FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

Gli spazi infiniti dei Lakker

Il loro ultimo album è una rarefazione di suoni e immagini che si comprimono, si dilatano e si diradano in ogni direzione spazio temporale. Ne abbiamo parlato a lungo proprio con i Lakker.
Sonia Garcia
Milan, IT

Fino a ora mica mi era ancora capitato di essere una di quelle persone che quando si trova a discorrere di musica gioca con sicurezza la carta "disco dell'anno," ma Tundra, l'ultimo splendido LP dei Lakker per R&S, evidentemente ha cambiato qualcosa nel mio DNA. Ian McDonnell, ai più noto come Eomac, e Dara Smith, a maggio hanno fatto uscire un album che fin da subito il mio organismo ha assorbito e metabolizzato esattamente come con la miglior sostanza nutritiva ricostituente in commercio, una specie di linfa vitale dopo mesi di aridità e noia. Non c'è stato neanche bisogno di chiedermi cosa nello specifico abbia creato quest'alchimia con ognuna delle dieci tracce dell'album, o meglio, sì l'ho fatto e sono venute fuori spiegazioni tanto disparate quanto realissime. C'entra sicuramente la fortissima componente evocativa, a cui sottrarsi è semplicemente un crimine, nel caso di Tundra. Scenari apocalittici ritraenti la natura al suo stato più selvatico, gli elementi che la compongono e la spazialità interposta tra essi, sono solo la minima parte delle immagini che ogni volta—ma davvero ogni volta—si materializzano in testa, e se mi fermo qui è solo per non risultare stucchevole.

Pubblicità

Quando ho saputo che ci avrei fatto due chiacchiere, mi sono imposta di non sembrare troppo emotivamente coinvolta, e credo di aver fallito. Il loro live di presentazione dell'album all'Atonal di Berlino, è stata un'esperienza materica, corporea, liberatoria e pure Birsa è d'accordo con me. Per quelle ore le mura dello stage Nul del Kraftwerk erano fatte di suoni compressi e decompressi, tipo intensi respiri accelerati e decelerati in armonia con spazio, tempo, e materia circostante. Roba per cui i brividi a posteriori si sprecano davvero. L'intervista qua sotto è un po' lunga per tutti i motivi citati fino a ora, non era proprio possibile fare altrimenti.

Lakker Tundra AV from Lakker on Vimeo.

Noisey: Che ve ne è parso dell’Atonal? Ve lo siete fatto tutto?
Ian: Sono stato il venerdì sera, per qualche ora. Mi sono visto Powell e Ugandan Methods. Poi sono tornato sabato, vabe’, ma non ho visto tanta gente quella sera, perché ci stavamo preparando per il nostro live.

Avete suonato tardi.
Ian: Sì, eravamo un’ora in ritardo, sia nel palco dove eravamo noi che in quello principale.
Dara: Io sono andato già giovedì, mi sono visto Kangding Ray col tipo dei mogwai. Mi è piaciuto, era un sacco atmosferico, molto di più di quello che mi aspettavo. Pensavo che il tipo dei Mogwai avrebbe tirato fuori suoni distorti e chitarre noise, ma no. È rimasto tutto sull’ambient.

Anche io ho avuto lo stesso timore, invece bomba, gran bel live. Ho sentito di gente che l’ha detestato completamente, bo.
Ian: Eh, credo che la gente sia partita già con dei preconcetti. Dipende da cosa hai in mente, ad esempio i Mogwai dai per scontato che apporteranno un’atmosfera più noise, e quindi parti già prevenuto. Invece sono stati bravi ed equilibrati entrambi, e il risultato è stato molto atmosferico, appunto.

Pubblicità

A me è piaciuto di brutto. Altri che mi sono piaciuti sono stati Powell e tutta Diagonal.
Dara: A me è piaciuto un sacco anche Blood Music. Aveva dei synth in playback e delle drum che percuoteva come un ossesso, davvero un pazzo. Fichissimo. Super noise. Sempre il giovedì, dopo Kangding & Mogwai.
Ian: Il mio preferito in assoluto però è stato il live set di Powell, venerdì sera. Assurdo, un’energia incredibile. Secondo me prima o poi diventa una star mondiale, fra poco esce il suo album per XL, è già scritto.

