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Musica

Hudson Mohawke non è quello dei TNGHT

Il 16 giugno esce il nuovo disco di Hudson Mohawke ed è tutto quello che non ti aspetti.

Foto di Jason Bergman

L’ultima volta che Ross Birchard ha visto Kanye West, sono intervenuti i vigili del fuoco.

“‘All Day’ è stata registrata nel mio studio a Londra, dal quale hanno tentato di sfrattarmi subito dopo”, mi racconta. Siamo nel backstage prima del suo concerto all’Irving Plaza, e mentre mi spiega l’accaduto non sembra riuscire a smettere di ridere. “Finita la canzone abbiamo fatto una festa gigante. Qualcuno ha fatto partire l’allarme antincendio e il mio studio è nel sotterraneo della sede di Netflix, per cui mi sono ritrovato un conto da tipo diecimila dollari per l’intervento dei vigili del fuoco e quelle robe lì.”

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Ci pensa un attimo. “È quello è il meno. Il resto non posso dirtelo.”

Anche se è Ross a raccontarmi la storia, il protagonista è in realtà Hudson Mohawke–il suo pseudonimo da produttore–o forse dovremmo chiamarlo HudMo, come lo chiamano i fan e gli amici. Questo allampanato ventinovenne scozzese è diventato rapidamente uno dei produttori più influenti nel mondo della musica elettronica, avendo lavorato con artisti del calibro di Lil Wayne, Pusha T, Drake, Azealia Banks, John Legend e, già, Kanye West (oltre che con la Warp, ha anche un contratto con la G.O.O.D. Music di Kanye). Ross è ormai un hit maker ed è considerato l’inventore del suono grandioso e arrogante degli ultimi cinque anni di rap. Hai presente “Mercy”? O magari Yeezus? Benvenuto alla Hudson Mohawke productions.

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Ma torniamo indietro. Prima di trasformare Kanye in una divinità producendo “I am a god” (e producendo un pezzo rap di 42 minuti per Noisey l’anno scorso) chi era questo scozzese? Cresciuto a Glasgow, iniziò a sperimentare con i giradischi da adolescente. Come ha raccontato a Fader nella cover story a lui dedicata, era solito intrufolarsi nei locali a spiare i DJ ed è così che imparò le basi. Cominciò a partecipare a battle con il nome DJ Itchy, finché non si ruppe le palle e scoprì il programma Fruity Loops (che pare usi ancora oggi). Così nacque il suono che lo ha reso famoso, quando un amico che lavorava alla Warp sottopose il materiale alla label. Il debutto, Butter, uscì nel 2008. Fu accolto bene, ma senza fare il botto.

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Il cambio di marcia arrivò con l’EP del 2012 in collaborazione con il canadese DJ Lunice sotto lo pseudonimo collettivo di TNGHT. Quel piccolo EP (letteralmente piccolo, cinque canzoni per quindici minuti e quarantanove secondi) catapultò il duo fino al ruolo di headliner dei festival. E come tutti gli artisti innovativi di successo, Ross capì immediatamente di dover cambiare direzione se voleva mantenere la visibilità. Ed è qui che si inserisce Lantern, il suo album in uscita il 16 giugno su Warp.

“Molta gente che ascolterà questo disco probabilmente non conosce la mia storia, ma solo ‘Ah, è il tipo dei TNGHT.’ Che è esattamente quello che vorrei evitare”, mi dice. Non sembra frustrato, ma sembra una persona che vuole continuare a rappresentare di più di quello che la gente si aspetta. “Perché, ovviamente, passi dieci cazzo di anni a perfezionare la tua tecnica, e se ti capita una cosa come quella dei TNGHT, super divertente e adoro fare quella roba, ma sarebbe insopportabile dover fare solo quel tipo di cosa per sempre.

Dice che il duo ha ricevuto diverse offerte di pubblicazione per un full-length, ma se l’avessero fatto sarebbero stati “condannati ad avere le parentesi con scritto ‘from TNGHT’ di fianco al nome ad ogni concerto”. Borbotta con il suo accento scozzese: “Non voglio proprio trovarmi in una situazione del genere”.

Gli chiedo di ciò che ha detto a Pitchfork qualche mese fa, che i TNGHT hanno lanciato un genere “parodistico”. Ride. “Un sacco di gente se l’è presa, ma non penso fosse chissà che dichiarazione. Una volta che siamo diventati una specie di musica da esaltati, ci siamo resi conto che non era l’obiettivo che ci eravamo posti. Non solo, ma non era nemmeno qualcosa per cui avremmo sacrificato le nostre carriere soliste, che abbiamo nutrito e cresciuto per anni e anni e anni.”

