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Musica

Oltre il jazz con Enrico Rava

Abbiamo intervistato il trombettista alla vigilia del concerto a Fiesole della nuova formazione con l'elettronica di Matthew Herbert e il piano di Giovanni Guidi.

(da sx a dx) Matthew Herbert, Enrico Rava, Giovanni Guidi — foto di Roberto Cifarelli

Qualche mese fa sul palco del Nylon Festival di Vercelli, ha debuttato una formazione mai vista in ambito jazz, composta da tre nomi di un certo peso: il trombettista Enrico Rava, il pianista Giovanni Guidi e il leggendario producer inglese Matthew Herbert. Domani (30 giugno) al Teatro Romano di Fiesole, si incontreranno per la terza volta: per l'occasione ho potuto scambiare qualche parola al telefono con Enrico, che è un veterano del jazz italiano classe 1939, raggiungendolo sul pulmino che lo accompagnava a Gravina di Puglia per un concerto!

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Per chi disgraziatamente non lo conoscesse… negli anni Settanta, il trombettista triestino si è trasferito prima a New York, poi a Buenos Aires, affermandosi nella scena del jazz d'avanguardia. Nel corso degli anni ha esplorato gli stili più diversi, dalla fusion più sofisticata al jazz delle origini: sempre stimolato dalle nuove sfide, questa tappa del suo viaggio lo vede dialogare a più riprese con la musica elettronica di Herbert, con la sua capacità di "estrarre" suono da praticamente qualsiasi fonte sonora e trasformarlo in maniera pressoché onnipotente. Insomma, da un lato l'espressività e la fisicità del jazz, dall'altro il minimalismo evocativo ed eclettico dell'elettronica hanno dato vita ad un incontro talmente spontaneo, da ridefinire i contorni della jam session, che è il momento per eccellenza dove la creatività del jazzista si sprigiona. In questa intervista, ci racconta in dettaglio la sua esperienza con Matthew Herbert e Giovanni Guidi.

Noisey: Innanzitutto, come è nato questo progetto? Chi di voi tre ha fatto il primo passo?
Enrico Rava: Non lo so esattamente! L'idea penso sia venuta agli organizzatori del Nylon Festival di Vercelli, un festival di musica elettronica, tant'è che il giorno prima del nostro concerto, c'era Villalobos [il quale in quell'occasione ha collaborato con il "solito" Max Loderbauer e Gianluca Petrella, trombonista jazz e membro della band di Enrico Rava in numerose occasioni — ndr]. La loro intenzione era quella di fare degli incontri con dei jazzisti e hanno pensato a me e Giovanni: dal momento che lui è molto inserito nella scena elettronica e che sapevano che io stesso avevo già fatto concerti con altri DJ e che questa cosa mi piace, ci hanno invitato. Poi, trattandosi di Matthew Herbert, non ho esitato! Se dovessi individuare chi ha fatto il primo passo, ne darei il merito un po' ai ragazzi di Vercelli e un po' a Giovanni. Ad ogni modo sono contento che sia successo, mi diverto un sacco!

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I brani che suonate sono legati strettamente alla dimensione del concerto o sono stati provati più volte in precedenza?
No assolutamente, non sono stati provati. La prima volta, Giovanni è andato a Londra e Matthew gli ha chiesto di registrare un po' di cose che successivamente ha elaborato e trasformato, creando uno scheletro di suoni stupendi, adatto anche a me. La cosa che apprezzo di più, è che durante il concerto Matthew interagisce con me e con Giovanni, usa il suo "strumento" come se fosse un jazzista: lui mi manda degli input ed io rispondo, non è mai una cosa fissa. Per il secondo concerto [lo scorso maggio, a Trento, ndr], prima del soundcheck, mi ha chiesto di suonare un po' di frasi con la tromba, poi sono tornato in albergo: qualche ora dopo, aveva reso irriconoscibili quasi tutti i miei suoni, aggiungendo oltretutto un'architettura ritmica molto interessante. Durante il live ha usato questo materiale per improvvisare, rispondendo a ciò che io e Giovanni suonavamo.

Mi sembra che questa inclinazione alla commistione sia approfondita—in maniera differente—anche dal suo New Quartet… ad esempio, usando effetti elettronici che modificano il timbro dei diversi strumenti…
Sì, sì!

Ecco, volevo sapere in quale maniera l'elemento elettronico influisce sul modo di improvvisare, rispetto ad una formazione classica.
Per quanto riguarda il quartetto, suoniamo – per il novanta per cento – brani miei, che ho composto e che ogni sera suonano un po' diversi, ma restano comunque composizioni. Con Matthew, è tutta un'altra cosa: improvvisiamo, avendo a disposizione lui, il materiale che ha creato, ed io, il mio strumento. Giovanni ha un ruolo importantissimo perché ha la funzione di "collante", in un certo senso. Al netto di tutto, c'è veramente molta improvvisazione.

