In trincea con gli Sleaford Mods

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Musica

In trincea con gli Sleaford Mods

Ho parlato con il duo di Nottingham del nuovo album, di Glastonbury e degli stronzi che li fanno incazzare.
Giacomo Stefanini
Milan, IT

Tutte le foto sono di Simon Parfrement eccetto dove indicato.

Ti ricordi la prima volta che hai sentito gli Sleaford Mods? Io non proprio, ma ricordo quando mi resi conto di esserci davvero sotto. Credo di aver letto qualcosa su di loro su uno degli ultimi forum musicali ancora in vita. Divide and Exit, il capolavoro del 2014 che ha riportato un sano gusto per la coprolalia nella musica indipendente mondiale, non era ancora uscito, ma "Fizzy" era dappertutto. Subito pensai che la linea di synth idiota di quel pezzo era irritante, e che non avrei mai potuto capirli per via dell'accento. Poi invece sentii "Tied up in Nottz" e andai completamente fuori di testa. Mi comprai tutto quello che potevo permettermi e imparai a memoria quel poco che riuscivo a capire dei testi. Nell'ultimo anno o giù di lì questa stessa storia te l'avranno già raccontata tutti quelli che conosci, e probabilmente anche tu ne hai una simile. Perché gli Sleaford Mods sembrano essere inarrestabili e forse l'unico gruppo del cui successo gioiamo tutti, dal punk intransigente al fanatico di elettronica rumorosa, dalla banderuola indie a quei tizi che si comprano tutte le ristampe vinile 180g delle colonne sonore (ma non farebbero prima a scaricare il film intero?).

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Il nuovo album Key Markets uscirà il 24 luglio, trainato dai singoli "No one's bothered" e "Tarantula Deadly Cargo". Il disco non presenta cambiamenti sostanziali nello stile del gruppo, il che è un bene, perché questo approccio minimalista, lo-fi e semi-spoken word ha ancora molto da dire. Man mano che la confidenza con la loro formula cresce, la tecnica si affina: i testi di Jason Williamson fanno sempre più paura, ci sono invettive sparate a raffica che fanno venire la pelle d'oca ("Bronx in a six"), deliri nonsense ("Tarantula deadly cargo"), rap stralunati ("Rupert trousers"), e amare riflessioni sulla futilità dei sentimenti umani fotografate in due parole pronunciate con un ghigno sornione ("No one's bothered"). Le basi di Andrew Fearn rimangono potentissime nella loro semplicità: basso-batteria con discrete intrusioni di synth e chitarre. "Silly me" ha un incedere funk reso cupo dal cantato di Jason, stonato quanto basta.

Non voglio attaccarti il pippone, eh, però questo è un disco che va sentito, e non solo una volta. Non me ne frega un cazzo della loro supposta rilevanza culturale, lo zeitgeist, l'Inghilterra in crisi, la working class: il messaggio degli Sleaford Mods per me è personale, perché il loro apparente disdegno per l'appartenenza culturale (You pretend to be proud of your own culture while simultaneously not giving two fucks about your own culture. What culture? Fuck culture!, "Bronx in a Six") è una condizione ideale per produrre un tipo di arte totalmente individualistica. Mi fa ridere il valore politico che alcune testate più istituzionali tentano di dare a questo progetto, quando le uniche sostanze che si respirano mentre si ballonzola su queste basi un po' ballabili e un po' no sono la frustrazione e lo humour nero. Alla fine di questi dodici pezzi rimangono solo le macerie di una società che si guarda allo specchio senza riuscire a trovare il brufolo che cerca di schiacciare da secoli, mentre i due ubriaconi di Nottingham mostrano il culo. Am I being unintelligent? I don't care. It's a war, you bastards ("Cunt make it up"). Odio dover citare il comunicato ufficiale, ma nessuno può spiegare meglio di Jason i temi toccati dall'album: "distruzione della reputazione, megalomanie e l'assurdità dei governi."

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Ho mandato un po' di domande scritte più o meno di getto a Jason e Andrew e loro mi hanno fatto avere le risposte la mattina dopo. Ne avevo inclusa anche una in cui chiedevo qual è il loro rapporto con le droghe in tour, e ovviamente la risposta è stata "Haha. Come on mate".
Quindi eccovi un'intervista con gli Sleaford Mods assolutamente drug-free.

