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Musica

Il jazz ossessivo di Jameszoo

Il nuovo album su Brainfeeder è inclassificabile, stratificato e costellato di lampi di genio.

Foto Nick Helderman

Dall'hip-hop alla musica dance fino all'avanguardia del pop di oggi, il bedroom producer è responsabile di diverse rivoluzioni negli ultimi trent'anni. Kanye West l'invoca, l'ascesa dell'EDM è stata alimentata da loro e l'ombroso pop europeo ruba da loro a destra e a manca. Ma mentre un numero crescente di questi lascia la cameretta e approda al palco, produrre musica fra le mura di uno studio casalingo non è più strano, né un obiettivo in sé. Anzi, è diventato il primo passo verso qualcosa di diverso, qualcosa che spesso assomiglia alla vecchia maniera di fare musica.

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Mitchel van Dinther, il producer olandese meglio conosciuto come Jameszoo, è un perfetto esempio di quanto detto. Uscito dalla piccola cittadina di Den Bosch nei tardi anni Duemila, van Dinther prima si fa le ossa come DJ, sviluppando un orecchio speciale per jazz, prog rock e stranezze beat, prima di concentrare la propria attenzione sulla produzione. A partire dal 2011 ha pubblicato una serie di EP per le label locali Kindred Spirits e Rwina che gli hanno ritagliato un posto all'interno della scena beat globale. Grazie a un orecchio speciale per i ritmi unici, van Dinther ha rapidamente catturato l'attenzione di gente come The Gaslamp Killer e Mark Pritchard.

Nel corso dei tre anni passati, van Dinther si è ritirato dalla scena che lo aveva accolto e si è messo in cerca di una nuova direzione. Il risultato è un album di debutto, Fool, uscito il 13 maggio sull'etichetta Brainfeeder di Flying Lotus. In Fool, van Dinther esce di casa ed entra in uno studio pieno di musicisti, i cui contributi riassembla in modo, per sua stessa ammissione, naïf, in modo da dare vita a un'opera che fonde due tradizioni, quella elettronica e quella jazz, che spesso non sembrano andare particolarmente d'accordo.

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Fool è diverso da ogni altra uscita di van Dinther, incorpora influenze dei grandi classici di Robert Wyatt, Steve Kuhn e Arthur Verocai e le fa andare a braccetto con l'interesse di van Dinther per la produzione elettronica. L'album esige l'attenzione dell'ascoltatore con le sue composizioni imprevedibili e le improvvise svolte melodiche. È, in un certo senso, il jazz secondo un bedroom producer: stratificato e ossessivo, costellato di lampi di genio. Fool vede la partecipazione di musicisti internazionali come Steve Kuhn e Arthur Verocai, capitanati da van Dinther, insieme ad altri turnisti meno conosciuti ma non meno importanti, provenienti dal mondo del jazz e della musica elettronica. Tra qualche mese, van Dinther porterà l'album in tour con una formazione da quattro o cinque elementi, tra cui alcuni dei partecipanti alle registrazioni.

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Per ora, il giovane producer sta cercando di venire a patti con un processo creativo impegnativo che gli ha permesso di crescere ma lo ha anche costretto ad affrontare i propri limiti. Ci siamo sentiti al telefono per parlare della vita dell'album, di come mettere insieme tradizioni diverse, e dell'evoluzione del bedroom producer. Leggi l'intervista qua sotto e ascolta la première di "Flu" che vede la partecipazione della leggenda jazz-folk brasiliana Arthur Verocai.

NOISEY: Quando hai iniziato a lavorare a quest'album?
Jameszoo: Ho iniziato circa due anni e mezzo fa, scrivendo le prime composizioni e arrangiamenti. Ho registrato tutto, tutti i musicisti, nel corso di sei mesi e ho mixato l'album la scorsa estate.

Nel periodo in cui hai iniziato a lavorare all'album hai fatto una serie di concerti di sola improvvisazione. Le due cose erano collegate?
Sì, c'era un bisogno di fare qualcosa di improvvisato. Un po' per il piacere di provarci, ma anche sapendo che avrei basato molto del mio disco attorno all'improvvisazione. Dopo un po' di tempo risulta un po' asfissiante vedersi affibiare sempre una certa etichetta, come per me quella dei beat. Con quest'album volevo togliermela di dosso. È lo stesso motivo per cui ho cambiato spesso stile nelle mie pubblicazioni precedenti. È un lavoro divertente quello di cercare di evitare le classificazioni.

Però hai voluto organizzare l'album secondo criteri elettronici, giusto?
Esattamente. È quello che so fare meglio. Lavorare con il computer. Ho soltanto cercato di adattare questa mia dote, se si può chiamare così, a questo disco. Fare tutto lì dentro, registrare tutto lì dentro, e poi cominciare a giocarci. E poi avevo un album. È stata dura, avevo paura di non riuscire a finirlo, non ero sempre contento della forma che stava prendendo. Ho mandato delle bozze a un po' di gente e i pareri che ho ricevuto mi hanno aiutato. È stato un vero processo di apprendimento. Piano piano sono stato in grado di accettare la realtà del disco.

