La Napoli multiforme di Franco Ricciardi
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Musica

La Napoli multiforme di Franco Ricciardi

Siamo andati a conoscere Franco Ricciardi, anello di congiunzione tra rap e tradizione partenopea, tra il suo studio e un concerto in piazza.

Sono le due e diciassette di notte quando mi siedo a tavola con Franco Ricciardi e la sua band. Siamo in piazza Sannazaro, a Mergellina, e abbiamo appena ordinato. Arrivano caponate, qualche pizza, una zuppa di cozze, del pesce alla griglia. Uscire a mangiare dopo un concerto è una tradizione che va rispettata, pare, e Franco è ben felice di onorarla. Seduto accanto a lui c'è D-Ross, in fondo vedo suo figlio Salvatore, in mezzo tutte le mani e le menti che fanno musica insieme a lui. "Ti devi circondare di persone che hanno il tuo stesso credo, devi formare una squadra", mi aveva detto nel pomeriggio: "E anch'io sono parte della squadra, non mi piace essere il capo. Remiamo tutti assieme per un solo obiettivo." Per arrivare qua siamo partiti verso l'una da San Felice a Cancello, un paese in provincia di Caserta dove Franco si era esibito davanti a una piazza ricolma di vita. "È un problema se fai tardi stasera? Ci andiamo a mangiare qualcosa", mi aveva detto nel backstage a concerto finito. Dopo aver fatto partire una macchina vuota per ingannare la massa umana che cercava di afferrarlo per una foto o un autografo, si era allontanato in sordina alla volta di Napoli. Sarei andato a dormire alle quattro e dieci.

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A prendermi in stazione, parcheggiato fuori da un'uscita laterale, c'è Davide Zazzaro: un ragazzo che lavora per Ricciardi ed Enzo Dong come manager, organizzatore, tuttofare. Ci dirigiamo verso Secondigliano e lì carichiamo in macchina Salvatore, figlio di Franco, diciannove anni. Andiamo in una gastronomia a mangiare un panino (in Campania tutto può essere messo in un panino e nessuno vi guarderà male—il mio ha carne arrosto, piselli, patatine e maionese) e ci dirigiamo verso Aversa, dove cominceremo l'intervista. Se sono qua è perché Franco Ricciardi è una delle figure che meglio incarnano ciò che Napoli è diventata nell'immaginario collettivo post- Gomorra, esplosione del rap locale e sdoganamento della canzone napoletana a livello nazionale. Lo è in nome di una carriera sfaccettata e complessa che ha fatto dell'ibridazione la sua parola chiave—lui la chiama "curiosità", ma il concetto è lo stesso.

Franco Liccardo nasce in Via Marche, a Secondigliano, nel 1966. È il settimo di otto figli. Suo padre vende palloncini a Edenlandia, parco giochi costruito l'anno precedente a Fuorigrotta con l'idea di creare una Disneyland italiana, fallito nel 2011 e ora chiuso a tempo indeterminato. La sua coscienza non è diversa da quella di molti altri ragazzi di periferia, costruita attorno a concetti come rispetto e umiltà: "La mia era una famiglia semplice, con poca roba a disposizione ma moltissima dignità", mi dice, "mi ha insegnato a guardare dritto alle persone e non abbassare mai la testa". A casa si ascolta sia pop che canzone napoletana, e il piccolo Franco attinge da un campionario sonoro che va da Christopher Cross a Pino Mauro, da Michael Jackson e Mario Merola.