Vero. Che ridere la storia con Albini.
Ian: [Ride] Spettacolo. L’ha proprio mandato affanculo, ed è esattamente ciò che faceva comodo a Powell in questo momento. Quei cartelloni a Londra hanno fatto storia, saranno tutti soldi in più. Un vecchio brontolone, povero.

Esatto. Torniamo un attimo al vostro live, che mi ha spazzato via le sinapsi quella sera e che per quanto mi riguarda è stato il più strabiliante dell’intero festival. Era come se le tracce fossero state smembrate e riassemblate insieme chirurgicamente; gli elementi caratteristici di ognuna erano riconoscibili in qua e là, ma era proprio la dispersione spazio-temporale di quei suoni ad essere sublime e straniante allo stesso tempo. Almeno, io l’ho vissuta così, voi?
Ian: Mi fa piacere che l’hai vissuta così, è esattamente quello che vogliamo fare ai live set. Buttare in mezzo indizi di tracce che la gente può riconoscere se sta ben attenta, ma collocate in contesti diversi, con pattern di suoni inediti. Proviamo a costruire strati di varie tracce sovrapposte, i cui suoni poi rilasciamo uno ad uno e rimescoliamo ancora. Cerchiamo di evidenziare più differenze che analogie, e per questo forse risulta più pesante del normale. Stravedevamo per quel live e infatti è stato, per ora, uno dei migliori che abbiamo mai fatto. Proprio al momento giusto, con un pubblico ancora meglio. Tutti gli elementi si sono combinati tra loro perfettamente.
Dara: C’era proprio una bella energia, e il feedback che avevamo era positivo. Pure lo spazio era fichissimo, un’atmosfera speciale.

Pubblicità

I nomi delle tracce di Tundra sono onomatopeici, e ognuna di esse è in grado di evocare immagini e paesaggi naturali come appunto tundre, paludi, ghiacciai. Durante il live tutto questo è stato stravolto. Che processo creativo c’è stato dietro alla strutturazione sia del disco che del live?
Ian: Ha giocato molto lo spazio, in quel caso. I riverberi, i riflessi, e cose di questo tipo hanno aggiunto carattere e forma a quel live. I suoni erano belli intensi, e c’è anche da considerare i materiali della struttura dove ci trovavamo, cemento armato.
Dara: Volevamo aggiungere texture e strati di suoni extra alle tracce, è verissimo. Siamo stati dietro a un sacco di dettagli, pur di rendere comunque il prodotto finale omogeno. Poi sì, il posto, i materiali e l’atmosfera hanno fatto il resto. Il flusso del set ne ha beneficiato.

Sì, a tratti l’ho trovato infinitamente più intenso del disco. Come se stessero circolando suoni pressurizzati che si dilatavano quando pareva a loro. Si poteva riconoscere il DNA delle tracce, ma dopo due secondi si era completamente stravolto e trasferito in qualcos’altro.
Ian: È fico che sia stato percepito così. Non volevamo uscircene con qualcosa di troppo simile all’album, il live ha proprio la funzione di ricreare figure ed esperienze nuove, a partire da quello che è l’album, ma decontestualizzate. Via via che suonavamo ho avuto l’impressione che la gente entrava più nel flusso che avevamo creato, all’inizio è sempre un po’ complicato stabilirlo. Più andava avanti il set più l’energia cresceva, e nel finale si è visto. Una decompressione massima di forze, come hai detto te. Dallo stage era davvero uno splendido spettacolo a cui assistere. Era bello perché si capiva subito guardando i movimenti delle persone, il modo in cui ballavano, o guardavano i visual. Il momento in cui capisci che quelle persone stanno vivendo appieno l’esperienza che hai creato per loro, è meraviglioso. Mi piace molto anche parlarne con te, e vedere che c’è completa trasparenza anche a posteriori. Noi un responso del genere lo immaginiamo sul momento, voglio dire, se vedi la gente che balla e ti applaudisce estasiata non puoi non essere appagato. Ma confrontarci davvero con qualcuno che c’era è un’altra emozione ancora. Sono felice che sia stato vissuto in questo modo.