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Perché credi di aver avuto questi problemi?
Quando cominci un nuovo processo di apprendimento, impari molto velocemente e vuoi subito utilizzare queste lezioni e tirar fuori tutta la roba naïf. Ma dopo un po' è diventato una profezia che si auto-avverava per me. Non riuscivo a raggiungere un punto di soddisfazione definitiva verso il disco. È stato un processo dinamico naturale, ma è stato duro. Alla fine ho imparato ad apprezzare la naïveté del mio approccio e ho provato a guardarlo in maniera diversa, invece di concentrarmi ossessivamente sui miei limiti.

Hai coinvolto un sacco di musicisti in questo disco, inclusi grandi nomi come Arthur Verocai e Steve Kuhn. Che importanza ha rivestito per te collaborare con queste persone per il tuo debutto?
Quando ho deciso di fare un album, sono andato a guardare tra i miei dischi e ho tirato fuori quelli con cui ero più in fissa al momento, artisti come Robert Wyatt, Steve Kuhn e Arthur Verocai. Allora ho pensato: "Dovrei semplicemente lavorare con loro, andare al sodo!" Sono tutti ancora musicisti straordinari, così li ho contattati. Ho provato a puntare in alto e sia Steve che Arthur hanno detto di sì. A quel punto sapevo che avrei dovuto dare forma a delle idee che mi aiutassero a superare i miei limiti. In un certo senso avevo una visione, e quello era il punto più fermo. Una visione di come sarebbe dovuto essere il disco. Ho costruito la struttura attorno a quella. Non è sempre riuscita perfettamente… alcune canzoni che ho registrato non hanno funzionato, ma alla fine ho trovato un po' di canzoni-chiave e di persone-chiave con cui sono riuscito a lavorare davvero bene, e il disco si è concretizzato attorno a queste. C'è Niels Broos, un tastierista olandese, Julian Sartorius, un batterista della Svizzera che ha lavorato con Dimlite, Frans Petter Eldh, un bassista danese e John Dikeman, un sassofonista americano che vive in Olanda.

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Jameszoo in studio con Arthur Verocai. Foto di Pieter Goossens.

Cosa pensi dell'album ora che è finito?
Mi sembra ok. L'ho mandato a gente di cui ho molta stima, come Dorian Concept e i musicisti che hanno lavorato con me, e sono tutti entusiasti. Alla fine, so per certo che il livello qualitativo dei musicisti su questo disco è perfetto. Di questo sono grato, è una cosa che mi sento in grado di giudicare. Posso permettermi più obiettività su questo argomento perché non sono io il musicista in questione. Ho suonato sul disco, ma non giudico le mie parti. Questo mi ha aiutato ad accettare il disco, in un certo senso. Il fatto che questi musicisti abbiano voluto suonare con me sul disco… è importante. Un'altra cosa che mi ha aiutato è stata vedere l'artwork. Quando è arrivato, tutto mi è parso più ufficiale. C'è stato un sottile cambiamento quando ho ascoltato i master vedendo l'artwork finito. È stato strano vedere finalmente l'album come un prodotto.

In un certo senso, l'album parla di te che affronti la transizione dalla concezione moderna di producer come una persona nel proprio studio casalingo, che lavora in una bolla solitaria, a una concezione più tradizionale del ruolo di produttore, che arrangia e dirige. Ti senti più sicuro di te, in grado di procedere in questa direzione d'ora in poi?
Certo, è un primo passo. Non sono dove vorrei essere ma ho lavorato in modo più tradizionale e fatto progressi da prima di questo disco. Riesco a comporre un po' meglio. È più facile passare dalla mia testa alla musica. Si tratta solo di rendere questa strada più corta possibile. Questo è il traguardo in un certo senso. Sarà sempre una lotta. Capire che cosa vuole la gente e che cosa vuoi tu è un processo a strati. Mi piacerebbe mettere in atto un altro progetto come questo perché mi sono divertito molto nel portarlo avanti e perché ho voglia di provare a portare l'idea ancora più lontano. Continua a piacermi lavorare da solo. Vorrei continuare a essere un producer in quel senso, ma in maniera diversa. Mi piace troppo il cambiamento per lavorare sempre nello stesso scenario.

Perché secondo te altri tuoi contemporanei si imbarcano in questa evoluzione? Dal 2010 ci sono stati vari artisti della stessa generazione che si sono mossi in direzione di album e live più ambiziosi: Flying Lotus, Dorian Concept, addirittura Hudson Mohawke.
Penso si tratti di una scelta artistica, ma anche di "l'erba del vicino è sempre più verde". Sono davvero un musicista quando mi trovo davanti a un computer? Forse si tratta di tentativi di diventare "veri" musicisti, anche se secondo me usare il computer non rende le cose meno reali. In fondo, ognuno ha la sua lotta da combattere. E io ho imparato dalla mia. Alcuni dei miei musicisti preferiti hanno composto dischi elettronici usando il computer, quindi… la voglia di provare è umana. La musica elettronica si porta ancora dietro un certo stigma. Ma anche il jazz, tutta quella storia sul fatto che sarebbe musica "intelligente". Non esiste la "musica intelligente". Amo questo scontro di tradizioni, e ha fatto parte del mio processo creativo all'interno di questo disco.

Laurent Fintoni fa il giornalista e vive a New York City. Seguilo su Twitter.