Breve storia dei Fear, quando il punk americano faceva ancora paura

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Breve storia dei Fear, quando il punk americano faceva ancora paura

Chi ha distrutto lo studio di Saturday Night Live, lanciato i peggiori insulti, sparlato, rubato e provato ogni sorta di schifezza? Lee Ving e i suoi Fear, naturalmente.

I nati nel 1986 avevano tredici anni nel 1999. E io ero uno di quelli. Se c'era un album che durante quelle ultime estati di fine millennio sapeva accompagnarti nel sacro limbo tra la pubertà e l'adolescenza era Californication dei Red Hot Chili Peppers. Il videoclip della title track giocava con la pop culture videoludica del periodo, strizzando l'occhio ai freneticissimi 128 bit di Crazy Taxi e anticipando di un paio di anni il primo Grand Theft Auto in terza persona. Il gruppo di Kiedis aveva raggiunto l'apice qualche anno prima con Blood Sugar Sex Magik e aveva, con lentezza, inaugurato la lunga strada della discesa artistica. L'album era quello del bentornato di Frusciante e il singolone era un omaggio al delirante erotismo della regione che per più di dieci anni aveva dominato la cultura popolare americana e Occidentale. Quando ero un povero fesso – si legga un giovane teenager - la California rappresentava, per i miei poveri occhi da provincialotto molisano, le coordinate spaziali che conducevano alla galassia dei RHCP, i Blink 182, Johnny Knoxville e Steve-O su MTV, il Paradiso terrestre con tanto di capitale: Hollywood. Ero solito suonicchiare malamente sulla mia chitarra acustica Californication, sgrammaticando il testo:

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"Psychic spies from China
Try to steal your mind's elation
And little girls from Sweden
Dreams of silver screen quotation
And if you want these kind of dreams
It's Californication

It's the edge of the world
And all of western civilization
The sun may rise in the East
At least it settles in the final location
It's understood that Hollywood
Sells Californication"

Jackass

si apriva sulle note di "Corona" dei Minutemen.

Da ragazzino cresciuto nelle periferie culturali d'Italia quelle parole che definivano la California il confine ("the edge") del mondo mi suonavano così ingiuste e da stronzi. Tu ti lamenti della California? Prova a vivere in Molise, stronzo.

Avrei dovuto aspettare i tempi dell'università per venire a conoscenza dell'assurda commistione che ha caratterizzato la California per più di due secoli, dove a continue azioni culturali, sociali ed economiche hanno sempre corrisposto delle reazioni uguali e contrarie. Tra il Diciannovesimo e i primi anni del secolo successivo circa 10 milioni di immigrati invasero una terra che l'iconica Central Pacific (date un'occhiata alla serie tv Hell on Wheels per una completa lezione di storia) unificò in nome della civilizzazione industriale. E' facile immaginarsi il risultato di un unico melting pot formato da messicani, W.A.S.P., afroamericani e cinesi, misto a feroci investimenti di capitale.

Quel genocida di Hernan Cortés invase la penisola nel 1533 con l'intenzione, come tanti altri conquistadores del periodo, di scoprire la mitica città di El Dorado, ipoteticamente localizzata nella parte Sud. In quasi quattro secoli, a furia di non trovarla, El Dorado se l'erano costruita.

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Dicevo, per anni ho pensato che la California fosse tutto splendore nell'erba. Poi qualche anno fa conobbi un cugino di mio padre. Lui è uno di quelli che negli anni sessanta ha preso la valigia, l'ha riempita di qualche canottiera bianca, un paio di foto del Molise, e se ne è partito alla scoperta del Sogno: volontario in Vietnam, appassionato repubblicano. Sfoggia con orgoglio un tatuaggio raffigurante la sua unità terrestre ai tempi di Saigon e considera Obama un "negretto comunista" (cit.). In quegli anni il cugino di mio padre era domiciliano a Fresno, la tredicesima città più pericolosa della California e che non ha nulla a che vedere con gli stereotipi con i quali ero cresciuto come tanti miei coetanei. Ho capito solo più tardi che la California, quella più maledettamente intima, periferica, esplosiva, non aveva nulla a che vedere con le piscine luccicanti di Hollywood Boulevard.

Zen fascists will control you / 100% natural / You will jog for the master race / And always wear the happy face

L'avventura hippie e la sua tragica fine nel bagno di sangue della famiglia Manson che lasciò il posto all'esperienza politica del Reagan governatore (dal 1967 al 1975), potrebbe, con un po' di immaginazione, sottostare alla terzo principio di Newton, quello che sostiene che a ogni azione corrisponda una reazione uguale e contraria.