Pubblicità

"È difficile stabilire da dove provengano le idee e le emozioni dietro alle tracce, perché noi in primis non ci pensiamo quando lavoriamo. Sono solo sensazioni che scaturiscono da sole e completamente a caso, in modo naturale. Non c’è dietro un pensiero specifico, non sono in grado di incanalare apposta un’emozione ai fini di usarla per qualcos’altro. Nessuna traccia nasce seguendo definizioni prestabilite, tipo “Questa traccia voglio che sia triste”. I nomi invece arrivano dopo, quando la traccia è finita, e magicamente una parolina inizia a fluttuarti in testa, che rappresenti in parte le sensazioni. “Milch” ad esempio sta a indicare la fluidità, da latte appunto, o addirittura legato alla figura materna. Di certo c’è che il ritmo è estremamente fluido, in quella traccia." [Ian McDonnal]

Anche la dimensione del ballo e peculiare nel vostro caso. Ho letto in altre interviste che non pensate alla vostra musica come a qualcosa di strettamente legato al clubbing o all’intrattenimento di questo tipo. È più una percezione intima di spazi e suoni, in cui si sintetizzano le vostre emozioni e sensazioni in musica.
Ian: Esatto, e per fortuna che funziona lo stesso in un contesto di clubbing. Anche i beat e i cambiamenti di tempo, con vuoti e pieni accelerati, hanno dato al set un che ti techno, me ne rendo conto.
Dara: Per noi un set è vissuto più come un concerto vero e proprio, con una rockband, o qualsiasi altre forme di musica suonata live con gli strumenti. Ogni live che facciamo è un’esibizione corporea, molto distante da quella che solitamente è associata alla musica elettronica. Quando il pubblico si accorge di star assistendo a una performance fisica, materica, proprio come quella di un concerto, allora la può davvero apprezzare.

Pubblicità

È bello quando il pubblico è cosciente di cosa sta andando ad assistere. Spesso invece ci si trova davanti—o in mezzo—a persone che non hanno la minima consapevolezza/sensibilità e rovinano l’esperienza in sé.
Dara: Sì, quello succede per colpa delle booking. Ora come ora quelle che abbiamo valutano il fatto che la nostra è una performance completa a tutti gli effetti, tipo concerto appunto. Certo, possiamo preparare set da clubbing, non è che siamo contrari, sappiamo comunque come far andar bene le cose.

Eh, e poi non è che siete Steve Albini, insomma.
Ian: [Ride] Non ancora, dacci vent’anni.