Noisey: So che avete lasciato i vostri rispettivi lavori per dedicarvi alla musica a tempo pieno. Tu, Jason, hai anche espresso su VICE la preoccupazione che smettere di lavorare ti avrebbe reso un privilegiato e ti avrebbe fatto perdere la tua particolare visione delle cose. Come sta andando finora? Ti manca il lavoro? Pensi che ancora che sia una situazione senza uscita?
Jason Williamson: Quello che ha iniziato a venir fuori è la sensazione di perdere la solidarietà delle persone quando si esce dall'ufficio. Ti trasformi in un'entità singola, a cui non ci si può relazionare. Questo ha molto a che fare con il senso di colpa e con quanto sia ormai legato alle nostre vite. L'altra faccia della medaglia è che posso permettermi una nuova cucina e cinque paia di pantaloni da venti sterline in diversi colori. Posso mangiare il dolce, se capisci cosa intendo. Certo che mi mancano il lavoro e la routine, ma so che se ci tornassi sarei fottuto. Non c'è uscita per nessuno, ma puoi cercare di sopportare il deodorante di tutti questi stronzi. Speriamo di esserne capaci.

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Ascoltando il disco ti ho immaginato camminare per strada e guardarti attorno borbottando contro tutte le stronzate che ti fanno incazzare. Un attacco sotto forma di flusso di coscienza. Anch'io lo faccio tutto il tempo: condanno le persone a morte nella mia mente solo perché mi sembrano idiote e le incolpo dello status quo, oppure sono politici o semplicemente ricconi stronzi. Con che metodo hai scritto i testi? Volevi toccare alcuni temi in particolare?
In alcuni pezzi sì. "Bronx in a six" è una risposta a uno che mi ha fatto incazzare, un piccolo stupido coglione. Altri pezzi sono un po' più diretti, ma in generale ho tentato, come al solito, di creare un'immagine della merda quotidiana. Come l'ho osservata io e come penso sia davvero. Il metodo è stato più o meno di registrare parole sul telefono mentre ero al lavoro, come in tutti gli ultimi album. Alcuni testi sono stati scritti sul momento in studio, ma anche questa è una pratica standard.

Pensi che questa cosa di chiamarvi "la voce della Gran Bretagna di oggi" sia andata un po' troppo in là? Pensi che la gente penda un po' troppo dalle tue labbra e ti prenda troppo sul serio? O non abbastanza?
Penso sia la ricetta per un disastro. Sono molto onorato che quello che faccio sia importante per alcune persone e so che la maggior parte metterà un po' di buon senso nel suo interesse, ma alcuni coglioni ci useranno per sfogarsi dei loro cazzo di problemi irrisolvibili, penso sia un aspetto storico di questo mestiere. Se comincio a comportarmi come un vero stronzo allora ci sta, ma finché ho ancora tutto sotto controllo non lo accetto.

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L'anno scorso siete stati in tour nelle più piccole città della Gran Bretagna, posti dove di solito non va mai nessuno a suonare. Com'è stato? Cosa vi aspettavate e che cosa avete trovato?
Abbiamo trovato un sacco di gente che ci ringraziava, a dir la verità. Lo so che sembra una cazzata, ma abbiamo davvero avuto l'impressione che la gente apprezzasse che fossimo lì. Venivano anche tantissimi scettici a vederci e la maggior parte era presa bene. È stato un vero tour, un lavoraccio, niente stronzate e a ogni concerto si stabiliva un contatto. In più non ero mai stato in metà di quelle città, quindi è stato bello. Davvero, è stato bello.

Andrew, qual è stata la prima canzone su cui hai lavorato? Vi siete resi conto da subito che avrebbe funzionato? Come è stata la prima volta che hai messo su una traccia e Jason ha cominciato a blaterare?
Andrew Fearn: La prima cosa è stata una cosa tipo electro, non era male ma non proprio il suono giusto, forse saremmo diventati un gruppo diverso. È stato e continua a essere una figata lavorare con Jay, penso che faremo grandi cose insieme.

Che cosa succede nella tua mente durante un concerto? Dev'essere strano far parte dello spettacolo ma avere la possibilità di guardarlo quasi da fuori allo stesso tempo.
È davvero difficile da spiegare, il pubblico fino ad adesso è stato una bomba, entrano davvero in sintonia con la musica, amo la diversità delle persone che vengono e che la vivono ognuna a modo suo. Figata.

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Foto di Arne Mueseler.

