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Il punk non è morto, il punk non esiste

Una riflessione sulla sottocultura più depredata e contraddittoria della storia, a partire dal chiodo di Kim Kardashian.

Sto per scrivere una cosa che potrebbe costarmi svariate mail di odio dalla punk police (ammesso che ne esista ancora una in Italia e gliene fotta qualcosa di quello che faccio io), ma ecco, quando ho visto Kim Kardashian con quel chiodo da punk, quello che ha fatto incazzare un sacco di gente, invece che inveire contro l'appropriazione culturale e lo sfruttamento vampiresco delle sottoculture un tempo radicali, mi sono più che altro chiesto: "ma sta roba tira ancora?" Nel senso che ho domandato a me stesso cosa ci sia poi di così sfrontatamente e avanguardisticamente fashion in una giacca di pelle borchiata con la toppa dei Disclose, tanto da farlo indossare a Madame West. Mi pareva che al momento ci fossero mondi più caldi da saccheggiare. L'unico pensiero di rammarico è semmai andato al povero Hideki Kawakami, che non è più su questa terra da quasi un decennio e non può manco godersi il piacere di insultarla. Il punto è: non mi sono scandalizzato. E no, non è una sopragggiunta maturità intellettuale, perché giusto oggi avrò insultato su facebook tipo otto persone che non mi andavano a genio. Non credo, onestamente, si tratti nemmeno di pura rassegnazione. Ok, certo che il punk ha fallito, ma il punto è proprio questo: se la necessaria sconfitta, lo sguardo strafottente a un fallimento già dato è vera forza e l'unico vero trait d'union di tutte le idee che si siano mai riconosciute come "punk", mi sono anche sempre un po' schifato quando anche questa parola si ripiegava sulla difesa degli stilemi di una cultura, di un territorio sociale. Non che in quarant'anni di storia siano mancati esempi di questo comportamento. Anzi: direi che è stato uno degli atteggiamenti più tipici delle comunità punk hardcore per decenni, che a mio avviso hanno portato alla stagnazione che sentiamo ora in Europa. Se invece in America una cultura punk è ancora percepita come viva e vitale è perché si è radicata molto di più nella cultura, se non mainstream, proprio popolare, nei modi di vivere e di raccontarsi della gente di tutti il paese. È un processo iniziato tantissimo tempo fa e lentamente consolidato. Ma appunto, non ci eravamo raccontati che per essere punk dovevamo rappresentare l'opposto di questo? Non dovevamo rappresentare la differenza, la frattura, l'incapacità di mentirsi di fronte a un'urgenza vitalistica troppo forte per essere accantonata dall'integrazione sociale? Era in qualche modo inevitabile, perché parliamo di un mondo nato già morto, in una terra di mezzo tra il fichettismo più spudorato e la parodia grottesca di un umanesimo in coma. È stato fisiologico che, mentre la cultura ufficiale, una volta confrontatasi con questa nebulosissimo grappolo di idee e significanti chiamati punk, iniziava ad applicare il termine a cazzo un po' dove gli faceva comodo e a delinearne una mitologia approssimativa e sbagliata (madonna le fregnacce su Sid Vicious…), che di tanti quelli che avevano preso sul serio quella parodia si trincerassero dietro una muraglia che spesso però gli impediva anche di confrontarsi realmente con la realtà. Eppure le derive sono state infinite, le contraddizioni interne altrettante: comunità o teste diverse producevano concezioni totalmente diverse di come si potesse essere punk. È una confusione che, guardandomi indietro, mi pare avere riempito e condizionato oramai gran parte della vita cosciente, ma che in fondo mi ha tenuto sveglio e sulle punte ogni volta che si ripresentava sotto forma di contraddizione quotidiana.