Parliamo un attimo dell’album, che come vi dicevo, ho sviscerato più e più volte, ogni volta ottenendo risultati diversi. Dall’ultimo vostro lavoro, Ruido, si differenzia molto per essenzialità di alcuni suoni, come se dapprima aveste puntato sulla ricchezza e varietà di suono, con una specie di atteggiamento “barocco”, e poi improvvisamente abbiate optato per la razionalità di pochi e nitidi input. Com’è avvenuta questa transizione?
Ian: È nato tutto poco dopo l’uscita di Ruido. Eravamo mega soddisfatti di quell’album, ma dopo un po’ abbiamo capito che era abbastanza difficile da ascoltare tutto d’un fiato, perché c’erano appunto tante idee, troppe. Troppi cambi di umore, troppi layer sovrapposti, noise e in generale suoni troppo processati. Troppi suoni in ogni traccia. Questo lo rendeva inavvicinabile, se vogliamo. Non aveva un senso organico di continuità, mancava un vero focus. Così abbiamo deciso di tornare alle origini, e farci influenzare dalla musica che ci piace davvero. Abbiamo realizzato che ci saremmo dovuti concentrare su poche suggestioni, ma concrete e reali. Per dire, gli Autechre e Squarepusher facevano robe molto elaborate, choppate, complesse, ma sempre molto ferme e organiche. Erano queste caratteristiche di cui ci sentivamo carenti, perciò abbiamo fatto un passio indietro e deciso di mantenere come filo conduttore lo stesso sound design intenso, su di cui tessere le idee, ma se in Ruido ogni traccia ne aveva dieci, questa volta dieci idee sarebbero corrisposte a dieci tracce, purché fossero forti. Questo è stato il punto di partenza, pochi anni fa. Era il nostro manifesto di azione, semplificare le cose, con poche idee. Dopo che è uscito Ruido abbiamo anche deciso di scrivere/produrre tracce che prima o poi saremmo stati in grado di suonare pubblicamente ai dj set. Questo perché ci siamo accorti che con la vecchia musica dei Lakker non andavamo tanto d’accordo nei dj set, non la mettevamo mai, come se non fosse adatta. Eppure siamo entrambi dj dal 2010, non aveva senso. Allora abbiamo lavorato a un sound design che fosse ottimale anche per i dj set. Per un po’ di anni ci eravamo ascoltati un botto di bass da dj, e pure stampato cose su Bitmore, poi quando è giunto il momento di fare un nuovo album, tutte queste idee si sono convogliate. Idee di una maggiore raffinatezza e concentrazione, per la nostra musica, meno casino e sovraccarichi inutili.

Pubblicità

E infatti Tundra è mega evocativo, e ogni volta mi fioriscono in testa immagini nitidissime di paesaggi, o luoghi del tutto incontaminati. Non voglio per forza dire che mi ricorda precisamente la tundra, per ovvi motivi. Ad esempio in “Three Songs” sembra di avanzare lentamente tra le acque torbide di una palude, ma con un'armonia di fondo. “Mountain Divide” invece mi fa venire in mente i panorami artici, con ghiacciai e venti gelidissimi… andrei avanti ore.
Dara: Per quanto mi riguarda sì, sono sempre stato estremamente consapevole che mi piace lavorare per immagini, questi paesaggi di cui parli, etc. La componente visiva è da sempre fondamentale, sopratutto perché poi cerchiamo di convogliarla in musica. Forse aiuta anche il fatto che usiamo molti suoni registrati tutti in posti molto diversi, e questo alla lunga delinea un senso di spazio più completo. Suoni che hanno uno spazio, in un dato ambiente. Questo per me è l’unico metodo di lavoro.
Ian: Io non mi immagino paesaggi come voi, ma anche per me il senso di spazio è indispensabile quando faccio musica. Forse addirittura è qualcosa che ho nell’inconscio, ma se analizzo il tipo di suoni che mi piace usare, riconosco sempre una spazialità sognante in ognuno di essi. Non sono mai suoni aridi, asciutti, ma vividi, profondi, che si configurano in veri e propri spazi tutto attorno. Possono essere intimi e ristretti, come vasti e alienanti, ma in ogni caso sempre intercambiabili e definiti. Più diventano nitidi e più aumenta l’ambiguità su cosa siano davvero questi spazi, dove vadano i suoni mentre li percorrono… capisci?

Pubblicità

Sì certo, è proprio quello che provo anche io.
Ian: È un processo interessante. E con quest’album abbiamo voluto affrontare il senso di spazialità e anti-spazialità in ogni sua direzione e significato, quindi con una contrapposizione suono-silenzio più che preponderante. Tutte queste componenti si contrappongono a quanto fatto in Ruido, dove prevale il suono, inteso anche come rumore, a scapito del silenzio. In Tundra ci sono sezioni anche ben più dance, dinamiche in termini di spazio e tempo. Abbiamo solo raccolto queste suggestioni che stavamo avendo e aggregate insieme.