Torniamo a Jason. Parlami di Russell Brand alla premiazione di GQ, a cui nel disco dedichi il verso: "I know people care, we all fucking care but care don't dare, it don't even scratch the surface" ("lo so che la gente ci tiene, tutti ci teniamo, cazzo, ma tenerci non conta niente, non intacca nemmeno la superficie"). Conosci il Movimento Cinque Stelle? È un partito italiano guidato da un comico. Cosa succederebbe secondo te se Russell Brand guidasse la terza forza politica del Regno Unito? O addirittura Al Murray?
Jason Williamson: Non li ho mai sentiti nominare. Sono onesti? Quello che intendevo con quel verso è che le sue azioni hanno mostrato una grande quantità di compassione che sarebbe anche credibile, ma lui è pur sempre uno che dopo una sessione di autografi se ne va su una limousine con i vetri oscurati o roba del genere. Il testo vuole esaminare la riluttanza a rinunciare al nostro stile di vita per battere il mostro elitista. Poi usiamo i discorsi per giustificare la nostra reticenza a impegnarci.

Che rapporti avete con gli altri artisti che avete incontrato? Avete collaborato con i Prodigy e con i Pop Group, e sia Iggy Pop che Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre vi hanno pubblicamente elogiati. Siete finiti per "farvi degli amici" nel business? Avete anche suonato con una gran quantità di gruppi spalla: quali sono stati i migliori e i peggiori?
Un sacco di opening act di merda, alcuni non erano male, altri dovevano semplicemente smettere di tirarsela, ma in generale non hai voglia. Andare in tour è noioso e l'ultima cosa che ti va di fare è guardare il gruppo spalla. Stiamo molto attenti a non fare gli stronzi però. Ci siamo fatti un po' di amici quest'anno, considero Anton Newcombe un compare, lo sento ogni tanto; altri ci hanno hanno dato informazioni utili all'inizio sui vari pericoli e trappole, questo ha portato a vaghe amicizie. Iggy Pop ci supporta moltissimo, il che è folle. Lo ascoltavamo quando eravamo ragazzini e abbiamo grande stima di lui, come quasi tutti. È un frontman puro. Zero cazzate.

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Sembrate non avere un tipo specifico di pubblico, come dimostra la bellissima foto che si trova all'interno di Divide and Exit: ci siete voi che vi esibite di fronte a un punk con la cresta, un vecchio topo di pub con un ghigno cinico, una donna in tailleur e altra gente tutta diversa; tutti sembrano divertirsi come pazzi. Pensate di essere arrivati a conoscere abbastanza bene il vostro pubblico, a questo punto?
No, sono sempre sorpreso dalla gente che incontro, è fantastico vedere che ognuno ha le proprie ragioni per seguirci.

Usi il sarcasmo per distanziarti dagli stereotipi dello stile di vita rock'n'roll, tipo le frecciatine lanciate a Glastonbury dallo stesso palco di Glastonbury. Questa, per me, è un'espressione di saggezza: non solo è importante tenere i piedi per terra e rimanere se stessi, ma se lo fai perché pensi di doverlo fare stai sbagliando tutto. Mi sembra che la vostra attitudine venga da una profonda comprensione e da un genuino disprezzo per gli ingranaggi del music business che schiacciano così tanta gente. Le trasmissioni del primo pomeriggio sono tappezzate di veri rocker della working class che cercano di non sembrare in imbarazzo mentre il presentatore sbaglia la pronuncia del loro nome leggendolo dal gobbo. Voi invece date l'impressione che tra trent'anni sarete sul palco di Glasto a pisciarvi addosso come ha fatto quest'anno Mark E. Smith, dimostrando ancora una volta l'integrità e l'etica lavorativa dei Fall. Almeno ve lo auguro.
C'era un tizio davanti, proprio in prima fila. Verso la settima canzone l'ho guardato e stava agitando un pugno in aria, tutto preso bene. Penso stesse dicendo qualcosa tipo "I fucking love you two". È stata l'unica persona tra tutte con cui ho sentito una connessione. Non sto dicendo che non sentissi vicini anche gli altri, ma mi ha colpito come ogni tendone si riempisse in base all'hype. Mi sono sentito come un orso polare dentro a una merda di ambientazione artica artificiale. Mi ha fatto incazzare. Mi ha fatto incazzare la passerella di band trascurabili, gli ego ingiustificati. Eppure Glastonbury ha diffuso la nostra musica in lungo e in largo grazie alla trasmissione in TV, questo lo riconosco.

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