La cosmogonia dell'hardcore californiano è una storia diversa dalle altre cosmogonie musicali. L'hardcore fu un prodotto dell'odio nei confronti delle rockstar, dello stile di vita alto borghese che affollava i rotocalchi popolari, un odio nei confronti dei telepredicatori, dei buddisti di quartiere e di tutto quello che aveva fatto della California la periferia dell'Occidente, El Dorado di cartone.

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Lineup mica male!

"A parte qualche quartiere metropolitano come Downton Los Angeles e Hollywood, la California del Sud è un unico, gigantesco, sterile sobborgo residenziale. A est di LA gli sterminati insediamenti urbani sfumano nel deserto. A ovest, c'è un oceano infinito. A nord c'è la San Fernando Valley. A sud si stendono gli innumerevoli raggruppamenti di famiglie che cercano di vivere il Sogno Americano. Una mezz'ora a sud di Downtown LA trovi le cittadine balneari complessivamente note come South Bay, poi la Orange County e ancora più in là San Diego per finire in Messico. L'hardcore è nato in questi inurbamenti periferici. […] Molti ragazzi della South Bay erano ex surfer e metallari sniffatori di coca." (American Punk Hardcore, Steven Blush)

La musica giovanile di quegli anni è ben nota e ha i nomi di artisti, eventi e gruppi famigerati come Henry Rollins, Keith Morris, la SST Records, l'incidente autostradale di D. Boon, le performance ubriache di Darby Crash. Per il sottoscritto, il gruppo più sottovalutato, casinista, irriverente e maledettamente geniale sono stati i Fear di Lee Ving.

Lee James Capabellero in realtà nacque a Philadelphia e solo nel 1977, a 27 anni, si trasferì a Los Angeles. Nel 1978 spunta fuori il primo singolo, "I Love Livin' in the City":

Spent my whole life in the city / Where junk is king and the air smells shitty / People puking everywhere / Piles of blood, scabs and hair / Bodies wasted in the street / People dying on the streets / But the suburban scumbags they don't care / They just get fat and dye their hair

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Nel 1975 Alice Cooper fa uscire il suo primo album solista, Welcome To My Nightmare. I Fear ne riprendono l'indole "shock" e la violenza testuale, per trasportarla verso un livello tecnicamente forse inferiore ma più veloce, ispirata dalle esperienze di vita adolescenziale delle zone suburbane di Huntington Beach.

Il breve successo dei Fear è legato a due eventi mediatici. Il primo dei due è il leggendario documentario di Penelope Spheeris, The Decline of Western Civilization. Lee Ving e compagni erano soliti far incazzare il pubblico, un modo come un altro per scatenare qualcosa che andasse ben oltre qualcosa che fosse un semplice pogo, piuttosto uno slam.

"Si passò da quella cagata del pogo al vero slam. […] Abbiamo iniziato a suonare alla velocità del pensiero e il pubblico impazziva, nel pit la gente si faceva a pezzi" (Lee Ving in American Hardcore)

The Decline… è il documentario che arrivò per primo a descrivere le strutture sociali dell'hardcore, opera etnomusicale imperdibile. Una delle scene più utili a comprendere i rapporti tribali all'interno dell'hardcore californiano del 1980 è sicuramente quella che vede la band di Lee Ving insultare apertamente il pubblico con attacchi sessisti ed omofobi. Una ragazza presente in prima fila se la ridacchia e ricambia un lancio di sputi generale. Poi decide di salire sul palco dirigendosi verso Lee, il quale prima la scazzotta malamente e infine la butta giù spintonandola con la chitarra. La reazione sotto al palco è immediata: dei kids puntano Ving e compagni, la security si intromette e solo dopo qualche minuto il concerto può cominciare. L'intento di Ving era riuscito alla grande. Il pre-concerto di odio reciproco esplode nel live che grazie al documentario è diventato un vero e proprio topos classico dell'hardcore.

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L'infamante scena dello scontro tre Lee Ving e una ragazza in

The Decline of Western Civilization.

"A quel concerto io giravo con una telecamera, e Steve Conant manovrava l'altra. Si trovava proprio nel mezzo del casino, e penso che siano le sue riprese a dare alla scena quella sensazione di minaccia e immediatezza. Quando abbiamo finito di girare a quel concerto lui mi ha detto: 'Mi servirà una gabbia antisquali se vuoi che rimanga ancora là in mezzo'. È stato piuttosto brutale, ma faceva parte del gioco." (Penelope Spheeris su Rolling Stone)

Nel 1981 avvenne il secondo evento che fece dei Fear la band punk più temibile d'America. L'amicizia tra Lee Ving e John Belushi permise alla gruppo di finire a Saturday Night Live, precisamente nella puntata di Halloween.