Diciamo che le sensazioni arrivano sempre con immagini interiori di fenomeni o ambienti naturali, e il loro contrasto è il motore che tiene in vita tutto. Tipo la contrapposizione luce/buio, che vedo in “Pylon”, una specie di eclissi apocalittica.
Ian: ”Pylon” è venuta fuori gradualmente. La prima cosa credo sia stato il pianoforte, poi poco a poco tutti gli altri elementi si sono aggiunti. Più l’ascoltavamo più capivamo che la volevamo rendere buia, assordante, e ci siamo presi l’enorme rischio di mutarla in questo senso. Poi in fondo alla traccia ci sono anche le registrazioni della campana della chiesa dietro casa mia, a Berlino, che mi ero registrato mesi e mesi prima…. ho subito pensato che avrebbe calzato alla perfezione con la traccia, e con la sua atmosfera. Quel momento in cui parte il boato noise è volto a creare dinamismo, un punto di aggregazione materica talmente intensa, che a un certo punto ha solo bisogno di essere rilasciato. Come un respiro.

Pubblicità

Come avrete capito mi piace molto fantasticare sulle vostre tracce.
Ian: È molto interessante sapere cosa vede/vive la gente nella nostra musica. Ogni volta scopriamo sempre cose nuove. Davvero, apprezziamo molto.
Dara: È sempre bellissimo vedere come viaggia l’immaginazione delle persone, se parallelamente alla tua intuizione o viceversa. In genere la prima, anche se, ovviamente, non sarà mai la stessa identica percezione. Come senso generale però traspare sempre un senso di spazio, luogo, o anche solo il trasportare via la mente verso mete indefinite. Adoro la musica che è in grado di farlo con me, è quella che preferisco. Mi porta con sé ovunque io sia, in dimensioni sconosciute, profondissime, e lo trovo estrememente affascinante. È diventato il mio metro di giudizio; la musica di qualità riesce a farmi viaggiare lontano, e a dare una spazialità alle mie emozioni, se invece mi trovo davanti a musica noiosa tutto ciò non accade, ovvio.

Concordo appieno. Che altri sample avete usato?
Ian: Un sacco di vocals, più delle volte di Eileen Carpio, nostra partner in musica dalla voce meravigliosa. Dara poi ha registrato suoni quando era in Giappone e li abbiamo riutilizzati. Erano i freni della bici, mentre percorreva un tunnel in un’autostrada…
Dara: Sì, ero in bici in questa autostrada e avevo un piccolo registratore con me. Il tunnel era davvero infinito, di circa un chilometro. A un certo punto ho frenato e si è sentito questo suono stridente continuo, per tutta la lunghezza del tunnel, ed era incredibile. Ha letteralmente riempito lo spazio che mi circondava e diventava sempre più denso, unito anche ai restanti suoni del caso, come scricchiolii in lontananza, e tanto altro. Allora ho preso il registratore e schiacciato play su quell’assurdo effetto sonoro. Si percepisce molto bene la profondità del tunnel, secondo me.

Pubblicità

Che spettacolo, davvero… e dove l’avete usato?

Dara

: In “Ton’neru”, che è in giapponese vuol dire tunnel. [Ride]

Ian: In quella traccia tutti i beat hanno avuto processi e pitching diversi, proprio a partire da questo sample scricchiolante del tunnel. In generale layer e texture sono state concepite e installate attorno al “tunnel” di Dara, perché ci piaceva l’idea di ricostruire quella circostanza. L’evocatività e l’atmosfera dei suoni è fondamentale per noi, spesso è anche difficile da spiegare, ma è così.

