Zarro Vincit Omnia, la parabola di Jake La Furia
Disegno di Simone Restelli

FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

Zarro Vincit Omnia, la parabola di Jake La Furia

Come mai il Re Degli Sconfitti ha appena vinto Bake Off Italia? Con lo spirito del fan più devoto, ripercorriamo la carriera di Jake La Furia dai suoi esordi fino al suo ruolo televisivo di Gian Burrasca tatuato.

Amici, compatrioti, hipster che leggete Noisey, prestate orecchio. Non siamo qui per lodare Jake La Furia: le hit reggaeton che gli uomini fanno sopravvivono loro, mentre le rime più spesse vengono sepolte con le loro ossa, e così sia di Jake. Siamo qui per rispondere alla domanda che da qualche stagione tormenta aficionados vecchi e nuovi del rap italiano, soprattutto alla luce delle ultime uscite del veterano milanese: perché il Signor La Furia è colto da follia improvvisa?

Pubblicità

Cosa ha spinto uno dei massimi esponenti di questo genere a voltare le spalle ad un retaggio leggendario per trasfigurare nel Fatman Scoop bianco, ronzando con la noncuranza di un calabrone tra dirette radiofoniche su Radio 105 e improponibili cosplay del Santo Padre insieme a Rovazzi? Perché il Re Degli Sconfitti ha appena vinto Bake Off Italia - Celebrity Edition?

La risposta potrebbe stupire alcuni di voi. È “onestà intellettuale” e anche “la forza invicibile della zarrìa”. Ma procediamo con ordine: ripercorriamo la carriera del nostro dai suoi esordi, ed esaminiamo i fatti a nostra disposizione.

Il primo dei fatti è che la storia del rap italiano prende le mosse da un equivoco storico. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 la cultura antagonista italiana era orfana di un genere musicale identitario di riferimento. Gli eroi del punk HC ’77-’84 si erano ormai avviati lungo le strade del prepensionamento o dell’obitorio e una complessa e ramificata rete di autogestioni, centri sociali e Cobas necessitava di una musica semplice e di impatto che infiammasse i cuori dei militanti, e rivendicasse posizioni di alterità nei confronti dell’istituzione.

Per una serie di circostanze contingenti, la scelta è caduta sul rap, instradandolo su un sentiero domestico del tutto sui generis, più angusto e settario rispetto all’ampia biodiversità di cui l’hip hop già all’epoca godeva a livello internazionale.

Pubblicità

Per questo motivo, all’alba dei ’90, in Italia usciva “Batti il Tuo Tempo” degli Onda Rossa Posse, mentre in America i Digital Underground esplodevano nei club con rime trasudanti autocoscienza e impegno sociale del tenore di: “just act a fool, it’s okay if you drool / Cause everybody’s gonna strip, and jump in the pool / And doowhatwelike, yeah…”

Allo stesso modo, circa venticinque anni dopo, in Italia usciva ”OGNT” di Sfera Ebbasta e in America questo:

Si può ben dire che ne sia passato di flow sotto i ponti. Ma allora dobbiamo domandarci cosa abbia ricomposto una frattura culturale larga come l’Atlantico, consentendo una rivoluzione copernicana del nostro rap, sia nei contenuti che nell’immaginario di riferimento. Cosa c’è stato in mezzo? In mezzo ci sono stati i Club Dogo. In mezzo c’è stato Jake La Furia.

Quando Fabri Fibra non era ancora riuscito a fare breccia nel cuore del pubblico mainstream con la sua formula comunicativa sospesa a metà tra Slim Shady e il Gabibbo, la classe milanese delle Sacre Scuole aveva già iniziato a cambiare le regole del gioco. A partire da 3 MC’s al Cubo i rapper hanno cominciato a curare maniacalmente l’aspetto formale delle liriche, ricercando soluzioni metriche ardite e cedendo al gusto bizantino del calembour linguistico.

Il boom commerciale dei Dogo ha avuto conseguenze di carattere sociologico. Tra tutte, la principale è stata quella di trascinare il rap fuori dai centri di aggregazione ideologicamente orientati, e accompagnarlo nelle periferie metropolitane, in mezzo agli zarri la cui sola bandiera è quella del nucleo ultras di riferimento, il cui solo credo è la voglia di bamba, sesso e soldi. Il rap marchiato Dogo è stato un vettore diretto “dalla gente per la gente / a chi non rispetta niente / a chi è senza rispetto per la gente”: un rap immanente, crudo, talvolta becero nel suo materialismo, ma anche sprovvisto di barriere d’appartenenza all’entrata. Il tipo di rap che ha fatto inorridire Militant A degli Assalti Frontali, e poi ha aperto la porta a una serie di nuovi artisti degagè e profondamente individualisti, da Emis Killa a Sfera Ebbasta alla famigerata Dark Polo Gang.

Pubblicità

L’aspetto davvero interessante di questo fenomeno però è la leva utilizzata dal Cerbero meneghino per deviare le rotaie su cui l’hip hop italiano correva da più di un decennio. Quella leva è stato il loro nichilismo esasperato, esistenziale, metaetico. Un nichilismo cyberpunk che attinge a piene mani dall’universo iconografico di Mad Max e Ken il Guerriero e già guarda al naturalismo di Zola. Un nichilismo in grado di trasfigurare la Milano notturna in un grumo rappreso di lava, sulla cui superficie rovente creature ferali lottano con ogni mezzo (lecito o illecito) per la loro libbra di carne.

