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Musica

Anderson .Paak non sa surfare

Abbiamo trascorso una giornata con Anderson .Paak, pupillo di Dr. Dre, che ci ha raccontato del suo sogno californiano.

Tutte le foto sono di Myles Pettengill.

Anderson Paak non sa surfare.

È per questo che a un paio di giorni dal Natale, decide di sedersi tranquillo sul bagnasciuga della spiaggia di Malibu, invece che lanciarsi a capofitto nelle onde con la crew del suo manager a pochi metri di distanza. .Paak non passa da queste parti spesso, ci vuole un'ora buona per arrivarci, dalla casa a Koreatown che condivide con la moglie e il figlio di cinque anni a est di Los Angeles. Ma il cognato del suo manager e un altro suo amico abitano da quelle parti, e hanno accettato di accompagnare .Paak e il manager alla sfilza di photoshoot e interviste lungo la costa di LA, lunga solo ventisette miglia.

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È stata una giornata faticosa, e sono tutti impazienti di lanciarsi in acqua. L'amico d'affari è Kevin, un tizio che si è costruito da solo e male quello che a quanto pare è il motore di una barca, attaccato a un traino che li fa volare dritto sulle onde, con svariate sfumature di divertimento. Il cielo è scuro e incazzoso, come se stesse per scatenarsi un surrogato del Niño, e rimaniamo pietrificati a guardare il loro placcaggio marino ostinatissimo, senza nascondere un velo di preoccupazione.

“Al massimo riesco con le tavolette da piscina,” mi spiega .Paak, ridendo divertito mentre sorseggia la sua Corona.

È un po' ironico, visto che il suo EP in uscita si chiama Malibu, e comprende sample di vecchi film e programmi radio sul surf, vocals di Sam Cook e rime calde targate West Coast. Scherzo, la verità è che ha tutto un suo senso, perché, essenzialmente, Malibu parla dello stesso tipo di piacere che provano i surfisti: quello del rischio.

“La gente diceva che non sarei mai riuscito a fare musica con così tanti generi diversi, e con così tanti artisti. Mi hanno fatto venire voglia di rompere le regole," mi dice. "Continuavano a dirmi che non avrei mai potuto fare un pezzo trap che poi diventa funk che poi ridiventa R&B… dovresti deciderti. E io rispondevo sempre che era quella la mia decisione. Roba diversa, fine."

Dopo anni di attività come cantante, rapper, batterista e producer a LA, lavorando anche a fianco di luminari dell'underground locali come Nocando e Dumbfoundead, Malibu spedisce .Paak dritto nell'occhio del ciclone. Tutto è cominciato nel 2014 con la release di debutto autoprodotta,Venice, e con NxWorries, progetto suo e del producer di Philadelphia Knxwledge. Il secondo—in particolare il singolo “Suede,”—ha catturato l'attenzione di Dr. Dre, grazie alle derive souleggianti super fresche di cui sopra.

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.Paak è responsabile di sei delle sedici tracce di Compton, in pratica è quello che appare di più nel disco oltre a Dre, e l'unico con una traccia tutta sua. È affiancato da The Game in un paio di brani di Documentary 2. Ha fatto uscire un EP bomba, Link Up & Suede, con NxWorries. Ha fatto jam a caso in studio con Kendrick Lamar e ci è diventato mega amico.

Compton era appena uscito e abbiamo chiacchierato di quanto è stato fico lavorare con Dre. Gli ho fatto sentire quello che avevo fino ad allora [Malibu], e mi ricordo di aver osservato nel dettaglio ogni suo movimento facciale, durante l'ascolto” mi racconta. “Non si scomponeva. Te ne accorgi quando la musica prende o non prende. Lui è sempre stato un grande. Ci diciamo sempre un sacco di cagate.