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Un'improvvisazione quasi libera: in qualche modo, ritrova quello che faceva negli anni Settanta.
Bravo, è esattamente così! Difatti, mi trovo molto a mio agio, perché è una situazione che controllo, che conosco. Certo, quella musica si chiamava free-jazz, questa è una cosa molto diversa. Premesso che Matthew è un genio e ciò fa una grande differenza, i suoni con cui interagisco in questa occasione sono totalmente differenti da quelli che trovo nel gruppo. Ad esempio, nel quartetto c'è una chitarra elettrica, il cui suono può essere modificato con degli effetti, ma è ben lontano da ciò che può fare Matthew Herbert.

Sente di fare cose diverse quando è sul palco, visti i contesti così eterogenei?
Ci sono differenze, però, alla fine, io suono come so suonare! Diciamo che con Matthew, c'è più improvvisazione "totale". A volte lui introduce dei ritmi molto stimolanti, dei suoni che non mi aspetto per niente. Per il primo concerto, non posso dire che avessimo provato: lui mi ha descritto più o meno il materiale che aveva preparato, poi abbiamo suonato, senza prestabilire nient'altro. La trovo un'occasione molto interessante, che può essere una delle vie di scampo possibili per il jazz.

A proposito di vie di scampo… Herbert in una recente intervista ha sottolineato la decisione di non volere fare musica da "dinner-party". Questo progetto, secondo lei, interroga ciò che può essere jazz, il quale spesso evita di rinnovarsi e si adagia su formule semplicistiche?
Su questo non sono del tutto d'accordo: è vero, ci sono ancora quelli che continuano a fare il jazz di trent'anni fa, però nel frattempo ci sono anche delle cose nuovissime, che peraltro non mi emozionano molto. Musica da "dinner-party" non saprei… spesso mi accorgo che al ristorante o in ascensore che c'è del jazz molto "soft", orecchiabile; ma allo stesso tempo, c'è anche tanta musica elettronica "soft".

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Però di fondo mi sembra ci sia la volontà di mettere alla prova l'ascoltatore, di slegarsi dai canoni di entrambi i generi…
Allontanarci da quello che può suonare scontato è una cosa che avviene in maniera molto naturale, non è una scelta fredda e analitica. Ho sentito uno dei concerti più "pop" di Matthew ed è stato meraviglioso, molto lontano da quello che uno immagina quando si parla di musica pop: lui è un musicista originale, non ha bisogno di scegliere di esserlo. Pur avendo agito sempre in un campo diverso, mi sento anch'io abbastanza originale: non ho mai dovuto scegliere di sfidare qualcuno, semplicemente cerco di fare quello che mi stimola di più e, in generale, mi sembra sia abbastanza diverso da ciò che il gusto popolare apprezza.

Ha già dialogato con l'elettronica in altre occasioni, collaborando con DJ Ralf e Jon Hassell. In che cosa questi progetti erano differenti—se lo erano—dal punto di vista tecnico, rispetto a quest'ultimo lavoro?
Sì, sono cose molto differenti. Jon Hassell ha voluto fare un lavoro (Sketches Of The Mediterranean, ndr) su Gil Evans, ispirandosi ad alcuni dischi come Porgy And Bess e Sketches Of Spain [due dischi di Miles Davis a cui collaborò pesantemente Evans, ndr]. Dopo aver elaborato questo materiale, costruendo un'ossatura abbastanza fissa, abbiamo provato due-tre giorni. Con DJ Ralf è stata un'altra cosa ancora: abbiamo fatto un paio di concerti davanti a delle folle pazzesche di ragazzini e il fulcro principale era un ritmo continuo, quasi tribale: in più, la prima volta che abbiamo suonato assieme, molte delle sue strumentali erano costruite su dei campionamenti presi dall'album Jack Johnson di Miles Davis, con l'aggiunta di percussioni africane. Con Matthew, invece, si improvvisa nel vero senso del termine.

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Un "call and response" a cui prende parte anche l'elettronica…
Esattamente! Poi lui ha anche una conoscenza profonda del jazz, avendo già lavorato in questo ambito nei progetti con la sua Big Band. È un artista che si muove in molte direzioni diverse: questo è ciò che veramente mi appassiona, perché può darsi che, durante il concerto di Fiesole, ciò che accadrà sul palco sia totalmente diverso dalle occasioni precedenti. È un po' questo quello che mi motiva a continuare, mi piace trovarmi in situazioni che mi sorprendono, altrimenti sarei già a dar da mangiare ai piccioni e mi annoierei a morte!