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I Crass. Al netto dei sottogeneri, è in effetti parecchio disorientate fermarsi a pensare come questo ombrello possa avere tenuto sotto di sé tanto la militanza determinata dei Crass quanto la dissacrazione totale di GG Allin, tanto le lacrime adolescenziali dei Portraits of Past​ quanto la brutalità dei Man Is The Bastard​, tanto l'epica spirituale degli Amebix​ quanto il dogmatismo degli Earth Crisis​, tanto gli inni working class degli Angelic Upstarts​ quanto le invenzioni eclettiche dei VSS​. Ma anche non cagando la musica, è la definizione di un gesto come "punk" a essere sempre stata sempre possibile quindi sempre impossibile. Un gesto provocatorio e sfrontato è punk, un gesto di estrema coerenza è punk, un atto di caciara gratuita senza pretese è punk, un processo di innovazione radicale è punk. Il fondamentalismo straight edge è punk quanto i Chumbawamba che fanno il disco su major per poi dare tutti i soldi a gruppi anarchici e ambientalisti inglesi? E gli At The Drive In che firmano su major ma mantengono in vita una label importantissima per l'ultra-underground? Erano punk gli Einstürzende Neubauten che picchiavano su latte dell'immondizia impazziti di anfetamina, perché non avevano i soldi per una batteria vera? E i Cro-Mags, che reagivano alla violenza della strada con un'estetica compatta e machista, oggi come li definireste politicamente? In comune ai diversi soggetti, a parte quanto detto prima, c'era forse anche l'indecisione sul come posizionarsi in quanto "ribelle": se il moto di differenza è qualcosa che si produce solo insistendo sulla propria alienazione individuale o come frutto di una solidarietà e di un lavoro comune. Esattamente come sopra, questa ambiguità è forse una delle cose più interessanti e incisive tra quelle associabili alla parola "punk", e si riflette in maniera alternativamente problematica sia su quanti la abbiano interpretata come uno sprone sincero all'innovazione sociale tramite la produzione di nuovi modi di vivere (e perfino nuovi valori) che su quelli per cui tutto si riduceva alla mera distruzione. In fondo, ciascuna testa che si sia una volta o l'altra acconciata con idee punk ha vissuto una sua definizione di quale dovesse essere lo spirito autentico di questa cultura. E quelli come Stewart Home che hanno provato a demistificare l'immaginario e riportare tutto dentro la cultura popolare degli anni Settanta, pure se avevano ragione, hanno fatto un lavoro inutile. Del resto per qualcuno (tipo per i Crass) rivendicare il punk voleva dire strapparlo completamente dalle mani di chi lo aveva creato, e stravolgerlo. In fin dei conti, definire il punk è per tutti un atto autobiografico: vivere secondo una sensazione che non può e non sa ridursi alle pulsioni dell'adolescenza, che diventa un modo più o meno consapevole di porsi nei confronti degli altri e di sé stessi, di volere stare al mondo. Qualcosa che influenza l'ingresso nell'età adulta, la possibilità o meno di accettare l'idiosincrasia del mondo. Questo fa anche sì che anche le date di nascita e morte del punk siano assolutamente relative. Possono più o meno coincidere con le fasi della propria disillusione, ma anche no. Punk is dead, Punk's not dead... Anche per chi ha sviluppato presto un'incapacità di usare la parola stessa, l'attraversamento della cultura punk può non essersi concluso, anche per semplici questioni di abitudini sociali, o per incapacità di trovare uno sbocco ulteriore alla propria vita (e, appunto, trovatemi qualcosa di più punk di questo). "Distruzione" è un'altra parola chiave: è forse la prima manifestazione di quella urgenza che ho nominato finora. Cruciale in senso sia positivo che negativo: una generazione poteva prendere le mosse dalla furia distruttiva di quella precedente per iniziare a costruire la propria idea di mondo, chiamandosi comunque punk, comunque hardcore. In ogni caso si tratta di un moto fondamentale per la creazione di uno spazio creativo. Persino i "ricostruttori" più dogmatici si sono quindi fatti largo a partire da una necessità di scrollarsi di dosso le strutture esistenti. "Il carattere distruttivo non ha bisogno di essere capito" diceva Walter Benjamin, ed è appunto da qui che nasce l'irriducibilità del punk oltre che la sua principale rilevanza non-ideologica ma, cazzo, politica.