Sotto questo cielo vuoto i Dogo hanno condotto una lunga cavalcata suicida, scrivendo nel frattempo la perfetta colonna sonora di un incubo italiano pre e post crisi. Un incubo perfettamente riassunto nelle barre programmatiche con cui Jake conclude un pezzo del suo primo album solista, “Musica Commerciale”: “Frate io non credo in te, non credo a nessuno / e poi non credo in Dio e non credo nell'uomo zio, fanculo”. Gli esiti di questa operazione li racconta la Storia e il presente che oggi la scena italiana vive: con le sue luci e le sue ombre.

Per proseguire nella nostra analisi, cosa succede se la storia non finisce dopo l’ultimo hurrà? Cosa avrebbe inquadrato la cinepresa di Peckinpah se Mucchio Selvaggio non si fosse concluso con la carneficina finale? Che vita conduce un kamikaze che, dopo sacrificio, è rimasto - con sua somma sorpresa – vivo? La risposta la troviamo in Fuori Da Qui, seconda fatica solista della Furia, il primo dopo lo scioglimento de facto del collettivo con cui ha cambiato il tono del rap italiano dal rosso politico al rosso pulp. Si tratta di un disco profondamente malinconico, che fin dal titolo esprime un desiderio di fuga, e che si rivela nel suo insieme il perfetto concept album sulla crisi di mezza età di un bombarolo. Al suo centro troviamo un Jake ancora più disilluso, ma soprattutto più stanco. Quello che emerge dall’ascolto di tracce come “Qualcuno”, “Ali e Radici” o “Testa o Croce” è l’autoritratto di un uomo che ha vissuto assecondando i suoi istinti primordiali senza badare a nulla di quanto lo circondasse, e ha finito per smarrirsi nella notte della ragione.

Pubblicità

Lontano dai riflettori di un pubblico che già cerca altrove i suoi idoli, privato degli “amici con cui vendeva sogni”, Jake recita il De Profundis di un’esistenza vissuta con la fretta e la fame addosso, piena di errori e vicoli ciechi. Rivolge una preghiera ad un Dio che non crede, al rap in cui non si riconosce più, ad una Milano non più sua per diritto di spada. Chiede “ridammi una vita, ne hai presa metà“. A chiunque fosse rivolta, quella preghiera non è rimasta inascoltata. La replica è stata “Me Gusta”, singolo radio friendly dalle sonorità tropicali in cui il vecchio Fame, circondato da macerie e rimpianti, si mette improvvisamente a ballare. E continua a ballare, apparentemente sereno, disinibito, tra lo sgomento generalizzato di coloro che faticano a distinguere in quel panciuto Sileno danzante l’ombra del bandog che hanno imparato a temere.

Eppure, la grottesca coreografia di Jake La Furia non si è più arrestata da quel momento. A “Me Gusta” ha fatto seguito la multiplatino “El Party” e proprio in questi giorni la ultracore “MMMH”, un’accorata dichiarazione d’amore al culo femminile. Intorno è fiorita una nuova fase della sua carriera, alimentata da ospitate televisive, fugaci camei in commedie italiane e partecipazioni a reality show, in cui il rapper si compiace di interpretare, con divertito distacco, il ruolo del Gian Burrasca sovrappeso e tatuato.

Jake La Furia durante una puntata di Bake Off Italia.

Se avete cercato un barlume di redenzione alla fine di questo breve esame, siete destinati a rimanere delusi. Chi ha da sempre “fatto a pugni col mondo solo per vedere chi ha le corna più dure” non sembra destinato a trovare requie e compimento in una terra su cui l’Apocalisse è calata in sordina. Così la deriva caciarona del suo ultimo ciclo di singoli non appare indice di una ritrovata serenità, ma il trionfo finale del suo profondo nichilismo e della sua connaturata tamarragine. Del resto, quando hai cambiato per sempre il rap italiano, hai battuto tutti i tuoi rivali e perso solo contro te stesso, quando hai descritto con la Penna Capitale quindici anni di amoralità e brame tue e del tuo Paese, a cosa ti resta di credere se non al Culo?

Jake ha sempre detto e scritto solo la sua verità, ad ogni costo, per quanto violenta, per quanto ridicola. Ma chi può dire davvero come stia oggi Francesco Vigorelli, neo marito e neo padre, GOAT del rap italiano, attore, conduttore radiofonico, uomo grasso in un’ambiente ossessionato dalla forma fisica ad oltranza? Cosa ne è della coscienza di Jake? Ci hanno insegnato che bisogna immaginare Sisifo felice.

Guardando il Signor La Furia sedersi di fronte ad Alessandro Cattelan con un largo sorriso compiaciuto in mezzo al volto rubicondo, e ammettere candidamente: “ho detto cose talmente ignobili nella mia carriera da aver perso completamente ogni senso di responsabilità“, non facciamo fatica a crederlo. Zarro vincit omnia.

Alberto è uno degli admin di Chiamarsi MC senza apparenti meriti lirici, seguilo su Facebook.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.