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Musica

2015: il ritorno della "Vibe Generation"

Tame Impala e Neon Indian hanno riportato la tendenza alla nostalgia sintetica che qualche anno fa aveva consacrato Toro Y Moi e Washed Out come voci di una generazione disillusa.

Il manifesto ufficiale della cosiddetta "Vibe Generation" è arrivato, ironicamente, da un tizio che impugna una chitarra. "Sono stato cresciuto credendo che in qualche modo sono unico," canta il ventinovenne Robin Pecknold, frontman della band Fleet Foxes, nella title track del loro album del 2011, Helplessness Blues. “Come un fiocco di neve che si distingue tra altri fiocchi di neve, unico sotto ogni angolazione." L'album Helplessness Blues tratta di un argomento in particolare, dato che è stato concepito appena dopo una rottura durissima. Il pezzo in questione, però, parla di un'ansia molto specifica che quasi chiunque oggi abbia 26 ai 35 anni può comprendere: che succede se non riuscirò mai a trovare la mia strada? Ha qualche importanza?

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Sul chiudersi del pezzo, Pecknold non ha ancora trovato una conclusione, e quattro anni più tardi, nemmeno noi. Siamo una generazione molto concentrata su se stessa, che si auto-analizza e si guarda molto addosso, e questo sguardo perennemente rivolto all'indietro non può far altro che sollevare domande le cui risposte sono un eco, ossia altre domande. La realtà è che non vogliamo veramente trovare risposte, ci basta avere l'impressione che ciò che sentiamo è diverso da tutto il resto, che noi siamo diversi da tutto il resto, e questa è la condizione necessaria per sopravvivere all'orrenda prospettiva della nostra vita pubblica e privata, così somigliante alla homepage di un social network. Sul piano estetico, le droghe che prendiamo ci servono a credere che stiamo aprendo le nostre menti più che possiamo, e così la musica che ascoltiamo: suoni sintetici che rispecchiano lo spettro emotivo caricaturale e ridotto cui ci siamo abituati.

Molta della musica che fa da specchio alle emozioni dei millennials suona proprio come se stesse uscendo dagli speaker di un negozio di vestiti, e a volte è proprio così. Non che ci sia nulla di male, eh. Un buon numero delle tracce che funzionano, negli ultimi anni, non sono molto di più che "background music," anche se di fatto è roba che ci si para costantemente davanti agli occhi, altro che sottofondo. Dal pulsare incessante e aggressivo dell'EDM, fino all'emotività dell'hip-hop più giovane, fino ad arrivare alla teatrailità dell'alternative-pop o dell'indie con grossi budget alle spalle, questa è la musica che abbiamo davanti ogni giorno. Spesso ci si identifica con un particolare genere musicale, ci si perde nella musica, ma in questo caso non ci è data la scelta: questo è il suono che rispecchia la nostra generazione. Una sensibilità sintetica.

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La Chillwave—un genere di pop elettronico forse morto che ha lanciato un sacco di producer da cameretta—potrebbe essere il punto d'inizio di questo fenomeno d'ascolti generazionali. Ma da dove era arrivata la Chillwave? No, non è stato quell'album degli Animal Collective,

Merriweather Post Pavilion

(anche se gli AnCo sono sicuramente tra i progenitori della Vibe Generation—dai, e che cazzo, hanno chiamato un album

Feels

). Dico: da che condizioni geopolitiche, sociali, economiche è arrivata? Siamo una generazione che viene messa a contatto con la morte e con la tragedia ogni giorno, tutto tramite uno schermo.

Si direbbe che i movimenti musicali nascono da un disagio e dal desiderio di cambiare le cose, ma il caso della chillwave è un po' più complesso. A livello sonoro e a livello di influenze, questa musica è nata da una ritirata generazionale—da un desiderio collettivo di ritornare nel nido, forse, o almeno in un posto in cui veniamo lasciati soli con noi stessi, anche se la superficie è completamente diversa. “I found a job/ I do it fine/ Not what I want/ But I still try,” dice Toro Y Moi nel singolo del 2009 “Blessa,” uno dei pezzi all'inizio della catena Chillwave. Parecchi articoli hanno cercato di estrapolare da quel testo una sorta di manifesto della Chillwave, e forse in alcuni casi si sono avvicinati a definire quello spazio grigio tra malessere di fondo e "va tutto bene" che molti giovani adulti vivono regolarmente.