Malibu, che esce su OBE/Steel Wool/Art Club/EMPIRE, si presenta come uno degli album più anticipati del nuovo anno. L'album ha sedici tracce e suona un po' come l'almanacco dell'hip-hop: The Game, Schoolboy Q, Talib Kweli, Rhapsody, BJ the Chicago Kid, e ogni sorta di featuring con 9th Wonder. A febbraio .Paak si girerà l'Europa per la prima volta in compagnia dei compagno The Free Nationals, e ad aprile sarà pure al Coachella. NxWorries, intanto, a fine anno farà uscire il suo full-lenght per Stones Throw.

Non male per un ragazzo che ancora non ha neanche firmato con una major—almeno, non ai tempi—e non ha neanche un singolo in radio. Ma se .Paak è destinato a spiccare il volo, deve anche affrontare la sfida dell'allontanarsi dal nido sicuro di Dre e stabilizzarsi per conto proprio come artista a tutto tondo. L'intuizione del riarrangiare suoni e ideali hip hop a un'audience più contemporanea, unita all'ambizione più futurista e spregiudicata in circolazione, potrebbero fare di Malibu il tassello mancante verso questa transizione.

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Il sole va via e finiscono pure le birre, ma la giornata di .Paak è tutt'altro che finita. Gli offro un passaggio a Koreatown, dove si fermerà un po' per stare in studio e preparare il mix di capodanno con il suo DJ. Per mia insistenza a un certo punto scendiamo giù e ceniamo in un fastfood—alette di pollo, patatine e tante IPA—dopodiché andiamo da Travis Barker, ultimo ad averlo chiamato per una collaborazione. Non si erano mai conosciuti prima; .Paak è confuso e allo stesso tempo eccitato per l'incontro: Barker non è esattamente uno sconosciuto nella scena hip-hop, è anche lui un soggetto che passa senza troppi problemi attraverso i generi più disparati, quali rap, pop e rock. .Paak ci sta dentro di brutto, è evidente.

Al momento .Paak sa anche che non è nella posizione di poter dire di no alla gente.

“Mi ci è voluto così tanto tempo per arrivare a questo punto qui. Solo ora mi sembra di star concludendo qualcosa,” racconta, "sono anche vicino ai trenta. Sento come se questi ultimi anni di attività non abbiano portato a molto. Ora è diverso, quello che faccio adesso, lo farei per tutta la vita. Mi sento ispirato, e la domanda del pubblico è alta. Sono qui per dare la mia migliore offerta, non per altro.”

Septum a parte, gli ulteriori accorgimenti stilistici tipici della star che posa per il servizio fotografico in riva al mare—nello specifico una giacca nera di pelle da motociclista, catene d'oro standard, e una felpa rosa—vengono contraddetti dalla borsa a tracolla Marshall, che a quanto pare si porta dietro in ogni momento della sua vita. Un'estensione del suo corpo.

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Si siede nel sedile per passeggeri in jeans, maglietta e occhiali dalla montatura colorata di plastica, e mi inizia a parlare di quella giusta dozzina di artisti con cui ha collaborato recentemente, tra cui Thundercat, Tame Impala, Kaytranda, The Dirty Projectors, Flying Lotus, The Game, prima di finire nella Unknown Mortal Orchestra, nome che l'anno scorso ha fatto mega clamore.

“Caaaan’t keep checking my pho-o-o-ne,” canticchia mentre ride e balla nel retro della macchina.

Questo è un fugace assaggio del Brandon Paak Anderson poco più che ventenne, un tipo simpatico e affabile che suonava la batteria nella band della chiesa, e non più del nuovo fiore all'occhiello di LA, che brama un contratto con una major e fa impazzire i fan con versi come "She said bend me over that sink / I said damn, your wish is my will."

.Paak può essere un fico, ma è anche abbastanza introspettivo per trasformare il suo bangerone Compton, “Animals,” in un momento di protesta politica e sensibilizzazione sociale, ripetendo “Got a son of my own / Look him right in his eyes / I ain't living in fear / But I'm holding him tight.”