Ultimamente si parla un sacco delle estremizzazioni sensoriali, visive e sonore, tipiche di quel tipo di elettronica “high-tech”, volta a stravolgere e a contrastare l’asetticità delle espressioni artistiche nell’era di Internet, portandole a collassare su se stesse. Parlo della musica di Holly Herndon, Arca, ma pure Lopatin, M.E.S.H, etc. Un bel contrasto insomma con quello che sembrate fare voi.
Ian: Mi piace l’impatto che ha questa musica, caotica, dissociata, altamente processata e sintetizzata, ma è come se avessi l’impressione che tutto questo non abbia speranza di longevità. Tendo ad ascoltare questo tipo di cose per tempi brevi. È tutto molto nitido, immediato, brillante, i suoni sono meravigliosi, ma non riesco ad ascoltare a lungo. Forse è solo un riflesso di ciò che è diventata la tecnologia oggi in generale, viviamo in un’epoca digitale e totalmente social, in cui conta l’istante in cui qualcosa accade. Tutto è transitorio, distruttivo, confuso, credo che sia davvero un riflesso dei tempi in cui viviamo. E sì, come dici tu, noi cerchiamo di fare qualcosa di diverso. Qualcosa che ha un senso del tempo più costruito, e forse costruttivo? Credo che cerchiamo solo di essere onesti e fedeli a chi siamo veramente nelle nostre vite. Io per esempio uso Internet tutti i giorni e sono la persona più digitalizzata del mondo, ma non mi piace particolarmente. Trovo che vivere così sia stressante, alienante, e alla lunga impedisca alla mente di concentrarsi su determinate questioni per più di un tot tempo.

Pubblicità

La musica che cerchiamo di fare vuole avere un effetto opposto a questo processo. E così tutta la musica che amo non incrementa mai la dissociazione, ma la cura. Ha una sua struttura e la protrae nello spazio-tempo. Negli scorsi anni i miei artisti preferiti sono stati Burial, che ha sempre questo sound eterno, senza tempo, e ti porta sempre in profondità ricche di emozioni e logevità. È musica che trovo meravigliosa, ben prodotta, e su di me ha sempre effetti straordinari. È questo ciò che cerchiamo di far accadere con la nostra musica, perché siamo noi i primi a rimanere ammaliati da processi di questo tipo. Non tanto dall’impatto o dall’irruenza apparente dei suoni, ma dai meccanismi di loro interiorizzazione.

Dara: Questa nuova tendenza di cui parli è sicuramente influenzata dall’estetica e immaginario di videogiochi e tecnologie ultrasviluppate, in cui effetti speciali e colonne sonore sono un tutt’uno quasi. Almeno io ci rivedo queste somiglianze, e ciò potrebbe spiegare perché alcune di queste sonorità, magari ben prodotte, vengano prese da qualcuno di competente, e trasformate nel nuovo “genere” musicale di cui sopra. Ci vuole sempre un po’ per metabolizzare una novità, ed è proprio questo l’aspetto eccitante del trovarsi davanti a un nuovo ecosistema di suoni ed effetti. Serve solo che qualcuno apporti elementi di stabilità e continuità, anche in questo nuovo genere apparentemente inavvicinabile, in modo da scatenare una reazione a catena anche negli altri.

Dal vivo poi sono ancora più intense queste vibrazioni. Se non vi siete ancora visti live gli artisti di prima, ve li raccomando.
Ian: Sì, molti di loro mi ricordano gli Autechre. Un insieme di così tante cose, idee e provocazioni. Anche M.E.S.H. riesce ad evocarmi un processo analogo, specialmente in quest’ultimo album. Gli Autechre sono sì caotici, e legati alla cosa dell’alta tecnologia, ma nella loro musica c’è sempre un senso di continuità, eternità. Loro li ho visti live e mi hanno trasmesso questo senso di inquietudine alternato a serenità.