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La sua prima esibizione arriva nel giorno in cui i suoi festeggiano venticinque anni di matrimonio. La camera da letto di casa viene svuotata, in un angolo c'è la band—"l'orchestra", la chiama Franco. "Non me la posso perdere 'sta cosa," ricorda di aver pensato dopo aver visto strumenti e microfoni. "Mio padre disse che ero pazzo, quindi feci di tutto per convincere mia mamma. Lei è stata sempre la mia alleata. Cantai "Papà… è Natale" di Patrizio e "O treno d'o Sole" di Mario Merola." Il giorno dopo, alcuni amici chiesero a Franco se a casa sua c'era stato Patrizio, a cantare—quello vero. A lui si increspò un sorriso sulle labbra. Franco smette di studiare dopo la terza media: "Ero abbastanza cocciuto", ricorda. Per sei anni studia canto, andando da un maestro nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, otto chilometri a sud dalla sua Secondigliano. La sua carriera prende forma grazie alla grande mamma televisione: come oggi ci si affida a un sì o un no di un musicista-reso-giudice per poter lambire il mondo del pop, nel 1985 Franco, a diciannove anni, va a quello che chiama "il primo talent in Italia": Clap Clap, presentato da Barbara Boncompagni. "Il mio produttore all'epoca aveva il padre che faceva lo scenografo in RAI", ricorda. "Mi fece 'Perché non partecipi pure tu, perché non gli porti ad ascoltare il pezzo?" Armato di un pass per entrare nel bar della sede napoletana della RAI, a Franco viene indicato Stefano Bonagura come "quello che ascolta le canzoni". La risposta è un no con riserva: le puntate della stagione sono già state girate, ma se ne può riparlare l'anno successivo. Qualche giorno dopo, il telefono di casa Liccardo suona. È la RAI. "Stefano stava girato di spalle vicino alle bobine", ricorda Franco. "Io entrai, lo salutai e lui senza voltarsi mi disse: 'Ti sta bene dal 28 al 31 maggio?' 'Ma per cosa?' 'Sei entrato'. Quel giorno sono tornato a casa a piedi, non riuscivo a stare fermo."

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Sul palco del concerto di San Felice, Franco fa salire un ragazzo che stava passeggiando nervosamente dietro le quinte da una mezz'ora buona. Gli lascia il microfono e gli chiede il nome della sua fidanzata: "Nunzia". Nunzia credeva che lui non fosse riuscito a venire, e invece è lì sul palco che la chiama. Scatta la proposta di matrimonio, anello e tutto. La risposta è, ovviamente, sì. Il pubblico grida e chiede un bacio: tutto come da manuale. Franco canta agli innamorati un pezzo, mentre loro restano seduti sul rialzino davanti alle due batterie ad abbracciarsi. Dopo il concerto, Franco sembra incredulo per ciò che è successo: "Non mi era mai capitato, in trent'anni, di vedere qualcosa del genere. Un'emozione fortissima".

Dopo Clap Clap, Franco comincia a registrare canzoni su canzoni. È ancora una chiamata che gli fa salire un altro gradino, quella di Gigi D'Alessio. "Andai a questa festa a Mergellina e mi incontrai con lui. Mi fece i complimenti, ci facemmo tre volte il giro del Borgo Marinari parlando. Mi disse che voleva farmi ascoltare un pezzo, "Picchia forte il cuore"." Franco si presenta agli studi dell'etichetta di Gigi, la Zeus, storica casa discografica napoletana fondata negli anni Sessanta, scopritrice di Mario Merola e Massimo Ranieri. Oggi, la dipinge così: "Stava alla Galleria Umberto I, dove si incontravano tutti gli artisti. All'epoca non c'era il telefono, e lì c'era tutto il movimento. Dal lunedì al venerdì, dalle undici alle due del pomeriggio, c'erano tutti. Impresari, musicisti… tutto il movimento della canzone popolare napoletana." Gigi offre a Franco di produrre tutto il suo album, e così nasce uno dei suoi album di maggior successo, Un salto nell'amore, pubblicato nel 1989. In quegli anni non si parlava di musica napoletana come "neomelodica"—non se ne parlava affatto, se non tra i confini della Campania. A cambiare le cose fu un concerto sold out al Palapartenope nel 1995, seimila persone a cantare i pezzi di Ricciardi. "Volevamo stupire, fare qualcosa di plateale", ricorda Franco: il risultato fu un arrivo in elicottero, atterrato in un campetto da calcio accanto al palazzetto, trasmesso in diretta su uno schermo sul palco. "Da lì le televisioni e i giornali vollero capire che cosa stava succedendo in Campania. Napoli è una piazza abbastanza difficile se fai il musicista, è una città dal carattere forte. Se vai bene qua, sei forte in tutta Italia", dice Franco. "Si inventarono questa cosa del neomelodico per definire 'sta cosa, "nuova melodia". E fin lì siamo d'accordo, io sono una nuova melodia a tutti gli effetti. Ma quando si è creato un genere, non mi ci rispecchiavo più. Non perché lo disdegno, ma perché sono uno che spazia ovunque."

