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Musica

È Sanremo ad aver bisogno del nuovo pop italiano, non viceversa

Sanremo è un fattore determinante per decidere che musica ascolta chi non ascolta musica, ma sia chiaro: alle nuove leve non serve la benedizione del Festivàl.
Giacomo Stefanini
Milan, IT
Foto: Wikimedia Commons.

Oggi a Milano fa un freddo da lazzaroni, lasciate che ve lo dica. In teoria non dovrei saperlo perché lavoro da casa, quindi si suppone che io rimanga in pigiama in cucina, con coperta sulle spalle, chino sul mio MacBook come un gremlin con la barba e il maglione vintage, dalle 9 alle 18 di oggi. E invece la mia bolla di comfort(evole depressione) è stata bucata da una breve uscita al gelo fino all’edicola all’angolo, dove ho acquistato una copia cartacea di Repubblica per poter leggere nella sua interezza la lettera aperta di Gino Castaldo a Claudio Baglioni, direttore artistico dell’edizione 2018 del Festivàl della Canzone Italiana.

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“Caro Baglioni, ecco i nomi per un grande Sanremo”, titola il critico musicale, e mantiene la promessa elencando: Ghali, Brunori SAS, Calcutta, Coez, Lo Stato Sociale, Thegiornalisti, Levante. Castaldo implora Baglioni, “con tutto il rispetto dovuto alla sua consolidata posizione nel firmamento della canzone italiana”, di guardare al di là dei soliti nomi verso “una realtà in piena e felice evoluzione”, che sarebbe quella della scena pop/indipendente italiana.

Lasciate che sia onesto con voi. Quando ho letto quest’articolo, la mia prima reazione è stata: “Hah! Vecchio critico matusa che vuole parlare della musica dei giovani! Sanremo matusa non avrà la musica dei giovani! Ma io gli scrivo una lettera, gli scrivo!”—e la prima cosa che vorrei analizzare è proprio questa. C’è qualcosa in me che urla che Sanremo non solo non è rilevante, ma non può ambire a esserlo, in quanto il suo ruolo di spettacolone nazionalpopolare pre-primaverile lo costringe in un angolo di cultura molto preciso, quello dell’Italia più conservatrice. E non c’è bisogno di ricordare ai lettori di Noisey che il conservatorismo è nemico dell’arte di qualità.

E gli esempi del passato mi danno ragione. Ogni volta che artisti leggermente sopra le righe hanno tentato l’assalto alla roccaforte del bel canto all’italiana si sono scontrati con un muro di gomma, e non sto, per una volta, parlando soltanto della critica; parlo di pubblico e, come dire, generale atmosfera, in cui tra fiori e violini ogni sfida all’ordine costituito veniva accolta con paternalismo, quando non esplicitamente osteggiata. E del resto, viene da dire, che sfida è se non incontra resistenza.

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Ma mi sbaglio. Sanremo può diventare rilevante, o perlomeno attuale; perché qui, nonostante la lettera di Castaldo “preghi” Baglioni di “dare un segnale di cambiamento” e di “agire in favore della qualità” e premiare “l’eccellenza della canzone italiana”, non c’è bisogno di abbandonare la calda coperta del conservatorismo. La situazione è diversa dal solito sperimentale vs. piacione, underground vs. mainstream. Non si tratta infatti di chiedere a Sanremo di accogliere magnanimamente un vibrante sottobosco di musica difficile o dura o alta, dirottando lo sguardo più o meno benevolo dei suoi milioni di pensionati verso il ragazzino vestito tutto sbagliato che si agita in un angolo; si parla di musica popolare, musica da classifica, da radio, da dischi d’oro e di platino. Si tratta di dare una sveglia alla manifestazione e farle capire che i nuovi re e regine del pop italiano si incoronano ormai da anni al di fuori di quel teatro, sicché farà meglio ad adeguarsi se non vuole finire definitivamente nella stessa categoria televisiva de I Fatti Vostri o La Signora In Giallo (che non è soltanto quella delle trasmissioni ironicamente bellissime di cui noi hipster milanesi discutiamo con gran dispendio di superlativi durante i nostri brunch domenicali—è quella della TV da casa di riposo).

Chi tra i miei amici e colleghi è meno radical chic di me e ha guardato la televisione per più di dieci minuti negli ultimi cinque anni mi fa notare che io Sanremo lo sottovaluto. A febbraio scorso le prime serate su RaiUno hanno raggiunto picchi del 49,7 percento di share. Non si può pensare che numeri così impressionanti non influiscano sulle vendite di un artista, lo testimonia anche l’enorme successo ottenuto da cosa lì, la canzone del gorilla di coso lì, quello che ha vinto Sanremo, quello coi baffi. E va bene, ammettiamolo, Sanremo ha una certa influenza sulle vendite di dischi in Italia nel primo trimestre dell’anno. Il nostro è un paese piccolo, linguisticamente isolato e anziano, ed è grazie a queste caratteristiche che il Festivàl mantiene la sua rilevanza. Anzi, diciamolo senza peli sulla lingua: Sanremo è un fattore determinante per decidere che musica ascolta chi non ascolta musica.

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Quello che Castaldo non azzecca nella propria lettera non è l’idea che artisti come quelli da lui citati possano spaccare il palco di Sanremo e rendere la trasmissione più interessante e al passo coi tempi; questa è un’intuizione corretta, anzi, banale—e si presume che Claudio Baglioni ci sia arrivato con le proprie forze. L’errore sta nella sua reverenza nei confronti della kermesse (era tanto che volevo usare questo termine), nell’idea che la direzione artistica disponga dell’autorità di “premiare l’eccellenza”, quando i fan che ogni settimana vanno ai concerti, i fan che interagiscono con gli artisti sui social, che commentano e discutono online e di persona hanno ormai preso in mano questo scettro. Se Sanremo vuole partecipare alla festa si accomodi, altrimenti ne faremo tranquillamente a meno.

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