Le autostrade della costa pacifica solitamente si imbottiscono di traffico, non appena si inizia a intravedere lo skyline di LA. Le pause alternate ai movimenti dell'auto creano un'atmosfera adatta per affrontare temi come la formazione Battista ("Sono fortunato ad aver avuto questa bussola nella mia vita,") il risveglio culturale hollywoodiano con conseguente passaggio alla spiritualità vera e propria ("È fondamentale saper empatizzare, così come credere in qualcosa. Ci deve essere un senso dietro a tutto questo."), e l'intolleranza al karaoke ("Piace solo a quelli che non sanno cantare.") È un chiacchierone alla fine, molto socievole e mai noioso, talmente quieto e pacato che il suo candore può facilmente essere scambiato per ingenuità. Quando parla suona molto più nitido e intenso rispetto al cantato, più ruvido e sporco, e quando si entusiasma per qualcosa—cioè sempre—tono di voce e volume si alzano sensibilmente.

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“Per un periodo mi sono occupato solo delle mie potenzialità nascosta,” mi spiega. “Pensavo che magari mi avrebbe portato a qualcosa. E sì, infatti è stato così. Farò un'altra intervista. Ne farò tutte."

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A cinquanta metri a nord della spiaggia, più in là dei terreni a strapiombo di Malibu, c'è la magnifica magione di Dre, in cui .Paak è stato più di una volta, a Oxnard, e poco più in là terra circondata da campi di fragole dove .Paak è cresciuto, la contea di Ventura.

Figlio di una madre single per metà coreana, e fratello di tre sorelle, .Paak, da piccolo, ha diviso il suo tempo tra Oxnard e Ventura. Era uno dei due ragazzini neri in tutta la sua scuola e viveva in un contesto la cui autentica bellezza campagnola era snaturata da fenomeni di bullismo locale e generica ignoranza.

Ha ricevuto il primo drum kit a dieci anni. La musica è stata l'unica costante nella sua vita. L'immagine più nitida che ha del padre in Air Force, meccanico ex-veterinario, è di lui arrestato per aver picchiato quasi a morte sua madre; l'ha rivisto solo da morto, chiuso in una bara, finalmente fuori dall'inferno della tossicodipendenza dopo mille avanti e indietro tra casa e penitenziari.

È un tema che .Paak affronta mostrando la sua vulnerabilità—ma senza mai autocommiserarsi—in Malibu, toccando quindi territori estremamente diversi dall'edonismo sfacciato di Venice.

“Who cares, your daddy couldn’t be here? / Mama always kept the cable on / I’m a product of the ‘tube and the free lunch / Living room, watching old reruns,” canta nella track finale “The Dreamer.”

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La madre di .Paak’s si è risposata, e lui ha iniziato a fare musica nella congrega della chiesa di San Giovanni Battista. Quando non era lì, era comunque chiuso in camera sua, al computer, sempre a fare musica. Era un ragazzino timido, paffuto, che suonava la batteria, cantava e rappava; tutte queste cose gli hanno fatto sviluppare i primi accenni di fiducia in se stesso, grazie ai quali ha capito che si poteva anche sperare in grande per il futuro. Ma le sue aspirazioni e certezze sono state affossate quando madre e patrigno sono stati arrestati per frode fiscale, lui aveva diciassette anni.

“Ho sempre pensato che gli sbirri l'hanno fatto a mo' di avvertimento per gli altri. Dove siamo cresciuti, a Ventura, ci sono tante famiglie ricche e bianche," mi spiega. È calmo, ma le parole gli escono velocemente e affilate: "L'impressione è sempre stata di trovarmi in una città razzista. Non so come si possano dare quattordici anni a qualcuno, fargliene fare sette e mezzo, quando nessuno si è fatto male né tantomeno è morto. Mia mamma non aveva fatto nulla. Stava solo cercando di fare soldi per i suoi bambini."