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Le opportunità per spaziare non mancarono, a Franco. In quegli anni anche Napoli stava venendo attraversata dalla primissima ondata del rap italiano e, nell'androne di una sala prove, in mezzo al fumo di sigaretta, Franco conosce i 99 Posse: "Ho sempre amato il rap perché è un linguaggio di strada. È un modo crudo di dire le cose, e negli anni anch'io ho assimilato quella modalità." Da quell'incontro nasce "Cuore nero", uno dei pezzi più celebri di Franco: erano gli anni della Lega Nord di Bossi in canottiera, tra grida di secessionismo e razzismo gratuito. "Cuore nero" fu una risposta in forma-canzone che ribaltava i parametri di valore leghisti in un orgoglioso "Siamo tutti africani, noi napoletani". Franco parlava di "Voci antiche, grida saracene", di schiavi incatenati in una "foresta metropolitana", sostenuti dal battito incessante del loro muscolo cardiaco.

Poco dopo, arrivò l'endorsement di Pino Daniele: "È stato uno dei primi a farmi dei complimenti, sebbene da lontano", racconta Franco. "Quando suonò al San Paolo assieme a Ramazzotti e Jovanotti gli chiesero, in una conferenza stampa, cosa ne pensasse di questa storia del neomelodico. Lui disse che l'unico che gli interessava ero io, perché venivo dai quartieri popolari e mi ero confrontato con i centri sociali. Non ho mai avuto il piacere di ringraziarlo, ma chi conosce Pino sa che non era uno di facili complimenti." Ricciardi si stava qualificando come anello di congiunzione tra le diverse anime della città, ma al contempo creava attrito nell'opinione di parte dei suoi concittadini. "A Napoli "Cuore Nero" venne vista quasi come un'offesa, di primo acchito," mi spiega. "Le persone che mi seguivano si sentivano quasi violentate a sentire uno che cantava "Mia cugina", "Treno", "Prumesse" fare un pezzo di sfondo sociale. Pensavano stessi cambiando radicalmente la mia vita, che mi stessero facendo drogare! A cambiare le cose sono stati il tempo e la conoscenza. Perché, se ci fai caso, la gente non dice mai 'non ho capito'. Dice 'non mi piace'."

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In macchina, da Acerra verso San Felice, Davide scorre tra le radio locali faticando a trovare un segnale decente. Mi vuole far sentire come il DJ legga le dediche dei pezzi dei neomelodici che passano, dalle famiglie e dalle fidanzate dei carcerati che restano all'ascolto dietro alle sbarre di una cella. Intanto Salvatore, il figlio di Franco, mi fa ascoltare una demo che ha registrato in cui suona sullo stile dei King Gizzard & The Lizard Wizard. Mi parla di psych rock australiano, mi nomina i Pond. Quando ci fermiamo a un semaforo, Davide abbassa il finestrino e cerca di capire che cosa stanno cantando le voci che provengono dalle altre macchine immobili: "È così che si capisce che cosa funziona a Napoli", mi dice.

Un altro cardine narrativo della carriera di Franco è l'incontro con Rosario Castagnola, in arte D-Ross—"Lui è un folle, io sono più folle di lui", mi dice. Se Ricciardi è l'intersezione testuale e vocale tra rap e tradizione napoletana Castagnola è la sua controparte musicale, a suo agio a comporre tappeti sonori adatti a sostenere sia barre che vocalizzi. Dalle sue produzioni—accolte da Luche, Fabri Fibra, Clementino, Marracash—emergono in egual misura tradizione napoletana e rap internazionale. La loro partnership artistica si fonda sulla condivisione di quella curiosità che Franco sostiene sia il motore primario del suo fare musica: "Quando lavori con lui sei nel mondo, non sei etichettato o settoriale. Quando una cosa mi è estranea, allora capisco che è lì che devo andare a esplorare, e fu la conoscenza di Rosario ad affascinarmi in questo senso. Mi spiegava ogni cosa che faceva: da dove arrivava il suono, quali erano le influenze." Come aveva capito e interiorizzato il linguaggio dei 99 Posse, così Franco lascia entrare in sé venature di Club Dogo, collaborando con Guè Pequeno e Jake La Furia, accoglie i suoi vicini di quartiere Co'Sang, lascia rilavorare a nuove leve locali i suoi classici—con Enzo Dong "Prumesse" diventa "Prumesse mancate", assieme a Rocco Hunt "Treno" si fa "Treno Luntane".

