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Musica

La santificazione di Cristina D'Avena

Per qualche assurdo motivo, tutta l'Italia ha deciso che Cristina D'Avena è la persona più buona del mondo.
cristina d'avena

Cristina d'Avena sta per compiere 50 anni e da qualche tempo la caratura del suo personaggio è stata rinegoziata pubblicamente, facendola diventare non proprio un'eroina del nostro tempo ma una specie di centro di forza, una monade del pop italiano. O quantomeno un terreno comune, una cosa che conosciamo tutti e con cui ci siamo confrontati tutti in una certa misura e quindi buona a prescindere.

Premessa necessaria: l'assodatissima verità secondo cui una cosa essendo parte della nostra cultura sia buona è uno dei più ridicoli tra quelli che stanno alla base del giornalismo critico musicale odierno. È lo stesso assunto che ci fa considerare dei flop i dischi di pop da classifica che non hanno avuto il successo commerciale a cui aspiravano, tipo Artpop di Lady Gaga, negandone categoricamente la dimensione artistica, un po' perché prendere in esame la dimensione artistica di un flop commerciale dà la sensazione di perdere tempo su una questione che non vale la pena (gente che il tempo lo impiega scrivendo di musica), o di non essere in sintonia con le sensazioni popolari (sticazzi), o più semplicemente di non avere idee che valga la pena di esporre su argomenti per cui l'autocensura sarebbe un dovere morale. Funziona anche al contrario, ovviamente: chiunque si schieri contro una Lorde o una Miley Cyrus (mica ho detto Fichte), a conti già fatti, passa per oscurantista. Suppongo sia questo il mondo a cui volessero arrivare quelli che si scagliavano contro i pareri "soggettivi".

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Un mattoncino da cui partire per riuscire a mettere insieme una grammatica della musica popolare della nostra nazione nella nostra epoca, negli ultimi mesi ho letto diverse cose volte ad inquadare Cristina d'Avena come cartina al tornasole del tempo in cui viviamo. L'ultima è un'intervista apparsa sul Venerdì e rimbalzata da Minima&Moralia, non proprio una pubblicazione per gente che si spara i cartoni animati. Cristina d'Avena, naturalmente, non è quel che si dice una persona con un lato oscuro, e risponde alle domande che le vengono poste con una certa educazione, generosamente ricambiata dall'intervistatrice Teresa Ciabatti.

Va bene non è cambiato niente, lei ha ancora molti fan…
Una volta a un mio concerto è venuto un punkabbestia, barba, piercing, birra. Ho pensato: si sarà sbagliato. Poi quando ho iniziato a cantare Memole e lui è scoppiato a piangere, ho capito: l'infanzia è il rifugio di tutti. Bisogna tornare alla purezza dell'infanzia.

In effetti la musica di Cristina d'Avena rispetta almeno un luogo comune del punk: la sua migliore pubblicazione è il primo sette pollici. Nella fattispecie "Il Valzer Del Moscerino", anno di grazia 1968: fisarmoniche tese a fare da contrappunto musicale, la voce stentata della giovanissima Cristina sul palco dello Zecchino d'Oro che canticchia una filastrocca dai risvolti onirici, e poi il tristissimo ritorno alla realtà (Ho una bambina piccola, è il suo pezzo preferito, il che significa che negli ultimi tre mesi ho ascoltato Il valzer del moscerino ottocento volte. Dopo la centoquarantesima s'inizia a insidiare brutalmente in testa e il testo inizia a cambiare di significato. Dev'essere anche triste avere una carriera artistica in declino dal giorno uno, ma considerato il fatto che nessun altro vincitore dello Zecchino ha fatto poi il cantante di professione (probabilmente alcuni di quelli nella mia compilation sono morti o in rehab), tutto sommato parliamo di una storia di successo. In cosa consiste? Aver cantato le sigle dei cartoni animati che passavano sulle reti di Berlusconi. Roba con cui siamo cresciuti tutti, appunto.

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Suppongo esista un limite anche alle tendenze retromaniache. Il pubblico generico è sempre esistito, e ha sempre avuto a che fare con una certa qual dose di retromania –la gente che va a vedersi Camerini alla sagra della porchetta di Ciola non passa il resto della settimana a cercare musica nuova, ma esprime comunque una preferenza che nel conto finale viene considerata, quantomeno in termini di costi-opportunità. La gente che va a vedersi Camerini alla sagra della polenta ha la stesso atteggiamento equidistante da nostalgia e party-hard che per anni ha riempito i concerti di gruppi tipo i Gem Boy. I Gem Boy sono un gruppo che fa parodie delle canzoni dei cartoni animati, riempiono senza problemi le piste di locali che normalmente programmano i gruppi rock che fanno dischi decenti, diciamo così. I Gem Boy si esibiscono da anni assieme a Cristina d'Avena. Non ho mai visto un concerto, ma ho voglia di vederlo ovviamente –una questione umana. Secondo l'ideologia di Mel Brooks non è possibile fare buone parodie senza amare gli originali, ma come s'inserisce Cristina d'Avena in questo scenario? Cantare nel gruppo che sfotte i tuoi pezzi è il trionfo di un'inconsapevolezza molesta o una geniale mossa di marketing della sopravvivenza? Difficile a dirsi. A guardare le interviste, Cristina d'Avena non sembra essere molto in contatto con il mondo che la circonda.