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L'ennesimo paradosso sta nel fatto che pure la distruzione è inesauribile, che le forze punk non sono ovviamente sufficienti a fare davvero spazio. Ma anche questa è una condizione già accettata in partenza. Da cui la sconfitta, il fallimento come presa di posizione necessaria. Ma come si misura? Anche qui: fallire le aspettative della cultura punk stessa è un modo di tradirla o rinnovarla? Trincerarsi dietro una appartente resistenza culturale che invece porta alla stagnazione non è forse mettersi al riparo dal fallimento? Non è anzi proprio la negazione della necessità di esistere? Tanto la distruzione quanto il fallimento, per essere costruttivi hanno bisogno di avere al loro servizio una creatività sfuggente, una determinazione che sappia leggere la realtà. Ma appunto: sticazzi del chiodo di Kim Kardashian. Dovrebbe essere la stessa cultura punk a sputare sui propri simboli, a non curarsene. Del resto, come si diceva, di appropriazioni fashion ne esistono dal primo giorno: la stessa deriva di Vivienne Westwood, i braccialetti con le borchie di Fiorucci, le cooptazioni di ogni significante-base possibile (sia musicale che estetico). Le ultime in ordine di tempo sono solo più dettagliate, ma non meno idiote: Angelina Jolie con la maglietta dei Crass, le toppe hardcore di Chris Brown e Kanye West che copia pari pari la giacca di Dave di Raised By Wolves. E infine i chiodi di Enfants Riches Déprimés indossati da Jared Leto e Kim Kardashian. Personalmente penso che più che preoccuparsene abbia senso lasciargli quei significanti, preoccuparsi di averli superati, di essere liberi da quei vincoli estetici di cui dovrebbe essere la stessa fotta espressiva a svincolarsi spontaneamente. Nel 2016, a quarant'anni esatti dalla nascita ufficiale del punk è semmai è il caso di ridiscuterlo da capo, di rivoltarlo e chiedersi perché oggi quelo spirito non sia più efficace, o meglio in che modo si possa aggiornare all'epoca del sovraccarico, dell'intelligenza postumana, dei corpi, delle sessualità e delle nazionalità marginali che riescono finalmente a mostrarsi nella loro complessità. Se c'è una cosa che mi fa orrore a guardarmi indietro verso tutta la storia di questo non-movimento, è quanto (con tutte le grosse eccezioni possibili) per troppo tempo sia stato irrimediabilmente bianco, irrimediabilmente etero, irrimediabilmente maschilista. Che oggi escano libri come The Spitboy Rule: Tales of a Xicana in a Female Punk Band, memorie di Michelle Cruz Gonzales delle Spitboy, è fondamentale per capire quanto la lingua minore per eccellenza abbia peccato troppo spesso degli stessi peccati di quella principale. Allo stesso modo, l'esempio di Laura Jane Grace e delle G.L.O.S.S. fanno uno strano effetto, ci fanno chiedere quanto poco si sia sviluppata, e anzi sia possibilmente regredita, la capacità del punk di rappresentare i margini. È abbastanza triste, se si pensa che i suoi primi sbocci li aveva avuti in mezzo a weirdos feticisti e drag queen in USA, a braccetto con minoranze come quella giamaicana in UK.

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Il motivo per cui forse uno spirito punk fa fatica a riproporsi con le grammatiche di oggi è che il sistema tutto è diventato ineccepibile nella sua capacità di riassorbire le urgenze e smerdarle del tutto. Da una parte c'è sicuramente una incapacità montante di generare in se stessi l'entusiasmo scriteriato che serve per affrontare sia la distruzione che il fallimento, impacciati da una sorta di iper-maniera che in realtà non impone più davvero nessuna estetica sulle altre. La difficoltà è nel riaggiornare quell'entusiasmo all'attuale assenza di realtà. Non è la decrescita la risposta, non è il ritorno alla sincerità dopo l'ironia. È forse finalmente arrivata l'ora di dare una dimostrazione di tutto quello che abbiamo sempre pensato essere il punk, e che non è mai riuscito a essere. E mandare affanculo la romanticizzazione di un mito inesistente. Il problema sta tutto nella accettazione globale del No Future, predizione che si sta affermando su scala vastissima per quanto non più come paranoia del disastro globale, ma più in una cancellazione della possibilità di immaginare un futuro in cui ci siamo "noi", in cui c'è un mondo minimamente riconoscibile. Eppure Se punk non è un cazzo e non è mai stato un cazzo—né un genere musicale, né un'attitudine, né una parte politica—è forse facendo coincidere questo suo vuoto con quello che ci aspetta nel futuro che lo potrebbe diventare davvero qualcosa.

Mi viene in mente che uno dei numeri del King Mob Echo, il bollettino del collettivo anarco-situazionista a cui si ispirò Malcom McLaren, che citando Marx (da Per La Critica Della Filosofia Del Diritto Di Hegel) sfoggiava in copertina lo slogan "Non sono niente ma voglio essere tutto". Oltre a questo, davvero, non mi pare ci sia proprio niente da dire.

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