.Paak ha passato tutto l'anno successivo a dormire in divani di familiari e amici, aiutando in casa o lavorando come badante per aiutare la famiglia ad arrivare a fine mese. Il matrimonio affrettato con la fidanzatina conosciuta in chiesa è naufragato in poco tempo, portandolo, a ventun anni, a trasferirsi a LA per approfondire lo studio delle percussioni al Musicians Institute di Hollywood.

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Là ha conosciuto, e poi sposato, la studentessa di canto Sudcoreana con cui oggi ha un figlio di cinque anni. I giorni passavano tra esercitazioni, lezioni di jazz, cover di prova e performance con il moniker Breezy Lovejoy. Nei weekend invece se ne andavano a coltivare la loro piantagione di marijuana a Santa Barbara, dove i due possedevano un terreno delle dimensioni di un campo da calcio. "Le vedo ancora quelle piante, cristo," ride.

La musica ha perso la priorità in quegli anni, e .Paak si è concentrato più a stabilizzare la famiglia. Dopo la nascita del figlio, ha conosciuto il rapper locale Dumbfoundead e con lui il suo nome è ritornato a riecheggiare nella scena underground di LA, principalmente tramite passaparola di fan estasiati dai suoi live.

Ma tutto ciò si è interrotto 2011, quando .Paak è stato cacciato dal lavoro senza preavviso, di botto nuovamente senza casa, ma con una moglie e un figlio a carico.

“È stato un colpo bassissimo. Non avevo soldi. Non potevo più pagare l'affitto di mia sorella, così mi ha cacciato via," racconta. "Avevo una famiglia, ma nessun posto dove stare. Ero nella merda, cazzo. Non sapevo come uscirne."

Il cantante-producer Shafiq Husayn, della Sa-Ra Creative Partners, li ha salvati proprio mentre .Paak stava ultimando l'album di debutto come Breezy Lovejoy—O.B.E. Vol. 1, che sta per “Out of Body Experience”. Più o meno durante lo stesso periodo .Paak si era rimediato un lavoro come batterista nel tour della concorrente di American Idol, Haley Reinhart. Era tornato nel suo elemento, ma mancava ancora qualcosa.

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Il suo mentore, ex manager di Dumbfoundead, Brian Lee, ha dato a .Paak la spinta necessaria, mettendogli a disposizione uno studio intero a casa sua, dove .Paak avrebbe potuto lavorare ininterrottamente per sei mesi filati.

“Mi diceva, ‘Ora come ora stai facendo un sacco di cose diverse. Suoni la batteria, fai rap, graviti un po' dove ti capita. Perché non ti concentri nel produrre un po' di tracce e da lì ragioniamo sul cosa farne? '"

Quello che se ne sarebbe fatto era nientemeno che il suo primo progetto come .Paak, Cover Art, primo LP, Venice, e persino qualche abbozzo a tracce di Malibu come “The Bird.”

“Quella è stata la prima volta in cui ho davvero fatto brainstorming, e interiorizzato un'etica di lavoro efficace, che mi permettesse di alzarmi al mattino e dedicarmi subito alla musica, con tutta la concentrazione e dedizione possibile. Mi dicevo 'Ok, è questo quello che voglio da me stesso. Sono stufo di fallire, adesso vado avanti fino alla fine e vaffanculo," mi dice. "È andata così."

Così è anche nato il nuovo nome.

“La cosa più importante che ho appreso in quel periodo è stata l'attenzione per i dettagli. Tutto fino ad allora era andato com'era andato perché non avevo mai curato i dettagli. Anzi me ne sono sempre sbattuto," continua. "Ed è qui che vedo la sostanziale differenza di oggi rispetto a ieri. I dettagli. Prima nessuno ci faceva caso. E ora che invece c'è qualcuno a cui frega, dobbiamo tutti essere maniacali nel curarli dall'inizio alla fine."