Quando è iniziato a cambiare qualcosa?
Non è cambiato niente. Ho sempre moltissimi fan, ricevo centinaia di lettere e proposte di matrimonio da uomini di tutte le età, dai venticinque ai novant'anni. Solo che oggi mi scrivono su Facebook. Senta qui la tenerezza di queste persone: "Veronica: è stato fantastico, con Pollyanna avevo i brividi, e mi è bastato chiudere gli occhi per riassaporare i profumi e i ricordi di quando ero piccola; Ivan: Bellissimo look. Adoro la gonna; Mattew: dove ci sei tu, c'è sempre boooooom;"

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È anche difficile riuscire a dare una misura del successo e dell'insuccesso di una persona che agisce in una realtà così brutalmente televisiva. Non sono mai stato dentro uno studio televisivo, men che meno in uno studio di registrazione ove venivano prodotte sigle per cartoni animati; me li immagino ovviamente come nelle parodie della Cortellesi di Magica Trippy, vessazioni spinte e insulti a spianare. Cristina D'Avena non dà idea di aver mai avuto a che fare con queste realtà. Nel rispondere all'intervista fattale dalla Ciabatti si abbandona a momenti di innocenza devastanti: racconta un episodio per "trasmettere ai giovani che Dio c'è", si abbandona a buttate tipo "faccio molti concerti per i gay"(?), dichiara candidamente che tra i suoi attuali impieghi (oltre ai concerti con il gruppo che le fa le parodie) c'è "condurre karaoke per bambini nei centri commerciali". Voglio dire, è difficile dare la misura del successo e dell'insuccesso di una figura così priva di riferimenti da poter essere trattata solo in ottica di case-study. Il punto semmai è un altro: perché trattarla?

Non ho mai vissuto in un paese diverso da quello in cui vivo ora. Non so dire se in Germania ci sia una cantante monopolista di sigle per cartoni animati a cui tutti quanti abbiamo dovuto soggiacere, ad un'età in cui non eravamo supposti sapere che c'erano alternative a ciò che guardavamo e che avremmo potuto volerle sperimentare. E poi fortunatamente sono arrivate altre battaglie da combattere, ma non è davvero possibile pensare la celebrazione seriale (non è la prima volta, non sarà l'ultima: la dinamica a conti fatti è sempre la stessa, sufficienza, odio, odio misto a sufficienza, trash, recupero trash, sdoganamento, intellettualizzazione) di Cristina D'Avena senza buttare riferimenti al suo principale datore di lavoro. Strane coincidenze quelle che fanno finire un'intervista adulta a Cristina D'Avena sulle pagine di Venerdì di Repubblica lo stesso giorno in cui Berlusconi viene assolto in appello dall'accusa di concussione nella vicenda Ruby. Niente di cui abbia davvero voglia di parlare, ma l'idea di non esserci tolti dalle palle quella piacevole sensazione di potere non scegliere l'uno o l'altro rimane. In tutto questo, sia guardando alla qualità media sia al valore assoluto dei loro migliori pezzi, il giro D'Avena/Valeri Manera/etc è probabilmente il peggior team di realizzatori di sigle per cartoni animati con cui si abbia avuto a che fare in questo paese. Il catalogo di sigle dei cartoni cantate da Cristina D'Avena è già di suo un catalogo dell'accontentarsi, dell'abbassare il livello. Del resto anche i cartoni che passavano a Bim Bum Bam lo erano.

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Non è per questo, naturalmente, che detesto questo restyling etico di Cristina D'Avena, anche se, certo, l'idea di icona gay che esce dall'intervista non è proprio la più brillante su piazza, ma non credo avesse particolari colpe all'epoca e credo ne abbia molte meno adesso; il fatto che fossero sigle brutte e cartoni brutti gliel'ho perdonato un sacco di anni fa. In qualche modo la sua storia è una bellissima storia italiana, di quelle che ti insegnano a chinare il capo e dire sissignore, strategie di autoassoluzione di una nazione intera, correttezza politica a spron battuto, sopravvivere a tutto come gli scarafaggi; non so dire se il ventennio sia un ricordo troppo fresco o se sia ancora in corso. Da un altro punto di vista, la sua storia è semplicemente ininfluente nel panorama culturale odierno: una Cristina D'Avena è fisiologica, il fatto che non ne esistano altre castra sogni potenziali da adolescenti e permette loro di immaginare un'altra vita (fashion-blogging, giornalismo, vincere Amici, vincere Sanremo, scrivere il romanzo del secolo, cantare in un gruppo death metal). Davvero, credo di averla capita, e semplicemente non fa ridere. Mi puzza molto, in ogni caso, l'attuale risacca ideologica che tende a riconsiderare il non avere colpa e renderlo uno squarcio di luce in mezzo alle nuvole della controversia.

È lo stesso concetto che ha riscalato Gianni Morandi da scrauso a ingenuo a buontempone a eroe nazionale sui social network, o (in un'altra misura) la stessa cosa che permette ai Modà di presentarsi a San Siro con un video di cinque minuti che ho trovato descritto in questo modo su La Stampa: "Il concerto parte con un video di quasi cinque minuti che mostra i ragazzi vestiti da gladiatori. Sul corpo hanno scritto parole come Fede, Speranza, Amore, Umiltà, Perseveranza. Spade in mano, corpetti di cuoio, facce sporche di fango i musicisti combattono contro fogli che piovono dall'alto. Sulla carta c'è scritto: Malelingue, Invidia, Rancore, Disprezzo, Tradimento. «Tutta la negatività che ci è stata buttata addosso in questi anni—dice Kekko —la distruggiamo e alla fine, appoggiate le armi, raccogliamo gli strumenti ed entriamo allo stadio. Un messaggio chiaro ai detrattori che durante i primi durissimi anni dei nostri esordi ci hanno fatto sputare il sangue»." La retorica dell'hater. Voglio dire, mettiamoci una mano sulla coscienza e cerchiamo di renderci conto che se per noi non c'è più niente da fare, almeno le prossime generazioni meritano di aspirare a qualcosa di un po' più ambizioso. Ecco.

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