Due settimane fa qui a Milano ha suonato la vostra collega Paula Temple, manco ve lo sto a dire quanto ha spaccato. Vista la vostra esperienza con R&S, di cui Paula è l’unica artista donna, e quella che state vivendo ora a Berlino, dite che l’industria dell’elettronica stia abbattendo un po’ i tabù nei confronti delle donne?
Ian: Credo che Berlino qui sia magnifica, sotto questo punto di vista. C’è una scena molto fresca, dinamica, e soprattutto educata alla parità tra sessi. Spero che diventi la normalità ovunque, davvero. Conoscere di persona Paula è stato fantastico, è carinissima ed eccellente nel suo lavoro. È una delle mie producer preferite, i metodi e la scienza che adotta sono semplicemente impeccabili. I suoni così pesanti, ostruenti, possono essere sublimi a volte. Personalmente ne sono stato molto influenzato, e anche caratterialmente è una persona bellissima; sempre disponibile al confronto e alla discussione, ma rimane sempre con le sue idee ben salde in testa. Non è così semplice trovare persone così in giro.
Dara: Rispetto massimo. È un’ottima producer, e pure dj, come avrai notato. I suoi set trasmettono un sacco di energia super pesante e oscura, ma non di quel tipo di oscurità monotono, fine a se stesso. La sua è più selvaggia, dinamica, c’è un senso di celebrazione sempre nelle sue tracce che è potentissimo.
Ian: Sicuramente le donne necessitano di figure come Paula, in questa scena prettamente a prevalenza maschile, su questo non c’è dubbio. Il coinvolgimento/riconoscimento delle ragazze in questo scenario sarebbe un ottimo passo verso una società migliore, più matura, perché è evidente quanto quest’industria sia ancora molto sessista. Perlomeno però se ne parla, e anche questo è un bene, specie qui a Berlino dove si respira aria più fresca, in quanto a progresso.

Cioè? Te lo chiedo perché nonostante tutto, il tema si è riproposto anche all’Atonal, quest’estate. Dalla lineup era subito evidente la superiorità numerica maschile. Non ci possiamo fare niente, ovvio, se esistono fisicamente più musicisti maschi che femmine, ma fa sempre riflettere. Parlerei ore di questo argomento, aiuto…
Dara: [Ride] Be’, è comprensibile. Abbiamo notato differenze dalle tendenze medie europee, ma è molto difficile quantificarle o definirle. Basta dare un’occhiata alle lineup delle serate o degli eventi, e c’è molta più parità, in ogni ambito: genere, etnia, etc. Berlino l’ho trovata molto stimolante, in questo senso. Progressista.
Ian: L’industria musicale è un po’ il riflesso della società, quindi anche se a Berlino è così, nel resto del mondo è naturale che esistano ancora differenze e sottili discriminazioni, quindi come dicevo prima, è un bene parlarne. Sono conversazione che ho tenuto con chiunque sia interno a questo settore, ed è giusto così. Sono consapevole che le cose per me siano inevitabilemente più facili, perché sono un uomo, e spesso mi trovo in ambienti pieni di altri uomini che non hanno questa sensibilità. È un argomento immenso, ci credo che ne parleresti per ore.

Per adesso finiamola qui. Cosa state combinando intanto? Nuovi lavori in arrivo?
Ian: Al momento stiamo lavorando al prossimo album, abbiamo cominciato a registrare qualcosa.

Di già??
Ian: Da un paio di settimana [Ride]. Siamo stati invitati dal Netherlands Institute for Sound and Vision per una collaborazione, perciò il prossimo album avrà tutti i sample presi dalle produzioni del loro archivio. Siamo stati in Olanda una settimana, e adesso siamo belli carichi di lavoro.
Dara: È stato bello lavorarci insieme. Abbiamo materiale splendido, i tema era l’acqua e abbiamo cercato di catturare le interconnessioni tra uomo e acqua, con sample e visual. Abbiamo abbozzato alcune tracce e stiamo cercando di sviluppare le idee, che ora come ora sono ancora molto embrionali.

Che bomba! Non vedo l’ora di sentirlo, quando uscirà più o meno?
Ian: Speriamo a inizio 2016, vedremo. Dipende quanto ci mettiamo a svilupparlo e ultimarlo. Sarà un mini LP sempre per R&S.

Mega prolifici, complimenti. Grazie di tutto e buon C2C sabato prossimo a Roma!
Ian e Dara: Grazie mille a te, a presto!

Segui Sonia su Twitter—@acideyes