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Foto di Jason Bergman

È in questi momenti che si vede Ross come un essere umano con dei propositi e un’idea di come crescere professionalmente, invece che semplicemente come quel tipo che sa far esplodere il dancefloor. La sua è una sfida con se stesso per diventare più importante, per essere ricordato, per essere qualcuno. Non vuole farsi chiudere nella gabbia del tunz tunz e del party. La cultura EDM sembra averci insegnato che non hai bisogno di altro che di un laptop, un po’ di talento, e un pezzo; questa è la chiave di tutto. Ross sembra credere esattamente l’opposto, ed è questo che lo rende Hudson Mohawke.

Tuttavia, quando gli chiedo se usciranno altri lavori a nome TNGHT, mi risponde immediatamente, senza esitazione: “Sì, assolutamente. Uscirà altro materiale dei TNGHT di sicuro”.

Ma basta con il passato e con la trasformazione di Ross Birchard in Hudson Mohawke. Parliamo di Lantern; se l’obiettivo di Ross era di creare qualcosa di inaspettato, ci è riuscito alla perfezione. Questo lungo disco di 14 canzoni (il suo secondo album solista) è davvero frutto di questo tempo, una vivace esplosione di suoni che, sotto alla loro scorza scintillante, nascondono un cuore oscuro. Sorprendentemente, nell’album non compaiono rapper, ma cantanti–Miguel, Antony, Jhene Aiko, Ruckazoid e Ifane–su una manciata di tracce. “Il primo disco di Hudson Mohawke fu la cosa di Tweet”, dice, riferendosi alla sua versione di “Oops (Oh My) feat. Missy Elliott”. “Era praticamente un pezzo R&B. Quindi quando la gente mi chiede perché non ci sono rapper su Lantern, be’… la mia prima uscita in vinile era R&B, quindi…” Ride. “Ne facemmo solo 500 copie, comunque”.

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Lantern è stato costruito da zero, senza quasi usare sample a parte nel singolo “Ryderz”. Per farsi un’idea abbastanza completa del disco conviene ascoltare “Portrait of Luci”, una strumentale allegra con un synth in primo piano, un pezzo che sa di amore recente o di nostalgia di cose perdute.

“Che cazzo, ne ho fatti di dischi rap”, dice con foga. “E ne sto facendo al momento, per altra gente. Ma non volevo essere famoso per quello. Ho dato un’occhiata al catalogo delle mie uscite e c’era solo quello. Non è che non lo farò mai più, sarei felicissimo di fare un cazzo di disco rap in futuro, ma penso che a questo punto fosse importante, come ho detto, per tutta questa gente che mi ha conosciuto solo da poco, è importante che io dimostri che so fare tante cose e non solo una serie di bombe rap per scopare.”

A questo punto, un membro della crew di Ross apre il frigo. Ci sono sei birre in totale. “Dovremmo avere un rider serio, cazzo. È meno di quello che mi danno quando faccio il DJ”, scherza Ross (la verità è che devono ancora riempirlo; dopo un po’ ci faranno avere più alcol di quanto ne potremmo mai bere). Il suo collaboratore mi offre una birra. Io accetto. “Oh, merda, scusa. Adesso mi sento uno stronzo”, dice Ross.

Questi piccoli momenti si verificano nel corso dell’intera serata e io non smetto mai di sorprendermene, dato che Ross–in veste di Hudson Mohawke–ha la reputazione di essere un pazzo sociopatico che non vuole mai parlare di niente con nessuno. In realtà invece, è tranquillo. Dopo l’intervista restiamo per 10 minuti seduti sul divano, a guardare vecchi video di Tim & Eric. Più tardi mi chiede di uscire con lui a fumare una sigaretta. Gli dico che quella roba finirà per ammazzarlo. Mi manda affanculo. Fuori, la fila per entrare a Irving Plaza è lunga tutto l’isolato, ma nessuno sembra rendersi conto che l’uomo che sono venuti a vedere si trova proprio lì, vestito completamente di bianco. Parliamo di John C. Reilly e di quanto sia sottovalutato il film Stepbrothers. Conveniamo che Reilly sia un musicista di grande talento, e io gli racconto di quando l’ho intervistato. Ross ne è colpito: “È simpatico?” Yep. Torniamo a Tim & Eric.

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“Hai sentito l’ultimo album di Heidecker & Wood?”

L’ho sentito.

