione era surreale. Da un lato un tizio che ci voleva sbattere fuori e dall'altro un poliziotto che non voleva farci uscire. Eravamo lasciati a noi stessi.

Alle 2.45 ci hanno chiesto di uscire, e siamo stati scortati dai poliziotti fino al commissariato. Una volta lì, siamo stati prelevati dalla Croce Rossa. È stato lì che mi sono reso conto che avevo avuto una fortuna fottuta. Parlando con altri sopravvissuti, con alcuni di cui avevo visto il volto su quella strada o in quel locale, con chi aveva perduto un amico, con chi era stato tenuto in ostaggio, con chi era rimasto in trappola. Volevi ancora andare a raggiungere i tuoi amici?
Sì. Ma mi dicevano di non farlo. Sono riuscito a isolarmi per fumare una sigaretta e da lontano ho visto una cinquantina di telecamere e un quantitativo impressionante di fotografi che stavano arrivando verso di noi. E ci chiamavano. "Signore, scusi, vorremmo farle due domande!" Lì mi sono detto: "Ok, non mi muovo da qui." Più tardi, quella notte, siamo stati portati a casa. La prima cosa che ho fatto, arrivato a casa, è stato chiamare mia madre e chiederle di venire a trovarmi. Oggi che è passata una settimana, come ti senti?
Ho l'impressione che sia ancora quel venerdì. Mi sembra che il tempo si sia fermato. Anche io ho quest'impressione. Dal momento in cui ho deciso di non stare più dietro ai social network e di rimettermi in sesto, è andata un po' meglio però. Tu oggi sei sul set di un videoclip, quando hai ricominciato a lavorare?
Quasi subito. Questo mercoledì, al Klub. Dovevo seguire un concerto domenica sera e, se non l'avessero annullato, credo che sarei andato. Sabato è stato atroce. Non ero letteralmente in grado di camminare per strada. Mi sono mosso solo in macchina, e mi facevo lasciare davanti al posto in cui dovevo entrare. Ho anche rischiato due crisi di panico, una per un senzatetto che è venuto a chiedermi dei soldi, l'altra quando ho visto un militare armato. Oggi suona un po' ridicolo, ma sul momento è stato un incubo vero. Mi hai detto, prima che iniziassimo a registrare, che martedì sera sei stato al Trabendo a vedere i Kadavar. Com'è stato?
È stato ok. Tranne un paio di momenti. All'inizio, quando ho visto che c'era una telecamera della televisione in sala. Sono andato dai tizi a chiedere loro cosa stessero facendo, ero incazzato. In realtà stavano seguendo il cantante dei The Shrine da una settimana, non c'entravano nulla gli attentati. Comunque ci erano abituati, perché erano un paio di giorni che li insultavano ad ogni concerto in cui entrassero. L'altro momento difficile è stato alla fine del concerto, quando si sono accese le luci. Mi è venuto automatico guardare dove fosse l'uscita di sicurezza, e guardare la gente intorno a me. Ok, ero lì, ero felice di essere lì, ma non ero totalmente presente. Sono contento comunque di averlo fatto. Parli della tua reazione alle telecamere. Come hai preso tutto quello che è successo sui social network? Quando mi hai contattato è una delle prime cose di cui abbiamo parlato.
Mi rifiuto di seguire i social network, anche se sono obbligato a usarli dato che non ho più un telefono e il mio unico mezzo per comunicare con i miei amici, al momento, è Facebook. Ma quello che succede là sopra è oltre ogni mia immaginazione. Mi è capitata davanti questa foto del Bataclan… Non ho parole per descrivere come mi ha fatto sentire. È molto discutibile la decisione di utilizzarla, da parte di un giornale. Ma che gente la condivida su Facebook… O quei video dei colpi di pistola… Io c'ero, a quel concerto. Non voglio in alcun modo ritornarci. Siamo arrivati al punto in cui aggiungiamo solo rumore ad altro rumore. Gente che parla a sproposito, condivide cose a caso, si improvvisa esperto di geopolitica o approfitta della cosa per mettersi in mostra.
È questo che mi fa impressione. Che la questione abbia toccato tutti è comprensibile, ma mi piacerebbe che la smettessero tutti di parlare a sproposito. L'altra sera ero in taxi e il tassista, che era musulmano, ha cominciato a parlarmi delle conseguenze di questa situazione per i musulmani. Gli ho risposto di non preoccuparsi, che la gente non è stupida, ma dentro di me volevo solo urlargli di smetterla di parlare, che non volevo più saperne niente. Che volevo che tutti chiudessero la bocca. Tutti. Perché tu hai voluto parlarne con me oggi?
Perché ho sentito che era il momento di sfogarmi. Ero arrivato al punto in cui non ne potevo più e ho bisogno di liberarmi di un peso per andare avanti. Come saranno le prossime settimane, secondo te?
Mercoledì sera ho lavorato al concerto di un gruppo brasiliano. Il loro tour manager è venuto a parlarmi appena è arrivato il gruppo per dirmi che il loro fonico era rimasto in hotel, in periferia, perché non voleva mettere piede a Parigi. E lì mi sono detto 1/ che avevo fatto bene ad andare a lavorare, quella sera e 2/ che non avrei mai voluto che qualcuno pensasse di me quello che io stavo pensando di quel fonico chiuso in camera. Mi dico questa cosa—e lo so che può essere banale, ma mi aiuta—che quello che è successo a me, a noi, può succedere a chiunque, ovunque. Tutti i giorni c'è gente che muore, ogni giorno c'è gente che perde amici o parenti. Ho una collega la cui migliore amica si è appena suicidata, e lei è lì che tenta di stare a fianco a me e lavorare come sempre. Tutto quello che ho io è un livido enorme che mi sono fatto gettandomi sull'uscita di sicurezza. Sono fortunato ad essere qui. Ho la fortuna di essere vivo e di poter continuare a lavorare. E il mio sogno è quello di curare il suono dei concerti. E lo farò. Bisogna andare avanti. Bisogna che tutti andiamo avanti.