Queste parole fanno eco a quello che dice il suo amico e trombonista Roswell Rudd nel documentario presentato a Biografilm sulla sua carriera, dove descrive l'improvvisazione come un equilibro tra conosciuto e sconosciuto. Si può dire che con Herbert, l'area dello "sconosciuto" sia molto vasta?
Sicuramente. È come conversare su argomenti che cambiano di continuo. Ognuno è davvero costretto a porre attenzione a ciò che sta suonando e a ciò che suonano gli altri: è effettivamente una questione di concentrazione assoluta. Sono sempre stato molto scettico su certi musicisti, anche grandi nomi, che, una volta che finiscono il loro assolo, vanno al bar, si fumano una sigaretta, bevono whiskey, mentre il resto della band suona. Col mio gruppo, quando non sto suonando, sono concentratissimo su quello che suonano gli altri, perché la musica sia un tutt'uno, l'intuizione di un corpo unico. Non mi piace l'idea che faccio il mio show e poi mi tolgo dai coglioni!

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Tra l'altro penso che un orecchio attento possa accorgersi abbastanza agevolmente se i musicisti stanno suonando disconnessi l'uno dall'altro. Mi è capitato di ascoltare Tomasz Stańko circa un mese fa e sono rimasto spaesato perché sembrava che la band fosse stata assemblata due giorni prima e si percepiva chiaramente uno "scollamento".
Beh, è una cosa che può succedere! Soprattutto per chi suona molto, com'è nel caso di "noi" jazzisti: qualcuno, a un certo punto, può cadere in una routine…

…adagiandosi un po' sul "conosciuto".
A qualcuno, invece, basta fare un bell'assolo e poi gli altri, che facciano quello che vogliono! Non è questo il mio modo di concepire il jazz.

A cavallo tra anni Sessanta e Settanta, lei ha vissuto in prima persona la stagione del jazz d'avanguardia, suonando assieme a, tra gli altri, Steve Lacy, Gato Barbieri e Don Cherry. Pensa sia una sorta di età dell'oro difficilmente ripetibile, un'epoca durante la quale l'esigenza di andare contro i dettami dell'industria culturale non significava fare concerti davanti a trenta persone?
In Italia, di fatto, significava suonare di fronte a migliaia di persone. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, essendo una stagione molto politicizzata e non essendoci più i mega-concerti a causa dei casini, degli sfondamenti che erano successi, tutto quel popolo estivo di "saccapelisti" che girava l'Italia per i grandi eventi, si è riversato nei festival di jazz: ad esempio, ad Umbria Jazz nel 1976 dove ho suonato, c'erano quarantamila persone. Tutte le Feste dell'Unità avevano un concerto di jazz d'avanguardia e le persone ci andavano perché davano, erroneamente secondo me, una connotazione "di sinistra" a questa musica, mentre etichettavano "di destra" musicisti come Count Basie, una grossa stupidaggine! In America no, si suonava seriamente davanti a trenta persone: la situazione migliore era sicuramente in Italia e in Francia. È stata un'età dell'oro, ma di età dell'oro ce ne sono state tantissime! Per esempio, gli anni Venti quando Louis Armstrong e Bix Beiderbecke hanno inventato letteralmente il jazz, gli anni Trenta con Duke Ellington, Basie, poi c'è stato il be-bop! Ciascuna di queste è veramente irripetibile, un po' perché cambia il momento storico, un po' perché, fino agli anni Ottanta, era come se si stesse ancora inventando questa musica. Ad un certo punto è diventato difficile innovare ancora: per fare un parallelismo, in letteratura mi ricordo che negli anni Sessanta in Francia, c'era Marc Saporta che scriveva dei libri con le pagine intercambiabili…

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Steve Lacy con Rava alla tromba

Perec diceva che dopo Finnegans' Wake di Joyce, il linguaggio era diventato terrore, poiché tutto era permesso, ma niente era possibile… in qualche modo, ad un certo punto si deve tornare indietro.
Esattamente, dopo che John Cage è giunto a 4'33'' o si è arrivati alla provocazione di segare un violoncello, allora si comincia a lavorare su ciò che proviene dal passato. Tutta la storia del jazz, anzi della musica è uno strumento per qualsiasi musicista che sia desideroso di andare avanti: compreso il dixieland!

Sono d'accordo, non capisco l'intransigenza di chi ascolta solo free-jazz o be-bop…
Quelli sono i "talebani" della musica, i quali credono che il jazz sia iniziato nel '44 e finito nel '65. Oggi, in America, ci sono musicisti molto giovani e tecnicamente molto bravi, che però, secondo me, fanno una musica molto celebrale…

…e meno corporea.
Tempi incomprensibili, 11/8, cose così. Sicuramente si diverte chi suona, ma chi ascolta!? Mi suscita pochissime sensazioni questa nuova musica che fanno negli Stati Uniti ed effettivamente ha pochissimo seguito. Lavorando con la musica elettronica, invece, di emozioni ne ho tantissime.

Come ultima domanda, può consigliare un disco jazz per lei imprescindibile?
Un disco assolutamente essenziale e che abbraccia un po' tutto è Miles Ahead, il primo disco di Miles Davis con Gil Evans… Sceglierne uno è una limitazione tremenda!

Può essere, però, un buon viatico per scoprire tutto il resto…
Ti ho citato questo disco perché l'ho amato quando uscì e continuo ad amarlo tuttora!

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