“È fantastico, cazzo, man. Ho sentito un sacco di gente dire: ‘Mah, è la solita roba, una brutta copia degli anni Settanta.’ La verità è che sono semplicemente canzoni fighissime, cazzo.”

Un tamarro col cappello ci interrompe. Ci ha sentiti parlare di John C. Reilly. Si presenta–chiamiamolo Steve, ma non ricordo il suo vero nome– e Ross gli stringe la mano. “Ross”. Il tipo, nonostante indossi un braccialetto e gli scrocchi l’accendino, non ha ancora la più pallida idea del fatto che sta parlando con Hudson Mohawke. È affascinante: questo ragazzo normale è avvolto nel mistero, anche per i suoi fan.

Torniamo dentro, scambiandoci battute da nerd. Gli chiedo cosa ne pensa del successo di Young Thug, sperando segretamente che mi anticipi una loro collaborazione. “Young Thug? Oh, è una figata.” Sorride. Niente da fare.

HudMo a Irving Plaza, New York

Questa sera debutta la backing band di Ross, che comprende il batterista dei Two Door Cinema Club Ben Thompson e il producer Redinho alle tastiere. Irving Plaza ha una capienza di circa mille persone e sembra già sold-out quando l’opening act Remy Banks si prepara a salire sul palco. (Ross si assicura di farmi annotare che apprezza molto il lavoro di Remy e spera di collaborarci in futuro.) Cosa ci possiamo aspettare da una performance di Hudson Mohawke solista con una band dal vivo?

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“Direi che questa è una specie di prova, per vedere se riusciamo a non fare stronzate”, dice. Poi hanno in programma un breve tour prima del giro dei festival europei. “Sono sicuro che a un certo punto scazzeremo.”

Se il gruppo scazza durante il live, io non me ne accorgo. Dall’inizio dello spettacolo con la title track di Lantern, due minuti di rumore completamente privo di melodia e che assomiglia più al richiamo di un animale filtrato attraverso un vocoder, fino alla fine di questo set lungo un’ora e mezza, la band emette una potenza spaventosa. Ross, ora trasformatosi in Hudson Mohawke, sta dietro alcuni pilastri che sembrano usciti da una stazione spaziale. Dietro di lui vengono sparati fasci di luce che si muovono e cambiano colore ad ogni beat di ogni canzone. È una di quelle situazioni in cui percepisci il sudore appena entri nella stanza.

Parlare dell’approccio live a Lantern sembra la cosa che fa prendere meglio Ross. “Non va fatto come se fosse un DJ set”, spiega. “Si adatta abbastanza facilmente. Sono molto contento di fare questo live, perché è una cosa che non ho fatto molto in passato, da solo, a parte stare davanti a un computer.”

Foto di Jason Bergman

Ancora una volta, Ross si sta impegnando per essere diverso da quello che ci si aspetta da lui. Si capisce perché questo ragazzo eserciti una tale attrazione su Kanye West. Vive costantemente la frustrazione di essere inscatolato come artista, e cerca in continuazione modi nuovi per sfuggire alla trappola. “Mi dà piuttosto fastidio che ci vogliano tipo sei mesi a far uscire un disco dopo che l’hai finito. Ho praticamente già finito il prossimo. So per esperienza, avendo lavorato anche con altri, che a volte… tipo, appena abbiamo finito Yeezus è uscito una settimana dopo.”

Ehi, a proposito di Yeezus: chiedo a Ross se può dirmi quando uscirà il prossimo disco di Kanye.

“No”, e ride. “Non te lo dico.”

Dopo il concerto, siamo fuori dal locale e lui sta di nuovo fumando. Torno a ripetergli che finirà per ammazzarlo. Lui mi ripete di andare affanculo. Gli chiedo se la sua vita è cambiata molto, ora che è famoso. “Non mi sento tanto diverso da quando lavoravo in un bar a Glasgow. Certo, in alcuni momenti ti chiedi se non stai sognando, ma per la maggior parte del tempo non cambia un cazzo. Penso che magari gli altri possano avere una certa impressione, o un’opinione sbagliata di me perché mi hanno visto fare qualcosa con qualcuno e si fanno l’idea che io sia uno stronzo.” Abbiamo in programma di andare in un bar dell’East Village, forse farà un DJ set a sorpresa. Ma prima deve passare in hotel a “mollare questi computer”. Mi chiedo per un attimo che cosa tenga lì sopra. Probabilmente un bangerone inedito di Kanye feat. Young Thug, Pusha T, Vic Mensa e Fetty Wap.

“Ti scrivo dopo”, dice, e scompare di nuovo.