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Dalla sua Via Marche, a metà tra Miano e il rione Don Guanella, Franco ha visto nascere Scampia e le Vele, passate—grazie alle riverberazioni di Gomorra nella cultura mondiale—dal simbolizzare un grado massimo di fallimento sociale a incarnare il riscatto di un quartiere e, per estensione, dell'intera città di Napoli. Le vele nacquero grazie alla legge 167 del 1962, un intervento del governo che permise l'esproprio di terreni per fabbricare edilizia residenziale: quel numero è diventato una delle canzoni più celebri di Franco, "167". Il testo racconta un "Bronx Napoletano" tra asfalto, facce impaurite e fatalismo nei confronti delle scarsità, del maltempo, della sfortuna: "Maradona nun po' turnà", scoppia prima del ritornello. "Quando non hai niente ti aggrappi a qualsiasi cosa," mi spiega Franco, "e in quel momento Maradona era l'unico modo di riscatto per dire 'Non abbiamo solo questo, abbiamo anche dei campioni'. Fortunatamente di Maradona ce ne sono tantissimi, persone che si danno da fare. Per me tutti quelli che ce l'hanno fatta, a Scampia, sono piccoli Maradona."

L'audio ufficiale di "167". "Quella cosa che poi è stata, io l'ho sempre prevista," mi racconta Franco quando gli chiedo come ha vissuto l'evoluzione del quartiere. "Prendi delle case fatte così, metti assieme persone che non hanno la possibilità di averne una e non dai l'alternativa di un lavoro, l'illegalità viene subito fuori. Quelli che stanno ai piani alti sapevano che stavano innescando una bomba che sarebbe scoppiata subito." Secondo Franco, oggi Scampia "è solo un posto per fare fiction", popolato da persone che "hanno avuto la forza di venire fuori e cambiare". Pensa però che Gomorra abbia dato molto alla città, facendo rendere conto a tutti quanto si esagerasse nel rendere una parte malata del tessuto sociale rappresentativa dell'insieme. Sicuramente ha dato molto a lui e Ivan Granatino, suo collaboratore fidato: "A Storia 'e Maria" e "Uommene", la prima una loro collaborazione e la seconda un estratto da Figli e figliastri di Ricciardi, sono tra i pezzi più identificativi della colonna sonora della serie—la prima personifica una Napoli suggestiva e multiforme, che "canta 'O Sole Mio' a Secondigliano" ma sta anche "in America, e non parla più italiano"; la seconda, una dichiarazione d'integrità lapidaria e marziale. È il 2014 quando viene trasmessa la prima stagione di Gomorra, e lo stesso anno Franco inciampa—assieme a D-Ross, Sarah Tartuffo e Alessandro "Nelson" Garofalo—in un riconoscimento istituzionale: vince un David di Donatello per "'A verità", dalla colonna sonora di Song 'e Napule, film in cui interpreta un boss della camorra. È uno degli eventi che hanno definito la sua carriera recente: una sorta di approvazione tradizionalista sovrapposta alla sua fama grassroots e al nuovo interesse causato da Gomorra. "Quel pezzo è tutto", mi dice: "è il sacrificio, è l'apprezzare quello che hai, la paura." A dargli la notizia della nomination fu una lettera firmata Giorgio Napolitano: "Ti arriva l'invito del presidente della repubblica, che ti invita al Quirinale. L'ho vissuta con scioltezza. Ho avuto Sophia Loren e la nuvola di positività che aveva attorno a un metro da me, ho fatto un selfie col presidente e lui mi ha risposto che ai suoi tempi si chiamava autoscatto… Quando hai paura non ti godi quello che hai. Ero convinto che non sarebbe successo niente, e quello mi ha permesso di godermi tutta la cerimonia."

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Salvatore suona assieme al padre: è membro del gruppo a tutti gli effetti, alle tastiere e al sequencer. A un certo punto, Franco lascia spazio a lui e al suo gruppo per una cover di "Only Girl (In the World)" di Rihanna e fomenta il pubblico, chiedendo carica e supporto per i quattro ragazzini sulle assi del palco. Non ha invece bisogno di conferme uno dei due batteristi della band, Vittorio, che ha quattordici anni. Allo stesso modo, davanti al palco, ragazzini prepuberali arrampicati sulle transenne e cinquantenni in vestaglia cantano allo stesso modo i pezzi di Franco, i vecchi come i nuovi. Tutti depositari dello stesso bagaglio musical-culturale, senza alcun ombra di gap generazionale.