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Il movimento Chillwave sembra essersi estinto, in parte perché molti dei suoi fautori erano mossi da ambizioni economiche, più che artistiche. I software rendevano molto semplice fare in casa pezzi che ambissero al livello emotivo del totem chillwave dei Washed Out, “Feel It All Around,” così spuntarono fuori centinaia di aspiranti musicisti tutti a fare eco a questo pop elettronico nebuloso e nostalgico. La trinità del genere è rimasta però sempre intatta: i Washed Out, Toro Y Moi e Alan Palomo aka Neon Indian.

L'ultimo album di Neon Indian, VEGA Intl. Night School, probabilmente è il miglior disco Chillwave uscito negli ultimi tempi: un'opera in alta-definizione che combina sonorità dance anni Ottanta a occhiolini strizzati al padrino della lo-wave Ariel Pink. Palomo è diventato uno stilista generazionale allo stesso modo di Green Gartside degli Scritti Politti, che catturava il consumismo e l'autoreferenzialità del pop della sua epoca. Che lo faccia o meno intenzionalmente, Palomo incarna l'ossessione della Vibe Generation: una sensibilità talmente presente da essere una sensualità statica, sintetica, e una lontananza dalla realtà, il desiderio di lasciare il mondo alle nostre spalle.

Lo sguardo nostalgico della Chillwave, con gli anni, venne ripreso da altre tendenze emergenti nella musica alternativa: una vicinanza sempre più colposa ai synth e al sampling, l'allontanamento dalle chitarre, un approccio sonoro che favorisse la sensualtià tattile anziché una sensibilità libresca, poetica, come se ne vedeva nella musica alternativa cantautorale, e un amore incondizionato per tutto ciò che fosse retro, come se per la nostra generazione fosse impossibile vivere il presente, come se fosse meglio rifugiarsi nella retromania a tutti i costi.

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I Crystal Castles stavano al crocevia tra harsh electro, goth, e quello che il critico Simon Reynolds aveva etichettato come il “nuovo pop” degli anni Ottanta. Nell'album omonimo del 2011, Bon Iver uscì dalla sua proverbiale capanna nei boschi per farsi prendere, anche lui, da tastiere patinate e dal fascino per i lavoro di esteti jazz come Pat Metheny e Bruce Hornsby—lo stesso fascino catturò Dan Bejar dei Destroyer, che riuscì a garantire longevità alla sua band grazie al salto sul pezzo super ammiccante, e super riuscito, "Kaputt".

Sempre nel 2011 uscì quella che potremmo definire la Stele di Rosetta della Vibe Generation: il doppio album degli M83, Hurry Up, We’re Dreaming, un titolo che riassume a pieno la risposta sognante di questa generazione alla chiamata alle armi. Anthony Gonzales, a capo del collettivo, è un nostalgico, e nemmeno questa nostalgia è una novità: il precedente sforzo della band, Saturdays = Youth del 2008, era un richiamo già consistente ad epoche passate, ma Hurry Up, We’re Dreaming prendeva sul serio quella attitudine di aggressione delicata che, prima di allora, era stata prerogativa di band quali gli Smashing Pumpkins degli anni d'oro (una band che potremmo definire i Nirvana della vibe generation) e il loro singolone “Midnight City” diventò presto un inno il cui ritornello, senza parole, rispecchiava la progressiva perdita d'importanza dei testi per questa nuova ondata di musicisti.

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“Midnight City” portò alla ribalta internazionale il progetto M83—e lo mise al centro di quella scena soft-EDM formata da ragazzini bianchi le cui aspirazioni erano più o meno vivere alla giornata, far festa e non pensare ad altro che alle proprie astrazioni, e quel pezzo era la “Don’t Stop Believing” di questa generazione. Il set degli M83 all'Ultra Music Festival del 2012 fu, secondo molti, un disastro completo, ma il fatto stesso che una band di rock alternativo riuscisse ad avere il suo posto in quel grosso festival EDM era il segno più rilevante del cambiamento cui la scena alt-rock si stava lentamente adeguando.