John Belushi e Lee Ving nel 1981.

Certamente Ving non modificò il suo temperamento in nome dei codici etici televisivi. Ancor meno i suoi seguaci, qualche decina di kids che percorsero miglia e miglia su automobili ammaccate per finire nello studio di SNL e sfondarlo nel giro di pochi minuti. Durante la prima parte del set i fanatici vennero isolati in una stanza in attesa. Il risultato fu che, sentendosi oppressi, sfondarono un pianoforte e i lavandini dei bagni. Ma sono tutti sotto il palco quando partono "Beef Bologna" e "New York's Alright (If You Like Saxophones)", che trasformano quel corpuscolo di sbandati già in fibrillazione nell'equivalente di una brigata di spartani di quartiere. Qualcuno tra la folla urla "New York sucks" (probabilmente un giovane Ian MacKaye, allora già frontman dei Minor Threat).

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Ving si lancia in "Let's have a War" e lo slam non si accenna a calmarsi quando la regia, in preda allo sbando, decide di tagliare in dissolvenza con un applauso registrato e concludere con uno spot. Le guardie di sicurezza del canale televisivo tentarono di calmare gli animi, ma solo l'arrivo della polizia impedì la distruzione totale dello studio. I kids fuggirono disperdendosi tra la folla in maschera del centro di Manhattan la notte di Halloween. Un articolo nel New York Post stimò qualcosa come 200.000 dollari di danni. "Lavoro in questo campo da anni, ma non avevo mai visto nulla del genere", riferì un tecnico della NBC. "È stata una di quelle situazioni di pericolo vitale, è una fortuna che nessuno ci sia rimasto secco".

Il leggendario live a SNL.

La realtà dei fatti al di fuori delle cazzate dei giornali era ovviamente meno disastrosa, tempo dopo il portavoce della NBC affermò che in soldoni la cifra era più bassa, ma l'effetto sociale rimase invariato. L'America del neo-presidente Reagan aveva scoperto l'ultima mutazione del punk, la bomba misantropa chiamata hardcore. Una roba per dei ragazzini che facevano sembrare i concerti degli Stooges e Ramones una festa di compleanno delle elementari.

Riascoltare oggi i Fear è prendere coscienza di una band che aveva ufficialmente aperto uno spiraglio sul crossover con un assolo di sassofono a scandire la rabbia giovanile della suburbia, sostenuta dalle abilità orali di Ving, sempre in bilico tra l'ottimo comedian capace di fare stand up estrema e un totale coglione redneck.

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Le certezze arrivano con il loro primo album, prodotto sulle ali di quel breve ed intenso successo. The Record, prodotto dalla leggendaria Slash Records di Bob Biggs (tanto per fare qualche nome si potrebbero citare Gun Club, Germs, Misfits), è composto da 14 tracce. La prima è la dichiarazione di guerra civile delle periferie californiane, "Let's Have a War". In "Beef Bologna" la voce di Ving e la chitarra di Philo Cramer omaggiano il blues più sporco del sud con un testo schiettamente sessuale, dove la mortadella viene paragonata al desiderio femminile nei confronti del membro.

"I Don't Care About You" esalta l'alienazione della vita metropolitana, dove qualsiasi bruttura del mondo civile ("I saw a man who was sleepin' in his own puke / And a man with no legs crawlin' down Fifth Street / tryin' just to get somethin' to eat") viene esorcizzata a furia di individualismo ("I don't care about you, fuck you!").

È nel quinto pezzo, il già citato "New York's Alright (If You Like Saxophones)" che dà più spazio alle capacità artistiche della band, che in 2 minuti e 8 secondi si destreggia tra punk e free jazz in nome di una città che ami se adori l'arte e le malattie veneree ("New York's alright / If you wanna get pushed in front of the subway / New York's alright / If you like tuberculosis / New York's alright / If you like art and jazz / New York's alright / If you're a homosexual").

In "We Destroy The Family" si inneggia all'omicidio della madre e del padre. Sono passati poco più di dieci anni dagli arresti sul palco di Jim Morrison, allora visto come il demone tentatore delle tredicenni puritane d'America. Nel 1980 i Fear maledicevano quella stessa libertà di costumi del Re Lucertola. I Fear deridevano, con una ferocia anarchica e spesso confusa con un atteggiamento da estremisti di destra, quel pastrocchio di mondo sorto miscelando il bigottismo delle classi borghesi d'America e l'esplosione delle droghe con i lati oscuri del fallimento del progetto hippie californiano. Dietro alle ondate di costruita omofobia e sessismo viveva una rabbia che prende forma verso le ultime canzoni dell'album, culminando in una cover a duecento all'ora di "We've gotta get out of this place".