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Tre anni dopo, quella attenzione maniacale rimane ciò che unisce l'incessabile evolversi dei suoi progetti. Se Venice è imbevuta di dinamismo e forza, Malibu, analogamente, va ben oltre questi standard: è un'aggregazione florida e surreale di hip-hop old school della West Coast con trap, soul anni Sessanta, psych, e l'assurda scena beat-funky di LA. Riesce a essere percepito sia come rampa di lancio verso qualcosa di indefinito, che come trionfante punto di arrivo; la visione dal centro di un diagramma di Eulero-Venn del dinamismo della scena West Coast.

È anche molto più personale. Se i suoi vecchi lavori si incentravano su temi pratici e carnali, passando dal seduttivo all'autodistruttivo, Malibu si incentra più sulle realtà passate nel suo complesso, e nel contrasto con il piacere provato nel presente. È frutto di una maturazione interiore e stilistica, grazie alla quale si aggiudica il merito di essere il suo lavoro più integro e coeso di sempre.

Venice è più torbido. Ti ci puoi drogare su, per capirci. In Malibu devi prima assicurarti di avere soldi. C'è una vibe molto diversa," mi spiega .Paak. "Non sapevo che sarei finito a lavorare con Dre e con quel tipo di elite musicale, però sentivo che avevo molto da spartire anche con loro. Si tratta solo di ampliare gli orizzonti. Si tratta di dire "Wow, ce l'abbiamo fatta." Non ci vuole così poco per passare dalle stelle alle stalle, nell'industria musicale. E di certo non mi interessa ripetermi nelle cose che faccio."

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La fame di .Paak’s per la sperimentazione lo ha condotto a Knxwledge, conosciuto su Twitter, che ha portato poi alla realizzazione di “Suede,” e “Drugs," a stretto contatto con il team che stava lavorando a Compton, la scorsa primavera. .Paak dice di essersi avvicinato a Dre diverse volte prima, e ognuna di queste si concludeva con un nulla di fatto; non riusciva mai a beccarlo di persona. Così quando è stato chiamato per lavorare con DJ Dahi a una sessione esplorativa di Compton, è sbiancato letteralmente. Quando DJ Dahi ti chiama in studio, tu vai di corsa, e così ha fatto .Paak. Solo che in studio al posto di trovarci lui ci ha trovato Dre e D.O.C.

“Quando sono arrivato in studio per lavorare alla traccia, [Dre] non aveva la minima idea di chi fossi,” mi dice. Non è durato a lungo però. Dre butta giù un beat, e lancia la sfida: "Che sai fare?"

.Paak ha chiuso gli occhi e ha iniziato col freestyle. Quando li ha riaperti, il team era a terra, completamente galvanizzato. La traccia è poi diventata “All in a Day’s Work,” e tutto il resto è nell'album.

“Ricordo che Dre mi ha detto ‘Hai un dolore naturale nella voce'. A quel punto ho pensato ok, forse ho davvero qualcosa tra le mani."

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Lo studio di Travis Barker a nord di Hollywood è disorientante quanto l'intricata e buia rete di vie per arrivarci. È una specie di squat, inserito in una struttura abitativa talmente asettica e poco ospitale che sarebbe potuta essere benissimo anche una banca o un centro commerciale. Non avrebbe fatto differenza.

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Barker ci saluta con fare sereno e incredibilmente cortese; ha la barba, una giacca nera e in generale un look poco appariscente, fatta eccezione per gli incisivi d'argento. Ci guida attraverso una stretta hall fiancheggiata da stanze piene zeppe di strumentazione all'avanguardia; .Paak si ferma un attimo ad ammirare un drumkit arancione dall'aspetto minaccioso.

“La suoni?” Chiede Barker.

“Sì, un po',” risponde .Paak, sorridendo con sincera modestia.

Tutto l'ambiente sa di Axe Body Spray, per qualche motivo.

Lo studio è spartano ma confortevole; gli unici mobili sono dei divani in pelle e un mucchio di telecamere di sicurezza. Una lavagna bianca illustra i dettagli sull'uscita del nuovo album dei Transplants, supergruppo di Barker con Tim Armstrong. È un posto che ha solo bisogno di essere occupato da qualcuno che ci lavori duro, ed è quello che è solito fare .Paak.