Lo scorso 24 giugno, Nino D'Angelo ha organizzato allo stadio San Paolo un concerto per festeggiare i suoi sessant'anni. Dopo qualche canzone, sul palco si sono presentati Franco Ricciardi e Luche: assieme a Nino, hanno cantato "'A brava gente", con il rapper di Marianella a integrare le strofe di "Int 'o Rione" nel pezzo: una narrazione partenopea intergenerazionale, antologia di racconti brevi uniti da un pool culturale comune. Franco ne parla con un sorriso smagliante: "È stato uno dei concerti in cui mi sono divertito di più, è stato un sodalizio bellissimo. Appena dopo sono andato giù agli spogliatoi, ho messo pantaloncino e maglietta, fascia di Nino e mi sono goduto tutto il concerto. Non c'era un pezzo che non conoscevo. Amo la mia città e lui è uno che l'ha cantata per molti, e la canta ancora. Stare lì è stato un viaggio in quarant'anni, a cantare assieme a lui a squarciagola proprio come un ragazzino. Quella magia, quella positività che ti regala la musica, e io ci sguazzavo dentro." Chiedo a Franco di parlarmi del ruolo che l'amore ha nella sua vita, e mi aspetto di sentirlo parlare di relazioni, donne, sentimenti. Invece mi spiazza decantandomi una passione genuina per le serenate. Mi racconta quanto gli piace passeggiare per Napoli e imbattersi in un vico in festa, dove una band sta suonando canzoni per una ragazza: "È un privilegio che pochi hanno. A Napoli si vive di musica. Io credo che il nemico più forte della canzone napoletana siano i napoletani." Gli chiedo di spiegarsi meglio: "Sembra che il napoletano stesso voglia prendere le distanze da questa cosa, c'è un po' di puzzetta sotto il naso. Siamo pigri, non c'è voglia di aggregazione, ci sono ancora pensieri stile mors tua vita mea. C'è chi corre sempre a essere il primo. A me ha salvato, questa cosa che non voglio essere il numero uno. Essere in cima significa stare in gabbia, essere soli, essere invidiati e odiati. A me piace stare a metà della montagna, mi mette i brividi 'sta cosa di arrivare alla cima. E dopo? È finita. Io non voglio essere insegnante, voglio essere alunno a vita."

Cerco di capire come tutto questo abbia portato Franco a scrivere Blu, forse l'album più accessibile della sua carriera: basta i suoni MIDI dei suoi anni Ottanta, stop agli arrangiamenti tradizionali e spazio, in larga parte, a quell'elettronica sporca di R&B che tanto sta facendo la fortuna del progetto Liberato ("N'ata notte") e a tradizionali produzioni rap ("Overo", scritta con Vale Lambo). "Quando capisci che gli altri iniziano ad ascoltarti e capirti, diventi più libero e hai meno paura," dice Franco, pensando a tutto ciò che Gomorra e il David di Donatello gli hanno donato. In un contesto nazionale in cui Napoli e il suo dialetto sono ormai completamente sdoganati, lui ha scelto di abbandonare completamente l'italiano: "Desideravo proprio raccontarmi nella mia lingua madre", dice, "e per la prima volta dopo anni e anni nessuno mi ha detto che le mie canzoni vecchie erano più belle." Franco continua: "Ognuno tende sempre a dire il vecchio era più bello, ovviamente chi mi ascoltava vent'anni fa non si rispecchia nelle mie cose nuove. Sono persone che si sono fermate, hanno fatto famiglia, e la musica non è il lavoro. Quindi è giusto così. Ma finalmente con Blu, che è un disco senza paura, ho messo d'accordo un po' tutti." E ancora: "Non amo i fronzoli, voglio essere bello dritto e arrivare al dunque anche con poche cose, nei suoni e nei testi. Credo che sia facile essere difficile. Basta essere un po' ermetico, inventarsi cose strane: per essere efficace devi arrivare con poca roba. "N'ata notte", se ci fai caso, è un solo accordo, sempre così, dall'inizio alla fine. È qualcosa di essenziale."

Arriviamo a San Felice a Cancello verso le sei di pomeriggio, e mi accascio sul divano della roulotte che sarebbe servita da backstage. La band di Franco fa il soundcheck davanti a una piazza vuota mentre a qualche metro lui comincia a venire circondato: ragazzi e ragazze, bambini e bambine, nonni e nonne gli chiedono una foto e un abbraccio mentre altri ancora osservano dai balconi lungo la via. Una famiglia riesce a passare le transenne e manda avanti il loro figlio, un bambinetto che avrà al massimo cinque anni. Va da Franco, gli chiede un bacio sulla guancia e gli sussurra qualcosa all'orecchio. Dopo le foto di rito, gli chiedo che cosa gli ha detto: "Mi ha chiesto una canzone per dopo. Una delle nuove." Franco Ricciardi suonerà all'Alcatraz di Milano il prossimo 25 ottobre. Segui Noisey su Twitter e Facebook.