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In The Record al basso, voci d'accompagnamento e sassofoni vi era l'altra anima importante della band, Derf Scratch. In The Decline… lo si vede sputare con una certa eleganza verso il pubblico, oltre che insultarlo pesantemente. Entrerà nella storia della fenomenologia del linguaggio punk per una scena nella quale pronuncerà le immortali parole "Eat my fuck".

Derf, il cui vero nome era Frederick Charles Milner III, negli anni successivi non abbandonò sassofono e basso, anche dopo l'uscita dai Fear ed il suo avvicinamento alla musica country. Anch'egli, come Ving, amico di John Belushi e appassionato cocainomane, infine alcolizzato imperterrito, morirà nel 2010 a causa di problematiche legate ad un fegato che aveva fatto troppi straordinari non pagati.

Dissonante e rivoluzionario nei confronti del rock e del blues, The Record, seppur noto alla schiera dei fan dell'hardcore americano, non ha mai ricevuto la reale notorietà che si merita. E' stato sicuramente più comodo portare alla Rock and Roll Hall of Fame un gruppo punk-pop come i Green Day (inseriti nel 2015), che al massimo della loro riottosità hanno scritto un album cattivello nei confronti dell'era di Bush Jr. (American Idiot nel 2004, in un momento in cui attaccare l'allora Presidente andava di moda come portare i baffi a manubrio in un porno del 1978). Difficilmente vedremo finire nella RnR Hall of Fame quelli che hanno cantato davanti a una platea di minorenni "I just wanna cum in your face / I don't care if you're dead" ("Fresh Flesh").

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Nel 1985 esce il secondo album dei Fear, More Beer, per la label Restless. Meno rivoluzionario, ma sempre dissacrante, multiforme e casinista, con Derf Scratch già assente ma con Philo Cramer alla chitarre e Stip Stix alla batteria.

Nel 1985 d'altronde la scena hardcore stava già attraversando, dalla California a New York, le scosse di violenti terremoti che l'avrebbero fatta cedere ed esplodere in una pioggia di sottogeneri. Una rivoluzione reazionaria con le ore contate.

Oggi Lee Ving è certamente un uomo diverso da quello visto in The Decline of Western Civilization. Ha 66 anni e si porta appresso la maturità di chi è sopravvissuto a tante e troppe cose. Si dice che se ai suoi concerti qualche skin con evidenti atteggiamenti nazi o violenti si metta a fare troppi casini, da sotto il palco Ving si adegui a buttarlo fuori dal locale. Certo è che sul viale del tramonto le ambiguità e le stronzate di una vita escono fuori. In una corposa intervista rilasciata a Mark Prindle Derf Scratch mise in mostra le intemperanze comportamentali di Ving: dalle letture del Mein Kampf a quando Derf scorì che Lee teneva di nascosto per sé parte dei guadagni della band. Il comportamento del cantante nei confronti di Scratch è diventato sempre più insofferente, al punto da arrivare a un ancora inspiegabile licenziamento.

I Fear invece non esistono più, mettiamola così. Ving per anni ha tenuto in piedi una baracca che con la formazione originale non aveva niente a che vedere. Quasi una ventina di musicisti hanno attraversato trent'anni di band. Per tornare agli inizi di questo articolo, c'è un filo che tiene uniti il gruppo di Lee e i Red Hot Chili Peppers: Flea ha suonato il basso nei Fear dal 1982 al 1984.

Flea racconta sua avventura nei Fear

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L'ultimo album in studio è datato 2000 e intitolato American Beer, ma in realtà è un insieme di tracce scritte da Ving vent'anni prima.

Basta una veloce consultazione di Wikipedia per farsi un'idea dell'importanza della band sull'underground (e non solo) musicale dal 1985 in poi. In film di culto come Repo Man (1984) e SLC Punk (1998) è possibile ascoltarli in compagnia di altri miti come Suicidal Tendencies e Dead Kennedys; band lontane dagli stili estremi del Fear, come Soundgarden e Guns n' Roses, hanno coverizzato "I don't care about you".

Negli ultimi anni è il mondo dei videogiochi, curiosamente, a omaggiare l'epica hardcore: in Grand Theft Auto V potreste decidere di rapinare una banca, fare una strage di poliziotti e fuggire a bordo di un auto rubata sintonizzata sul canale radio Channel X, accompagnati dai brani degli Adolescents e dei Germs, oppure da "The Mouth Don't Stop (The Trouble With Woman Is)", la prima traccia di More Beer. Inutile chiedersi il perché di questa scelta.

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