Dopo dieci minuti è già lì che improvvisa un ritornello per una traccia di The Game, cambiandone i versi ed enfatizzando l'armonia di alcune parole, per poi stravolgere tutto di nuovo e ridurre barre a suo piacimento. La voce di .Paak, che stia cantando o rappando crudamente, è ruvida e brillante; a chi non ci è abituato potrebbe sembrare comica o spezzata, ma .Paak è consapevole di ciò che fa.

“È come un personaggio dei cartoni!” esclama Barker non appena .Paak va giù con i grugniti e le esclamazioni. Ridiamo, ma nel playback il testo è inequivocabile.

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Barker non apre più bocca e osserva .Paak lavorare con un'indescrivibile efficienza: sa sempre cosa vuole da se stesso. In un'ora di prove, ha sfornato freestyle a profusione su tracce di The Game o Lil Wayne, in entrambi i casi tenendo loro testa senza la minima fatica. Giusto un assaggio del perché Dre se ne è innamorato quasi un anno fa.

È quasi mezzanotte e .Paak se ne deve andare. I due convengono che avranno tanto lavoro da svolgere assieme.

“Lavori con Wayne?” chiede Barker.

Non ancora,” risponde, con sorriso sornione.

.Paak adesso si sente inarrestabile, ma ombre di preoccupazione e nervosismo ogni tanto traspaiono ancora—quelle di qualcuno che è stato forzato a crescere troppo in fretta, senza neanche il tempo di godersi la gioventù come si deve.

“Bevete tutti?” chiede .Paak non appena ci avviciniamo a un chiosco, con un tono più perentorio che interrogativo. Quando Barker risponde di no, che deve guidare, .Paak ci ripensa e fa: “Oh sì, neanche io.”

Quando non ha particolari obblighi che gli pendono sulla testa, .Paak è sereno, rilassato, ride per quasiasi cosa e rimane molto fermo nelle sue idee. Ha continuato a scriversi stronzate con Kendrick per tutta la notte, ma ha insistito fino all'ultimo per scattarsi una foto con Barker prima di chiamare il suo Uber e uscirsene ridendo con un "Be', è successo e basta!" E una volta solo, d'improvviso se ne torna a rimuginare sulla sua performance e su com'è andato l'incontro. Ripensa alle rime rozze che ha improvvisato, poi alla vibe data al pezzo nel complesso, che era comunque quella che voleva dargli fin dall'inizio per farlo funzionare. In ogni caso, conclude, non è venuto per niente male.

Nel viaggio di ritorno a K-Town, guarda al futuro. La gavetta l'ha già fatta. Ha passato gli ultimi dieci anni a costruirsi la vita a LA, che comprende famiglia, network di collaborazioni e una fanbase destinata a crescere sempre più. Ma adesso iniziano ad essere tangibili nuove occasioni, e il suo terzo album solista è già in lavorazione, e come ha puntualizzato, "possono succedere un sacco di figate in futuro, e opportunità che non vedo l'ora di cogliere… È sempre così, fino a quando non succedono davvero."

“LA rimarrà probabilmente sempre casa mia,” va avanti. “La mia famiglia è qui. Ma mi piace molto l'Europa. Parigi. Berlino. Amo Copenhagen. C'è ancora così tanto da vedere in giro."

Mi viene in mente un verso di "The City", in Venice: “Don’t tell me where you’re from / Tell me where you wanna get to.” A .Paak, l'ispirazione arriva solo quando si trova davanti a qualcosa di apparentemente irraggiungibile.

.Paak dice sempre che non sa dove o come finirà, nella vita. E tra tour, collaborazioni, e un futuro nell'industra musicale, di certo ha un sacco da scoprire e sperimentare. Magari un giorno, dice, imparerà anche a surfare.

Andrea Domanick è il West Coast Editor di Noisey US. Seguilo su Twitter.