Nel frattempo il rock tout court stava sbiadendo: oggi è comune sostenere che le chitarre siano passate, che il rock sia morto. Per molti Jack White e Dave Grohl, oggi, sono figure quasi ridicole, ma per altri restano degli eroi indiscussi. In ogni caso, anche il rock si è in qualche modo adattato alla nuova ondata "vibe", concentrandosi sul versante più psichedelico, che è quello accettato e da cui si prende maggiore spunto. Real Estate, Mac DeMarco, Woods e Kurt Vile hanno incentrato il proprio successo sulle atmosfere create dalle proprie tracce che sembrano uscite da jam session sotto stupefacenti; e lo stesso vale per band come The War on Drugs, le cui divagazioni sognanti springsting-esche hanno ricevuto l'approvazione ufficiale di Atlantic, il che è notevole, se si pensa che ancora da qualche parte è sensato pensare alla discriminazione dell'indie da parte delle major.

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Quest'anno, dalla parte delle major, sono passati anche i Tame Impala, un progetto che ha molte cose in comune con War on Drugs: sono entrambe band incentrate sul proprio frontman ed entrambe le formazioni accentuano il versante psichedelico del rock classico. Per Kevin Parker dei Tame Impala, il riferimento classico sono i Flaming Lips, una band che è in un certo senso passata di moda per una determinata audience, ma se n'è guadagnata subito una nuova grazie al lavoro con Miley Cyrus. Parker va a pescare proprio nella zona in cui i Lips prendevano le distanze dai propri mentori (Led Zeppelin, Black Sabbath eccetera) per calcare la mano sulla psichedelia, e la versione rinnovata dei Tame Impala di quella psichedelia è infarcita di iconografia e ritornelli accattivanti che, paradossalmente, limitano la predisposizione free-form del genere e lo avvicinano a quella che nei primi Duemila era l'estetica di band come MGMT.

L'ultimo album dei Tame Impala, Currents, è uno dei prodotti discografici più notevoli di quest'annata: dopo il viaggione che ci avevano concesso nel 2012 con Lonerism, Parker ha deciso di fare economia sonora, mantenendo soltanto il lato sognante e dandoci più dentro con quello percussivo, aggiungendo fantasie motorik ed elementi quasi R&B, che sono andati a rimpiazzare i precedenti debiti del genere al soft rock. Quest'album suona in maniera moderna: pulito e solido, un sistema nervoso gigantesco incasellato in una custodia di un cellulare di ultima generazione.

Nonostante i suoi ovvi intenti populisti, Currents riesce anche ad essere un album intimistico, il che si traduce nell'espressione in musica delle ansie di Parker: vivere così tanto all'interno del proprio cervello da non essere in grado di scappare in alcun modo. Il livello di riflessività a cui si giunge è paragonabile al gesto di mettere uno specchio di fronte a un altro specchio, rivelando il vero problema espressivo di questa generazione: che i disagi espressi non hanno realmente una fonte esterna, né sono risolvibili se non all'interno del nostro sistema individuale.

L'album, a mio parere, raggiunge il suo apice emotivo con la penultima traccia, “Love/Paranoia,” che sembra dar suono ai mutamenti di forma delle relazioni in tempo reale. Parker racconta di come si mette in dubbio, della propria frustrazione, delle sue paranoie, in un modo che non sembra particolarmente distante da quando ci si esprime in questo senso sui social network: “Do you remember the time we were/ The time we were by the ocean/ I didn’t care if it was day or night/ The world was right where I wanted.” Il pezzo si conclude con Parker che dice “I’m really, really sorry,” e fa spavento quanto Parker sembra esporsi a livello emotivo nei suoi testi, quando invece il suo personaggio pubblico appare così freddo.

Ed è esattamente questo tratto della personalità che ritroviamo, più in generale, nei membri della "vibe generation". Cerchiamo di evitare di mostrare le nostre debolezze in pubblico, ma per qualche motivo—il peso accelerato della vita, l'apertura cui i social costringono, le droghe che scegliamo di prendere per dare un simulacro di onestà, anche se per poche ore—bruciare nei nostri sentimenti sembra la condizione necessaria e sufficiente per la condivisione, per sentirci parte di qualcosa. Per cui, anche se non ci è dato più sentirne le conseguenze nella vita reale, diamo sfoggio dei nostri sentimenti, per poi ritirarci immediatamente a rifletterci sulle note di una musica che sembra arrivare dall'autoradio di una navicella spaziale: una visione del futuro resa confusa dalle aspettative disilluse del passato. In parte è anche comprensibile rimanere in questa stasi, dato che è abbastanza facile rassegnarsi al fatto che il presente sia una merda e il futuro resti oscuro, ma il vero pericolo della Vibe Generation è quello di continuare, riflessivamente, a vedere infinite possibilità solamente nel passato.